mercoledì 24 ottobre 2018

Salah Khashoggi nelle mani del carnefice


E’ nello sguardo perso prima ancora che nella mano tesa al carnefice il dramma di certa gioventù saudita. La foto diffusa da un’agenzia di regime che mostra il figlio del giornalista trucidato all’interno di una sede diplomatica del regno a Istanbul doveva servire ai Saud, e a Mohammad bin Salman, per risalire un po’ la china d’una credibilità perduta per sempre. La scena è comunque pelosa, non diversa da quella che abbiamo dovuto sopportare nei funerali di Stato ai nostri delitti di mafia. Quando le Autorità Istituzionali rivolgevano alle vittime le proprie condoglianze. Egualmente il principe ha convocato a corte i figli dell’opinionista odiato e liquidato, appunto per manifestare il suo cordoglio. Orfani e cittadini nel regno i due giovani non hanno potuto esimersi dal trovarsi al cospetto del manipolatore e probabile mandante dell’assassinio. Lui porgeva loro la mano, quelli la sfioravano increduli e atterriti. Se le immagini parlano più di cento parole, lo scatto, l’inquadratura che la regìa politica, oltre che mediatico-propagandista dei Saud ha voluto diffondere rivela il clima d’ipocrisia e terrore presente nella terra dei petrodollari, che è anche la Terrasanta dell’Islam. Quella monarchia padrona della nazione dove sorgono alcuni fondamentali luoghi sacri della fede musulmana, che fa della religione un marchio funzionale al suo ruolo di Stato guida nel mondo arabo, pratica il più bieco cinismo nel relazionarsi ai sudditi e al mondo. Non è l’unica leadership a farlo, è vero. Ma gli ultimi eventi - su cui pesa tuttora l’incognita delle future reazioni internazionali, pur condizionata dagli interessi incrociati che alleati, tutori, avversari di questo Paese possono barattare per fare uscire dalla palude in cui s’è infilato il giovane factotum dei Saud - ne svelano una totale oscenità. Resta l’angoscia sul suo potere di simulazione e di condizionamento: quel giovane che dovrebbe e forse vorrebbe gridare lo sdegno e l’odio verso un carnefice gli porge, pur mollemente, la mano. In un gesto di normalità, dove oltre a una subordinazione al potente criminale, appare la mancanza di prospettive di giustizia e di vita.

martedì 23 ottobre 2018

Omicidio Khashoggi, il dito puntato di Erdoğan


Davanti ai deputati turchi, in quel Parlamento sottomesso al suo potere, Erdoğan si fa portavoce di verità sul macabro complotto ordito ai danni del giornalista Jamal Khashoggi. Ordito nella sua Istanbul, seppure fra le mura neutrali del consolato saudita. Mura, però, parlanti che hanno consentito agli agenti del Mıt di scovare turpi manovre. La ricostruzione del presidente turco è lineare. Khashoggi entrò una prima volta nel consolato il 28 settembre per ritirare i documenti per un nuovo matrimonio (con una cittadina turca). Il passo seguente sarebbe stato la riconsegna di quelle carte e da qui può essere partito il piano per rapirlo o eliminarlo. Il 1° ottobre l’Intelligence turca registra l’arrivo al consolato di tre sauditi, identificati come agenti dei Servizi. Il mattino seguente ne giungono son due voli privati altri quindici che giunti nell’edificio diplomatico si adoperano per rimuovere l’hard disk del sistema di sicurezza esterno. Khashoggi giungerà nel pomeriggio e non uscirà più vivo da quella sede. Una goffa manovra di depistaggio ne mostra una controfigura (un possibile agente saudita) vestito coi suoi panni, calzando però scarpe differenti, particolare che viene notato, offrendo conferma di un’azione di copertura al crimine. Un crimine inizialmente negato dalla casa regnante di Riyadh che rigetta i sospetti lanciati fra gli altri dall’agenzia Reuters. Erdoğan dichiara di aver telefonato personalmente al re Salman il 14 ottobre, invitandolo a unire le forze per un’investigazione comune sulla sparizione e sulle insistenti voci dell’eliminazione dell’opinionista del Washington Post.
Gli ha anche chiesto notizie sulla posizione del console e sul motivo del suo rientro a Riyadh da dimissionario. Dopo negazioni e silenzi, il 19 ottobre l’Arabia saudita ammette la morte di Khashoggi nel consolato, fornendo la versione su una morte accidentale per soffocamento a seguito di un’iniziativa canagliesca compiuta dal gruppo di agenti dell’Intelligence saudita. Il riconoscimento del crimine nell’edificio diplomatico è un passo importante, ma la Turchia chiede una collaborazione per processare sul suo territorio i colpevoli, risalire alle cause, sciogliere il mistero sul cadavere scomparso e i sospetti sullo smembramento del corpo che sembra essere avvenuto con rapidità e organizzazione impressionanti. La presenza in loco di una persona esperta nel campo, confuta la tesi di un’accidentalità della morte, rovesciando completamente il quadro verso una totale premeditazione. Se questo non è vero, incalza Erdoğan, dov’è il cadavere di Khashoggi? perché 15 agenti dei servizi s’incontrano a Istanbul il giorno della sua sparizione? cosa gli è stato ordinato? da parte di chi? E dopo le stoccate un’apertura di credito: “Non ho dubbi sulla sincerità di re Salman, ma poiché si tratta d’un omicidio politico, esso dovrebbe essere indagato e posto in un processo indipendente senza alcun pregiudizio”. Ovviamente è una mano tesa tagliente, con contropartite tutte da scoprire, magari non solo economiche. Sull’omicidio Khashoggi qualcuno inizia a pensare che il rampollo Saud potrebbe rischiare la successione. Altri sono invece convinti che il sangue sarà assorbito da stucchi dorati e petrodollari.

lunedì 22 ottobre 2018

Saud, la dinastia della sega per ossa


Cosa avrà ulteriormente da rivelare il presidente turco Erdoğan sulla storia dell’orrore che da venti giorni tiene inchiodati cronisti d’indagine, analisti e investigatori sulla linea del sangue versato e di quello alimentato dalla sega per ossa che ha smembrato il corpo del povero Khashoggi, lo scopriremo domani. Nell’annuncio offerto con l’enfasi che gli è propria ha annunciato rivelazioni per martedì. Ma ormai fra verità vere e di comodo, il quadro della vicenda è chiaro in tutti i suoi macabri lati oscuri. La versione della corona è stata affidata al ministro degli Esteri saudita al Jubeir, il trait d’union fra le follìe del principe bin Salman e i desideri dei tutori statunitensi. Il viaggio del Segretario di Stato Pompeo dei giorni socrsi deve averne definito i contorni, perciò ora si ammette che il giornalista scomodo è morto, ma casualmente, soffocato dal manipolo di agenti dei servizi giunti a prelevarlo per ricondurlo a Riyadh con la garanzia (sic) di assicurargli sicurezza. I quindici 007 avrebbero agito fuori dalle direttive ufficiali, per questo ora sono stati arrestati, gli osservatori temono che verranno giustiziati o messi in condizione di non rivelare chi li avesse indirizzati a Istanbul.
La presenza all’interno del consolato di Abdulaziz Mutrib, l’ufficiale dell’Intelligence saudita in più occasioni indicato come uomo della sicurezza ‘ombra di bin Salman’, secondo la versione di al Jubair risulterebbe casuale, dovuta a una chiamata di uno dei due organizzatori del blitz Saoud al-Qahtani che aveva conosciuto l’agente a Londra e lavorato con lui. Al-Qahtani, aiutante del responsabile dell’Intelligence saudita il generale Ahmed al-Assiri, avrebbe col superiore organizzato il sequestro di Khashoggi senza che il principe sapesse nulla. Soffocato inavvertitamente con una presa al collo, l’imbarazzante cadavere dell’opinionista dissidente sarebbe stato portato all’esterno avvolto in un tappeto (sic), mentre un agente vestito coi suoi abiti avrebbe simulato un allontanamento dal consolato. Accortosi della goffaggine del mascheramento il manipolo assassino avrebbe rimosso i video delle telecamere di sorveglianza che avevano ripreso l’uscita del finto Khashoggi. Una verità ufficiale piena di falle e contraddizioni che il Mıt turco può confutare in base alle registrazioni sonore già fornite a diversi media, in cui si sentono voci concitate e l’inquietante presenza del ‘dottor smembratore’, Muhammad al-Tubaigy, esperto in dissezioni e autopsie.
La sua figura, la fama professionale, le registrazioni che ne proverebbero l’operato fanno cadere ogni ipotesi di casualità “all’incidente” occorso a Khashoggi, nei cui confronti è stato preparato un attentato in piena regola, secondo lo stile criminale delle Intelligence che non lasciano tracce. Infatti l’esecuzione su un corpo forse solo narcotizzato è stata rapidissima, la vittima è stata smembrata in una quindicina di pezzi finiti in casse di contenimento, trasferite su Van esterni e imbarcate su due voli privati dell’agenzia saudita verso Il Cairo e Riyadh. Sebbene gli inquirenti sospettino che qualcosa possa essere finito anche in un boschetto non lontano dal consolato dopo le pulizie effettuate nelle ore successive alla sparizione. Pulizie e imbiancatura che dovevano cancellare tracce per i sopralluoghi della polizia turca che nulla ha trovato nell’edificio. L’unica, ingombrante, presenza sono le registrazioni sonore, comprese quelle musicali con cui il sezionatore avrebbe ovattato il rumore della sega, distraendo se stesso dall’infame compito. A queste versioni contrapposte la geopolitica ha già da giorni aggiunto il licet offerto dalla Casa Bianca alla corona alleata, avallando anche le goffe dichiarazioni con cui Riyadh scarica la sparizione sul gruppo di agenti guidato da un binomio della sicurezza impazzito. Tutti costoro sono agli arresti a Riyadh, la possibilità che possano narrare la propria versione dei fatti è scarsa, come la certezza della loro reperibilità futura. Il regime della sega per ossa punta a non lasciare tracce.

domenica 21 ottobre 2018

Afghanistan, il voto sotto le bombe



Le terze elezioni politiche afghane ritardate, anno dopo anno, dal 2015 arrivano a scadenza pur fra attentati, sangue e vittime. Ieri a Kabul sono morte una quindicina di persone in un attacco al seggio nella zona di Sar-e Kotal, che aggiunte ai cittadini colpiti a Kunar, Kunduz, Tabag portano a una cinquantina il bilancio di sangue nella sola giornata di sabato. La Commissione elettorale ha prolungato le operazioni di voto in 400 seggi anche stamane, poiché la registrazione elettronica aveva prolungato l’iter di iscrizione nelle sezioni elettorali. Potevano accedere ai 5000 seggi aperti circa 9 milioni di elettori, le notizie fin qui giunte indicano in un terzo i votanti. 2000 seggi non sono stati attivati in quelle province che non offrivano garanzie di sicurezza perché il territorio è sotto totale controllo talebano e questi non consentivano alla gente del luogo l’afflusso ai seggi. E’ accaduto a Ghazni e Kandahar dove giovedì il capo della polizia era finito sotto i colpi mortali dei talebani. La violenza ha anche eliminato alcuni candidati, dieci sono caduti nelle scorse settimane in agguati tesi da taliban o jihadisti dell’Isis, su un totale di 2.565 concorrenti alla sfida elettorale.
Costoro partecipano al rinnovo dei due rami del Parlamento: la Camera Alta (Mesherano Jirga) che prevede 102 eletti, e la Camera Bassa (Wolesi Jirga) con 250 seggi, di cui 68 riservati alle donne. In quest’Assemblea si ripresentava la deputata del Partito della Solidarietà Belquis Roshan, già eletta nel 2012 nella provincia di Farah e nota per le successive vistose contestazioni contro la presenza di Signori della guerra nelle Istituzioni. Dalle prime notizie che ci giungono, il sostegno alla Roshan risulta anche stavolta amplissimo e, se non ci saranno ostacoli burocratici e soprattutto brogli, la determinatissima onorevole potrà continuare il lavoro politico intrapreso a favore delle donne e della cittadinanza del suo distretto. La questione dei voti truccati è un fantasma sempre presente nelle consultazioni afghane ed è stato il motivo del ripetuto rinvio; il riconoscimento elettronico dell’elettore, introdotto in questa tornata, ha solo parzialmente aggirato l’ostacolo del plurivoto e delle schede già contrassegnate. Probabilmente anche in quest’occasione si verificheranno lamentale e contestazioni al momento dello spoglio.
Uomini del governo come il presidente Ghani hanno offerto passerella e voto nell’ipervigilata struttura della Amani High School, sotto i riflettori di Tolo tv, calzando sul capo un turbante tribale, ha ricordato che questo era un passo “di diritto e responsabilità del Paese”, rivolgendo un pensiero ai martiri della libertà, le vittime legate al voto, fra cui ha posto anche il generale Raziq, colpito dai talebani a Kandahar. In altri seggi stessa attenzione alla scheda nell’urna del premier Abdullah, del ministro degli Esteri Salahiddin Rabbani, del rappresnetante dell’Alto Consiglio di Pace Khalili gli uomini dall’oscuro passato contro cui Roshan sollevava i cartelli di protesta nella Wolesi Jirga. Stamane la Commissione elettorale ha iniziato ad ammettere alcune carenze negli stessi seggi vigilati e protetti dall’esercito, nelle sezioni che, ad esempio, non hanno aperto i battenti perché si sono creati forfeit fra il personale preposto all’assistenza al voto. Lì gli iscritti non hanno potuto espletare le operazioni. Anche questi rientrano fra gli incidenti menzionati dal ministro dell’Interno Barmak come intralcio al voto, certo meno sanguinario di quelli provocati da assalti o dall’uso di Ied.

venerdì 19 ottobre 2018

Afghanistan, a due giorni dal voto i talebani eliminano il loro torturatore


Perdere il responsabile della sicurezza del sud dell’Afghanistan è un segno di grande debolezza per il governo che va alle elezioni fra due giorni. I talebani, ortodossi o dissidenti, hanno compiuto quest’azione per esaltare una crisi palese già evidente da anni. L’ammette anche il segretario alla Difesa statunitense Mattis che intervenendo sull’omicidio eccellente chiosa che la morte del generale Raziq “è una tragica perdita”.  Quest’uccisione fa calare la maschera all’essenza stessa del Resolut support, la presenza militare di sostegno ai fantocci politici di Kabul voluta da Washington e praticata dagli alleati Nati, fra cui spiccano i governi romani d’ogni colore (continuiamo ad avere in loco 893 costosi “consiglieri” alla difesa). Ma tutti questi addestratori, preparatori, tecnici militari e ufficiali non riescono a difendere gli stessi capi delle strutture della forza del Paese occupato, visto il modo in cui Raziq è stato ucciso.

In un compound “segreto” a Kandahar dove stava incontrando nientemeno che il comandante dell’Intelligence locale, una guardia del corpo ha sparato a entrambi freddandoli. Non si è trattato d’una momentanea follìa dell’uomo di scorta, ma di una infiltrazione giunta a buon fine da parte di quei talebani, tendenzialmente ortodossi, che controllano gran parte della provincia. Oltre a stabilire le gerarchie di chi comanda in quella e altre zone i taliban, che non hanno rinunciato al tavolo di trattative lanciato nei mesi scorsi dagli Stati Uniti, sottolineano la facilità con cui possono ricorrere ad agguati distruttivi per poi farli pesare politicamente. Fa parte del messaggio anche il mancato coinvolgimento in quest’attentato del generale statunitense Miller, rimasto illeso al fianco dei due bersagli, pensiamo non certo per casualità, bensì per scelta così da poter ribadire al suo Paese una condizione essenziale per le trattative di pace: la fine dell’occupazione straniera.

Il generale Raziq era conosciuto come “capo torturatore di Kandahar”. Odiato da talebani, di cui era acerrimo nemico, e anche da tanta popolazione sottoposta a rapimenti e sevizie perché accusata d’essere un sostegno per l’insorgenza. Era invece lodato come un patriota - e non solo ora ch’è morto - dai leader politici degli ultimi anni (Karzai e Ghani), dal comando Nato e da vari direttori della Cia. Di certo gli addestramenti particolari che l’Intelligence statunitense impartisce alla polizia afghana, avevano trovato nel pashtun che girava le spalle alla sua etnìa un interprete molto zelante. La ferocia con cui Raziq aveva agito in svariate occasioni faceva di lui un soggetto venerato dai suoi reparti, temuto dalla gente, odiato dai turbanti. Esisteva anche una narrativa attorno ai molteplici attentati (si parlava di trenta) cui era scampato. Alcuni commentatori, evidenziando il ruolo duramente critico avuto dalla vittima coi vertici pakistani, che accusava d’ingerenza nelle vicende afghane, lanciano l’ipotesi che a decidere la sua sorte sia stata l’Isi pakistana. Un risvolto tutt’altro che nuovo negli oscuri meandri creati dalle agenzie in tutta la regione.

mercoledì 17 ottobre 2018

Caso Khashoggi, la mala-geopolitica


Sulla vita, quasi sicuramente perduta, e sulla pelle dell’opinionista Jamal Khashoggi la geopolitica sta giocando una partita complessa nello spigoloso triangolo di alleanze volute e di comodo fra Stati Uniti, Arabia Saudita e Turchia. Il presunto delitto, diventato caso internazionale, compiuto in terra turca per mano d’un manipolo di agenti vicini al principe bin Salman, sorvegliati in ogni modo da colleghi turchi che dispongono di prove scottanti sull’efferatezza e il cinismo del gesto, mettono al cospetto di Trump, Salman jr ed Erdoğan il caso esplosivo. Il presidente americano, dopo aver tuonato contro l’inavveduto rampollo della petromonarchia, dà pieni poteri di rappresentarlo al Segretario di Stato Pompeo e lui usa un linguaggio molto più che diplomatico. Usa i toni untuosi della politica internazionale che trattano ogni argomento, anche il più scabroso coi guanti per poterlo maneggiare anche quando, come in questo caso, gronda sangue. Così il faccia a faccia fra Pompeo-bin Salman è risultato stucchevole come i paramenti del salotto che l’ha ospitato, una finzione, un gioco delle parti. Mbs ha ribadito di non saper nulla e d’indagare a tuttotondo, come se ripetesse il copione recitato ancor’oggi da quell’altro satrapo dell’area che risponde al nome di al -Sisi. Chi fa rapire, torturare, assassinare afferma di non sapere e d’impegnarsi a chiarire.
Ma su Khashoggi non trascorreranno mesi e anni per comprendere chi siano mandante e assassini. Parecchio è chiaro, i secondi sono quasi scoperti. A fare le pulci a ciò che la politica prova a celare, seppure fra ricatti ricorrenti e contropartite, è la stampa internazionale, anche quella blasonata che non si prostra al potere. Così il New York Times rompe le uova diplomatiche portate da Mike Pompeo a Riyadh. La testata newyorkese pubblica una serie d’immagini che mostrano un uomo, Maher Abdulaziz Mutreb, già ‘funzionario’ a Londra oltre un decennio fa e probabile guardia del corpo del principe bin Salman. Certamente nei mesi scorsi sua ombra in ogni viaggio, specie occidentale (Madrid, Parigi, Houston, Boston). Mutreb appare in ogni foto scattata alla delegazione saudita, a debita distanza ma con lo sguardo puntato sulla keffia reale. E nella ricerca del pool giornalistico statunitense non è il solo. C’è almeno un altro fedelissimo agente della guardia personale di Mbs fra la quindicina di appartenenti all’Intelligence di Riyadh sbarcati e volati via da Istanbul nella giornata del 2 ottobre su jet privati. In più gli zelanti colleghi turchi, che hanno registrato voci e grida all’interno del consolato dalle spade incrociate, hanno diffuso la nota della presenza anche del dottor Muhammad al-Tubaigy, medico forense accreditato presso il ministero degli Interni saudita.
Professionista noto per le sue pubblicazioni su autopsie mobili. Sarebbe stato lui a praticare la dissezione del cadavere del giornalista in pochi minuti, da sette a dieci. Eppure in questo fosco scenario fosco la geopolitica che definisce ‘carognesco’ il delitto sta già cancellando le responsabilità del mandante, senza inchiodarne i referenti pescati da inchieste giornalistiche e dall’azione del Mıt. Gli Stati Uniti non rischieranno di disfarsi del potente seppure invadente principe che per capacità ciniche e autoritarie risulta una pedina utile nella regione, come utili sono gli al Sisi, gli Haftar, anche un Asad disponibile e orientato non solo verso Mosca. Erdoğan chiuderà gli occhi su un delitto rivolto a una categoria che certamente non ama, soprattutto se verrà aiutato dai petrodollari a superare le difficoltà finanziarie del Paese che da mesi si riverberano sui vertici politici. Che questa sia la strada lo dimostra un’altra sparizione, senza delitto, stavolta del console saudita al-Otaibi, la cui abitazione è stata perquisita dopo che la sua voce era riconoscibile nella registrazione-chock con torture (col taglio delle dita) inferte a Jamal Khashoggi, prima del definitivo assassinio e dello smembramento del suo corpo. Otaibi già da due giorni è rientrato a Riyadh. Dal 2 ottobre scorso  nessuno l’aveva fermato.

lunedì 15 ottobre 2018

Afghanistan oltre le elezioni


Ha viaggiato per una dozzina di giorni attraverso Afghanistan, Pakistan, Emirati Arabi, Arabia Saudita e Qatar Zalmay Khalizad, l’uomo che il presidente americano Trump ha nominato da una quarantina di giorni suo inviato speciale per l’Afghanistan. Ora, a Doha, ha avuto il primo incontro coi Talebani, che dall’estate scorsa hanno incontrato una delegazione statunitense. Le due sponde discorrono attorno a possibili accordi di pace, quel piano che il presidente afghano Ghani fa suo da mesi rivendendolo nelle elezioni in scadenza del prossimo 20 ottobre. In alcuni distretti si sta già votando, in altri è impossibile farlo o comunque pericoloso. Venerdì a Takhar (120 km est da Kunduz) la zona circostante a un seggio è stata oggetto d’un attentato che ha ucciso 14 persone e ferito oltre trenta. E’ il quarto della serie, stragi compiute non dai talebani colloquianti, ma da coloro che dissentono dalla linea tenuta a Quetta, parlano di Califfato e duettano col Daesh firmandosi Isis afghano. I turbanti ortodossi, nonostante i ripetuti inviti governativi a entrare nel governo e in Parlamento, boicottano la consultazione elettorale, però non attuano la linea aggressiva tenuta altrove. La linea del controllo del territorio che in tante occasioni li ha spinti ad attaccare l’esercito nazionale, fuori e dentro le caserme, tanto per mostrarne inefficienza e palesi limiti organizzativi ed esecutivi.
Infatti a Ghazni, nella settimana di fuoco dello scorso agosto, la forza talebana ha umiliato l’Afghan National Army, sebbene quest’ultimo la sopravanzasse numericamente. Per l’ennesima volta sono stati i marines a salvare gli alleati in divisa e tale fattore, assieme al controllo totale di sette, otto province, e parziale di un’altra decina, convince diversi capi talib di poter riprendersi Kabul, non solo per attentati o azioni dimostrative. Comunque una componente talebana non esclude i colloqui. Ha solo finora posto un’unica condizione: ritiro delle truppe Nato, che significa un proprio dominio assoluto su ogni provincia afghana, visto la vaghezza delle forze armate locali. Allora, se non ci sarà quell’abbandono del dialogo accaduto in altre circostanze, ciò di cui si discuterà è chi e cosa resterà in terra afghana. I passi di Ghani, suggeriti dal Pentagono prima ancora che dalla Casa Bianca, propongono ai taliban l’ingresso in un’alleanza di governo, in cambio chiederanno il mantenimento delle nove basi strategiche, create nei 17 anni d’occupazione statunitense. Le basi degli F16, degli AC-130, dei droni che decollano verso obiettivi diversi ma sempre portando morte e stabilendo dominio. Mollare questo bene strategico è per ogni amministrazione statunitense impossibile.
Non si tratta di posizioni democratiche, repubblicane o tantomeno personali alla Trump, la natura strategica di Washington prevede presidio e controllo in aree considerate strategiche, ovunque nel mondo. E nel Medio Oriente profondo oggi misure e contromisure si sono addirittura accresciute rispetto al 2001. Allora torniamo a Khalilzad, un pashtun di Mazar-e Sharif, già ambasciatore statunitense alle Nazioni Unite durante l’era Bush jr, formatosi in epoca dell’invasione sovietica al suo Paese alla Columbia University e già nel 1985 funzionario per il Dipartimento di Stato americano. Questo per dire che il diplomatico, oggi sessantasettenne, è un afghano fedelissimo alla politica Usa che ha servito in varie epoche le più varie strategie attuate dallo Studio Ovale. Tutto ciò non sfugge agli interlocutori in turbante, e seppure dovessero non essere completamente aggiornati su curriculum e trascorsi, saranno i concetti messi nero su bianco a confrontarsi. I taliban diranno: via le truppe, la delegazione guidata da Khalilzad non cederà sulle basi. E’ qui il nodo. Per il resto, e per Ghani stesso o chi lo dovesse rimpiazzare, i fondamentalisti di Quetta potranno unirsi a quelli che già siedono nella Loya Jirga.

sabato 13 ottobre 2018

Mohammad, Ahmed, Afifi martiri in corsa per la vita


Corrono verso la morte. Cos’altro possono fare il ventunenne Mohammad, due Ahmed, uno 27 l’altro 17 anni, Afifi 18 e altri giovani, ammazzati ieri in sette, bersaglio fisso e mobile dell’esercito israeliano sul confine di Gaza? Cosa possono fare quei giovani uomini e donne sui quali si scaricano pallottole dal 30 marzo scorso e hanno visto distesi duecentoquattro cadaveri di fratelli e sorelle. E migliaia, migliaia di feriti. Ogni venerdì una mattanza giustificata dai killer con ordini precisi, dagli statisti d’uno Stato criminale un’autodifesa a difesa del diritto di assassinare i palestinesi. Cosa può fare questa gente abbandonata, frustrata, derisa dal mondo che guarda altrove, ai suoi tanti drammi certo, ma lasciando alla deriva tal’altra tragedia diventata crimine perpetuo da settant’anni. Cosa possono fare le giovani vittime di reiterate negazioni del diritto a vivere coi propri cari e lavorare e studiare nei luoghi secolari abitati dalla propria gente. La protesta bersagliata dal piombo di Tsahal questo dice: diritto al ritorno nelle terre dei padri per i rifugiati ammassati da decenni nei campi profughi del Medio Oriente.
E da mesi, ogni venerdì, sul confine della Striscia si ripete il macabro rituale del sanguinario tiro al bersaglio su quella richiesta di ragione violata. Un privilegio che Israele reclama per sé, introducendo coloni che nulla hanno a che fare con quella terra poiché i loro avi hanno vissuto altrove, da secoli. E anche la proposta di far convivere accanto gli uni e agli altri, con simili regole, seppur in condizioni socio-economiche diverse, viene rifiutata per princìpio dai governi di Tel Aviv che applicano da decenni il piano di cancellazione di Palestina e palestinesi. A loro non viene concesso nient’altro che emarginazione e oppressione, mentre i potenti amici di Israele cantano cinicamente una litania di morte. Eppure quei gazawi su cui Israele spara, corrono per la vita. Il loro agitarsi, urlare, bruciare copertoni, sventolare stendardi parla di futuro che possono garantirsi solo rivendicando l’uscita dall’apartheid proposta e praticata dal sionismo pratica come modello di sistema. Sono ragazzi della vita, non giovani kamikaze che si danno la morte per una guerra santa. Eppure muoiono anch’essi. Ma muoiono per la mano d’un boia capace di piegare il senso di giustizia alla sua volontà di potenza politica, religiosa, razziale.

venerdì 12 ottobre 2018

Caso Khashoggi, la forza delle spie


Il mistero criminale di cui è vittima l’opinionista saudita del Washington Post, Jamal Khashoggi appare come un’aperta sfida di Intelligence, oltreché ormai come elemento di tensione regionale. Ieri proprio la testata statunitense che ospitava le valutazioni critiche di Khashoggi sui regnanti del suo Paese ha rivelato di aver ricevuto testimonianze sonore e visive dell’agguato teso al giornalista. Egualmente Al Jazeera ha ricevuto quel materiale da soggetti informati della vicenda che possiamo supporre trattarsi di agenti sauditi doppiogiochisti oppure del lavoro di spionaggio svolto da cimici e microcamere installate in loco dal Mıt erdoğaniano per controllare i concorrenti mediorientali. Così nelle registrazioni si riferiscono ‘voci concitate, urla strazianti’, con uno scenario più da mattanza mafiosa che da poliziesco classico. E comunque ciò fornisce un solido elemento a quella che finora era solo un’ipotesi avanzata da oppositori di bin Salman, sulla tendenza principesca di far eliminare fisicamente soggetti a lui sgraditi. Del resto, da oltre un anno, questa è diventata assai più d’una diceria.
Diversi cittadini sauditi sono scomparsi o svaniti nel nulla, e il principe saudita Khaled bin Farhan, riparato in Germania per garantirsi l’incolumità, ha rivelato di non aver mai accolto gli inviti rivoltigli dalle autorità saudite di recarsi al Cairo, neppure quando lo allettavano col ritiro di assegni a suo favore. Temeva per la sua vita. Ovviamente queste rivelazioni esplicite e, ancor più, la documentazione in mano ai Servizi turchi, rimasti inizialmente in attesa, mostrando sulla vicenda quasi un’acquiescenza alla vaghezza negazionista di Riyadh, stanno ora creando problemi alla corona Saud. Proprio da parte statunitense c’è una reazione caratterizzata da abbandoni di contratti pubblicitari di aziende legate all’informazione. Così il gruppo britannico Virgin ha congelato un fondo d’investimento di un miliardo di dollari previsto in questa fase in Arabia Saudita. Bisognerà vedere come reagiranno le componenti a stelle e strisce con cui MbS stabiliva accordi per diversificare i finanziamenti, cercando alternative ai proventi derivati dagli idrocarburi. Dunque Wall Street, Silicon Valley, Hollywood.
Più in difficoltà il pluri defezionato staff del presidente americano che, con gli incaricati che restano e i sostituti di licenziati, dimissionati e costretti al ritiro, deve giustificare non tanto la folkloristica “danza delle spade” della primavera 2017 di Trump a Riyadh, ma i benestare interni e regionali a ogni mossa del principe Saud, anche quelle doppiste e torbide. Con l’uscita allo scoperto della Turchia, nazione dove la sparizione è avvenuta e il probabile assassinio compiuto, il rapporto già difficile fra due megalomani del potere in Medio Oriente (MbS ed Erdoğan) può prendere la piega peggiore. Il giovane, ben prima dell’incoronazione, si dimostra addirittura più umorale, inaffidabile, invasivo del politico che ha impiegato 15 anni per plasmare a suo piacimento la Turchia. Eppure osservatori economici sostengono che sarà la fase economica e gli interessi di entrambi ad attenuare i furori dei due competitori. Il reciproco bisogno di ricevere (la Turchia) e far fruttare i capitali (l’Arabia Saudita) possono attenuare le divergenze, anche quelle conosciute nell’ultimo decennio. Con Erdoğan, a suo dire, tutore della spinta rinnovatrice della piazza islamica e bin Salman repressore di ribellioni in Yemen e di spinte democratiche interne, seppure col contentino d’una “visione riformatrice” dello Stato. Anch’essa a piacimento, il suo.

giovedì 11 ottobre 2018

Lager Egitto


Ancora sequestri, torture, violenza anche sessuale, rivolta a oppositori o stranieri considerati ficcanaso. L’Egitto non smentisce la fama che si è consolidata sotto il regime di al Sisi, il presidente mandante di omicidi per fare del grande Paese arabo una piazza del terrore che piace agli autocrati mediorientali e mondiali. Human Right Watch denuncia l’ultimo caso: un autista di limousine dalla doppia cittadinanza egiziana e statunitense attivo a New York, è stato fermato dagli uomini della Sicurezza Nazionale nella zona portuale di Alessandria dove s’era recato per far visita ai familiari. Era gennaio scorso e il suo travaglio è durato quattro mesi, nei quali è finito immotivatamente in galera. Lì veniva “interrogato, bastonato, trattato con cavi elettrici in varie parti del corpo, compresi i genitali”. E’ stato lui stesso tempo dopo a raccontarlo all’Ong. Le accuse del quarantunenne Khaled Hassan sono esplicite: “Agenti della NSA (l’Intelligence egiziana, ndr) mi appendevano per le braccia, tenendomi in quella posizione anche per giorni, si posizionavano alle mie spalle e davano ripetute  scosse elettriche alla testa, all’ano, ai testicoli. Poi si piazzavano di fronte per colpire lingua e inguine”.
Periti e avvocati di HRW hanno preso visione delle lesioni che l’uomo ha sul corpo, testimoniandolo con immagini. L’autista ha confermato d’essere stato scarcerato circa un mese dopo la fine dei “trattamenti” quando le ferite si erano rimarginate. Col rilascio gli è stato comunicato che il suo nome finiva su una lista nera di soggetti fermati col ‘sospetto di essere fedeli all’Isis’. Ritorsioni ci sono state anche sulla famiglia: dopo l’arresto di Hassan la moglie peruviana e i tre figli sono stati giudicati indesiderati e rimpatriati. Non sarà il trattamento subìto da un semplice lavoratore a incrinare i rapporti fra Washington e Il Cairo, anche perché il torturato è sostanzialmente un immigrato con una seconda cittadinanza. Però molti negli Stati Uniti, la cui amministrazione la scorsa estate ha elargito 195 miliardi di aiuti militari a Sisi, s’interrogano sul clima interno instaurato nel Paese alleato dove i diritti umani sono calpestati. Ma la Casa Bianca non va tanto per il sottile, poiché Sisi nel suo asse con la componente militarista del caos libico (il generale Haftar), nei buoni rapporti stabiliti con Netanyahu, continua a essere una pedina preziosa per gli interessi americani. A scapito di oppositori e di chi sconta la smania seviziatrice della cricca militare egiziana.   

mercoledì 10 ottobre 2018

Aiuto turco alla sparizione di Khashoggi?


La foto segna in sovraimpressione le ore 13, 14 minuti, 36 secondi e il giorno: 2 ottobre ultimo scorso. L’uomo con la giacca scura che sta infilando un ingresso del consolato saudita a Istanbul è il giornalista Jamal Khashoggi. L’altro uomo in giacca chiara è probabilmente un addetto alla sicurezza e osserva la scena. A questo fermo-immagine esaminato dagli inquirenti turchi non fa seguito il video del circuito televisivo interno, che sembra sparito anch’esso. Occultato o cancellato, come quello che presso la fermata metro El Behoos del Cairo riprendeva gli ultimi attimi di libertà di Giulio Regeni. Nell’attuale mistero della sparizione del giornalista saudita, ricostruito dal quotidiano britannico The Guardian, s’aggiunge lo strano invito rivolto dal consolato alla polizia turca di “prendersi un giorno di riposo”. Incredibilmente sembra che gli agenti di Istanbul l’abbiano preso. Dunque a vigilare sull’edificio diplomatico c’erano soltanto apparati dell’Intelligence di Riyadh. Ora gli investigatori che tirano le fila dell’intrigo immaginano ci sia stato un forzato trattenimento di Khashoggi nell’edificio, per poi uscirne e dirigersi verso l’aeroporto Atatürk. Lì, nella sera del 2 ottobre, è stato registrato l’arrivo di sei auto.
In una di esse, oppure in un Van scuro parcheggiato di fronte all’ingresso del consolato (e visibile anche nell’unico fotogramma in possesso degli investigatori) c’era il giornalista oppure il suo cadavere occultato. Dall’aeroporto internazionale sono partiti due voli privati sauditi, uno verso il Cairo (che dopo lo scalo ha proseguito per Riyadh), l’altro diretto, senza soste, a Dubai. Ma mentre in Occidente i dicasteri degli Esteri statunitense,  britannico, francese si pronunciano perché sulla vicenda ci sia totale trasparenza, il governo di Ankara mostra alcune viscosità. Ai fermi pronunciamenti del presidente Erdoğan sulla soluzione del caso, sono recentemente seguiti comunicazioni altrettanto ufficiali del suo portavoce addirittura rassicuranti verso i Saud, che “non possono essere biasimati”. Un cerchiobottismo che gli analisti economici mettono in relazioni ai molteplici interessi e scambi fra i due Paesi, in una fase in cui crollo della moneta turca e altre vicende finanziarie, condurrebbero i vertici di Ankara a non crearsi inimicizie con la maggiore delle petromorchie, seppure essa è una competitrice regionale. Resta, però, la questione “del riposo dei poliziotti turchi”, se la notizia fosse confermata mostrerebbe una collusione coi piani sporchi dell’Intelligence di Riyadh. Anche quei poliziotti e i loro superiori favorevoli alla “distrazione” rientrano nello Stato profondo gülenista che trama contro il Paese?

 

martedì 9 ottobre 2018

Saud, la modernità del terrore


Sospetti e ipotesi tante, prove però nessuna. Così il giallo attorno alla fine di Jamal Khashoggi resta sospeso fra illazioni e accuse, smentite e rassicurazioni. Tutte di parte, e tutte sostenute da una volontà politica. In seguito della sparizione del commentatore del Washington Post, preventivamente uscito dal suo Paese per non incorrere in qualche azione repressiva dovuta alle reiterate critiche al metodo di Mohammad bin Salman, è aumentato il numero di proteste anti saudite. Nuovamente a Istanbul sotto il consolato-antro che ha inghiottito Khashoggi, si sono riuniti manifestanti con la presenza di volti noti dell’impegno per i diritti umani, spiccavano quelli della yemenita premio Nobel per la pace 2011, Tawakkol Karman e del dissidente egiziano Ayman Nour. In più sulla stampa internazionale sono riportate le testimonianze di molti sauditi, già repressi all’epoca della primavera 2011, finiti in galera o se, facilitati da una corposa possibilità economica, riparati all’estero. Alcuni casi di dissidenza sono noti, iniziati prima dell’avvento di MbS e comunque proseguiti nell’ultimo biennio con una metodica degna della peggior coercizione oggi sulla scena mediorientale.

Un termine di riferimento è l’Egitto di al-Sisi, e con la capacità di celare i misfatti tramite l’occultamento delle notizie e azioni più che palesemente poliziesche, affidate ai sotterfugi di un’Intelligence che agisce nell’ombra. Il clima di terrore, lo conferma chi ha concesso interviste pubblicate su New York Times, The Guardian, Le Monde raccontando la propria esperienza, produce omertà e paura. “Incontrando all’estero altri sauditi difficilmente si parla, perché sotto la kefia o dietro la cravatta del businessman può nascondersi una microspia”. Questo clima s’accompagna alla propaganda liberale, modernista del principe che agisce da re, che si fa bello d’un progetto sbandierato ai quattro venti con l’enfasi del caso: permesso di guida alle donne, consenso offerto al genere femminile di frequentare spettacoli cinematografici e manifestazioni sportive. Una Rivoluzione dei costumi. Tutto contro la mentalità iper tradizionalista del salafismo wahabbita ben radicato nel Paese, comunque protetto e finanziato da innumerevoli attività finanziarie di privati e dello stesso Stato.

Il modernismo che bin Salaman afferma di lanciare contro il fondamentalismo di casa, di fatto non sfiora madrase e predicatori estremisti. Lo stesso ‘armarsi di più e meglio’ (nel 2017 l’Arabia Saudita è al terzo posto nella graduatoria mondiale dopo Usa e Cina) sostenuto dal principe per combattere il terrorismo, si traduce nell’alimentare guerre locali come quella contro i ribelli yemeniti. Non risulta che ci siano stati, né ci siano, interventi repressivi contro quelle cellule jihadiste presenti in questi anni nella penisola araba. La "sicurezza" interna viene perseguita, appunto, censurando il pensiero critico verso i modi passati e i progetti presenti del clan Saud, peraltro colpito da lotte intestine, intrighi e purghe. Come noti raìs mediorientali - coronati, laici e religiosi - MbS insegue una politica accentratrice, autoritaria, personalistica. Utilizza il doppio binario d’una pseudo liberalizzazione dei costumi, per conservare un potere classista profondamente antidemocratico. E chi critica può sparire senza lasciare tracce. Come Khashoggi.

domenica 7 ottobre 2018

Caso Khashoggi, delitto probabilmente senza castigo


S’infittisce e s’ingarbuglia il mistero sulla sparizione di Jamal Khashoggi, il giornalista saudita critico verso la politica della petromonarchia, scomparso a Istanbul all’interno del consolato del suo Paese. E diventano tesi anche i rapporti fra i due Stati. Il crimine sarebbe stato compiuto all’interno di quell’edificio, addirittura con un trasporto in altro luogo del cadavere dell’uomo. Ovviamente illazioni, cui gli addetti alle pubbliche relazioni del consolato rispondono decisi che nulla di tutto ciò è accaduto, che lo stabile è aperto e disponibile a qualsiasi sopralluogo. Uno è stato fatto compiere a un gruppo di giornalisti, guidati da funzionari della struttura diplomatica. Il partito di maggioranza turco Akp è intervenuto con un comunicato, affermando come l’enigma sarà svelato, poiché l’amministrazione ritiene la vicenda sensibile di un’altissima attenzione. Mentre l’agenzia Anadolu ha ribadito che se ne sta occupando il presidente Erdoğan in persona. Su alcuni social network, soprattutto Twitter, sono apparsi cinguettii firmati da chi, al contrario, sostiene che l’insieme delle cose è assurdo, e Khashoggi è vivo.
Uno l’ha lanciato anche Hatice Cenzig, la fidanzata turca dello scomparso, possiamo pensare che si tratta di speranze. Finora tutti i punti di vista sono basati su impressioni e congetture. Certo, se la scelta di eliminare l’opinionista del Washington Post trasferitosi da tempo negli Stati Uniti, all’interno di una struttura sotto giurisdizione saudita, fosse una mosse dei mukhabarat di Ryiad, l’idea risulterebbe tutt’altro che geniale. All’inverso l’agguato potrebbe essere opera di nemici del criticatissimo Mohammad bin Salman per far ricadere i sospetti sul suo staff. O ancora: nessuno ha ucciso o rapito l’uomo, è lui stesso a essersi dileguato, aiutato magari da complici, per evitare guai alla sua persona. Eppure a queste scontate considerazioni se ne potrebbero aggiungere molte altre. Di fatto gli inquirenti turchi si trovano di fronte a un caso complesso, un possibile intrigo internazionale alla stregua di quello dell’assassinio dell’ambasciatore russo Karlov nel dicembre 2016, terminato con l’eliminazione dell’attentatore, un poliziotto turco delle squadre antisommossa, che si portò nella tomba informazioni su possibili mandanti.
Nel sovrapporsi delle notizie appare anche una che parla di funerali fra un paio di giorni. Funerali di Khashoggi, ovvio, senza che ci sia il cadavere, come nei migliori polizieschi classici. Lì gli Holmes o i Poirot non si lasciano sfuggire tracce con cui risalgono alla catena e ai moventi dei delitti, con la differenza che i misfatti comuni, anche i più efferati, mancano di quella ragnatela omertosa che i crimini di Stato, di qualunque Stato, sono capaci. Basti pensare alle eliminazioni al polonio di Livtinenko, a quella che riguarda il nostro Giulio Regeni o, per restare nella Turchia erdoğaniana che ora si presta alla soluzione dell’intrigo, all’omicidio dell’avvocato dei diritti Tahir Elçi assassinato in pieno giorno, durante una conferenza stampa per le vie di Dıarbakır. Che quella di Khashoggi possa essere una sparizione mirata per azzittire una voce del dissenso lo pensano alcuni attivisti anti Saud che hanno dimostrato, in poche decine per le strade di Istanbul. Secondo la loro denuncia l’ipotesi dell’omicidio è reale, e il delitto senza cadavere può assumere i contorni di quei delitti di mafia dove corpo della vittima è smembrato, gasato, liquefatto.

giovedì 4 ottobre 2018

Istanbul, scomparso un giornalista saudita


Pensava di cambiar vita il noto opinionista saudita Jamal Khashoggi, così è entrato nella sede del consolato del proprio Paese a Istanbul mentre l’attuale fidanzata l’aspettava per via. Il giornalista depositava la documentazione per ottenere il divorzio da una precedente partner. Però l’uscita da quell’edificio non è mai avvenuta e la compagna, lasciata fuori dall’edificio, non vedendolo tornare ha dato l’allarme della scomparsa. Per la polizia turca, e anche secondo l’ufficio del ministero degli Esteri saudita, l’uomo è ancora all’interno del consolato, mentre secondo la cerchia dei suoi amici Khashoggi è stato rapito. Un mistero in piena regola che dura da due giorni. Sul fronte lavorativo il giornalista, oggi cinquantanovenne, aveva già cambiato molto, sia la testata di riferimento e pure la residenza cercate negli Stati Uniti. Da lì sul Washington Post proseguiva una valutazione critica della gestione politica che da due anni ha stravolto parecchie dinamiche interne della nazione capofila delle petromonarchie del Golfo. Inutile sottolineare che il bersaglio dei suoi resoconti era Mohammed Bin Salman, il sovrano di fatto di Riyad. Gli staff governativi dei due Stati stanno comunque gestendo la questione prima che diventi un’emergenza. Certo Khashoggi, che ha lettori su carta stampata e fruitori del suo pensiero critico sul blog, è troppo conosciuto per sparire nel nulla senza richiamare l’attenzione di media e anche Intelligence. Ma dal Washington Post fanno sapere l’infruttuosità dei tentativi compiuti dalla direzione del giornale per rintracciare il collaboratore, e la stessa agenzia Reuters propende per un affare di Stato. Situazioni strane, al limite della legalità, sono già state proposte dalla creatività repressiva del principe-sovrano di casa Saud. Il caso più clamoroso fu l’enclave-sequestro propinato mesi addietro ad affaristi e a diversi membri della famiglia reale, tutti trattenuti per diversi giorni all’interno del Ritz-Carlton Hotel di Riyad nel corso d’una cosiddetta campagna anticorruzione. Alle strette fu messo il principe Alwaleed Bin Talal assai critico verso i passi di re Salman che hanno imposto l’avvento dell’ingombrante Mbs. Per non parlare di altre figure, in primo luogo oppositori e attivisti dei diritti, finiti in galera con condanne pluridecennali. E’ l’apertura modernista del principino riformatore.