lunedì 31 agosto 2015

Il gas mette l’Egitto al centro del Mediterraneo

Lo chiamano Zohr, è un pozzo esplorativo di risorse energetiche prospiciente le coste egiziane, frutto dell’attività di ricerca dell’Eni in collaborazione con l’Egyptian Natural Gas Holding Company. Nella perforazione ha raggiunto oltre 4000 metri di profondità rivelando un vero tesoro: un giacimento stimato fino a 850 miliardi di metri cubi di gas. Secondo il parere dei tecnici si tratta d’una scoperta sensazionale, vera manna per i bisogni energetici del grande Paese arabo, per il suo rilancio economico, per il desiderio, in più occasioni propagandato dal presidente-generale Al Sisi, di riacquisire una centralità nella travagliata area mediorientale. Manna anche per gli affari dell’azienda energetica italiana, che nella persona dell’amministratore delegato De Scalzi ha ricevuto un immediato plauso dal premier Renzi per la raffinata tecnologia del ‘Cane a sei zampe’. Fra le due nazioni già da alcuni mesi si sono intrecciati strettissimi rapporti che fanno dell’Italia un partener di punta nell’attività imprenditoriale sull’altra sponda del Mediterraneo.
Di tali accordi l’esplorazione di un’ampia area marina off-shore era un elemento centrale con investimenti pari a 5 miliardi di dollari; il ritorno si prospetta sensazionale in virtù anche d’una flessione di produzione in aree nuove e vecchie, quest’ultime, come la Libia, soggette ai durevoli venti d’instabilità politica. Negli ultimi anni le scoperte di gas nell’area orientale mediterranea sono state molteplici, i già noti giacimenti Leviathan e Tamar hanno visto Israele in prima linea per beneficiare di fonti energetiche fuori dalla morsa dei Paesi dell’Opec. Coinvolte anche Cipro e la Grecia, entrambi in contrasto con la Turchia per la giurisdizione di tratti del locale mare Egeo dove s’allungano le cosiddette ‘Zone economiche esclusive’, in quel caso riguardante il minore, ma non insignificante, giacimento Afrodite. Su tutti questi attori, ora l’Egitto può far pesare la sua ombra, e chi guarda al concreto come il ministro israeliano dell’energia Steinitz già pensa a patti. Il fronte energetico potrebbe rappresentare un primo passo verso un rimescolamento delle carte sul tavolo di alleanze pro business fra varie sponde del Mediterraneo.

Con Zohr, il Cairo farebbe la parte del leone e per far dimenticare le critiche mosse da più parti verso un regime a dir poco autoritario, il raìs del nuovo Egitto sembra dopo tre rinvii voler regolarizzare anche la facciata di rappresentanza riavviando le funzioni parlamentari. Così per il 18 e 19 ottobre sono previste le elezioni politiche per eleggere 568 deputati, divisi fra 448 eletti individuali e 120 legati a liste di partito. Sono state definite quote percentuali di rappresentanza per donne, cristiani e giovani. Un busillis riguarderà la presenza d’una lista legata alla Fratellanza Musulmana, formazione posta fuorilegge, accusata di terrorismo dall’attuale presidente che ha defenestrato il suo predecessore Mohammed Mursi. Quest’ultimo, esponente della Confraternita, era stato  regolarmente eletto nel giugno 2012. La vecchia leadership islamica è totalmente incarcerata, nomi noti come Mursi e Badie, sono stati condannati a morte e sono ricorsi in appello. Lo scontro aperto fra la popolazione che sostiene la casta militare e quella che segue la Fratellanza aveva sensibilmente ridotto la presenza alle urne, a causa del boicottaggio operato dai filo islamisti in occasione del passaggio elettorale che ha dato a Sisi la patente di presidente eletto. Ma soprattutto produce da mesi un’opposizione armata con attentati diffusi, a fianco e oltre i miliziani  dello Stato Islamico insediati nel Sinai.

domenica 30 agosto 2015

Fuggiaschi

Trent’anni lui, venticinque lei con una figlioletta di sette che con loro corre, sguscia, ansima. Sorride e piange. Con la marea sbarcata nel Dodecaneso anche questo micro nucleo familiare siriano è finito nel Centro d’identificazione di Kos, quindi ad Atene e nel corridoio macedone verso il cuore dell’agognata Europa. L’attesa e la speranza si son fatte compagnìa accanto alla precarietà, che è nulla rispetto a quanto gli occhi di ciascuno hanno visto per mesi infiniti, sino alla decisione di fuggire e fare come i quattro milioni che li hanno preceduti. Eppure il mondo nuovo non è detto che li accetterà. Tanti, troppi partecipano a un esodo che gli stanziali non vogliono. Divisi fra chi li accoglie e chi li rifiuta gli Stati europei rispondono all’emergenza con altra emergenza; governi che fino a ieri evitavano di fare i conti con drammi geopolitici guardano a questi momenti con l’angoscia di chi vuole trattare solo questioni semplici. Invece la vita per ogni cittadino del mondo si fa complicata, chi ha non vuol cedere, non vuole perdere il raggio di serenità vagheggiato da un’infinità di disperati.

Fra i mille e più accampati in terra serba si vocifera che la salvezza non è raggiunta. Le autorità dell’Unhcr, che pure si prodigano per l’assistenza ai profughi, devono stilare liste e valutare priorità per l’accoglienza in ogni Paese, secondo quanto stabilito dal Trattato di Dublino. Chi manca di certificazioni ed è in preda alla paura, teme ancor di più. Non riflette, non invoca, risponde all’istinto primario dell’autodifesa e si rimette in marcia. Al buio. Il confine si può raggiungere e superare e da lì andare più a nord, nelle terre del miraggio, lontane ma indispensabili per non stritolare le speranze a trenta e soprattutto a sette anni. Allora si procede strisciando come segugi e s’avvicina un confine segnato dal filo di ferro. Se è spinato poco importa a corpi maculati da ferite d’ogni misura. Si supera facile quel groviglio irsuto, la guida solleva e aiuta. Chi varca corre altrove fra sterpaglie di granturco che sanno di libertà. Vigilata, però, e subito limitata da una coppia di agenti di frontiera che a volte chiudono gli occhi, altre no. Nel fuggire serve fortuna, come nella vita. Se questa è ancora vita. 

venerdì 21 agosto 2015

Khaled, martire di Palmyra


Quanto sia nuociuto di più a Khaled al-Asaad se la passione per le antiche vestigia di Palmyra, di cui è stato sino alla morte fedele difensore, o la vicinanza al presidente Bashir al-Asad (assonanza nel cognome ma non omonimia né familiarità, e chi l’ha conosciuto afferma neppure prossimità  politica), non è dato sapere. Resta la fine, crudelissima com’è nella pratica dei fanatici del Daesh. Sequestrato, sgozzato, appeso a una colonna. A ottantuno anni. L’uomo, che aveva studiato storia all’università di Damasco, s’era per suo conto appassionato all’arte, alle antichità presenti nell’area natìa e da autodidatta aveva iniziato ad approfondire la materia. Capitello per capitello, fra le vestigia irradiate di luce una passione smisurata l’aveva collocato al fianco di archeologi e poi sempre più su, l’aveva reso responsabile dello straordinario tesoro serbato nei millenni fra le sabbie rosate di quel deserto. Una barbarie già attiva sui libri antichi di Mosul, quindi sulle statue del museo di quella città e su siti archeologici anneriti dall’oscurantismo dei miliziani di Al-Baghdadi, ha reso bersaglio l’anziano archeologo. Coi suoi figli Khaled da alcuni mesi aveva trasferito i tesori di pietra trasportabili fuori dall’area di Palmyra in un nascondiglio rimasto  fortunatamente tuttora segreto. Per salvarli dal contrabbando illegale con cui il Califfato rimpingua le sue casse, in alternanza alla propagandistica distruzione. I miliziani neri volevano strappare ad Asaad notizie su quel luogo, lui temporeggiava, fino a rifiutarsi categoricamente di riferire. Già vedeva la mazza distruttrice con cui alcuni miserabili cecchini dell’arte s’erano, nei mesi scorsi, immortalati mentre perpetravano il proprio scempio. Oppure pensava al losco mercimonio. Perciò no, e no. Khaled non ha parlato neppure di fronte alle minacce d’una morte atroce. Ha conservato la sua missione: custodire un patrimonio basato su epoche, generazioni, popoli che attraversano secoli. Questo - accanto alla bellezza architettonica, alla purezza stilistica - rappresenta la magnificenza di Palmyra (e d’ogni sito storico): essere testimonianza d’un passato che ha valore in sé oltre il pensiero umano e la fede divina. L’arte è sempre stata e sarà una materia speciale che avvicina l’immanente al trascendente. Il martire Khaled ne è stato un angelo. 
   

giovedì 20 agosto 2015

Cairo, la bomba black bloc

Fanno esplodere tre ordigni in piena notte e si firmano black bloc. Non a Roma o Parigi, a Shubra El-Kheima e Al-Dokki, distretti settentrionali del Cairo. Lesionato uno dei palazzi che ospita l’Intelligence egiziana, otto poliziotti feriti, e un attentatore, secondo quanto riferisce una testimonianza, parcheggia l’auto-bomba e fugge su una moto che lo seguiva. Un copione studiato nei dettagli, da chi è bene capire. Perché questa tipologia di ‘semina del terrore’ che cerca, per quanto può, di limitare il sangue versato negli attentati, è presente da circa tre anni nel grande paese arabo. Ha accompagnato l’ascesa del generale, ora presidente e di fatto dittatore, e ne suggella il potere. Una strategia che sembra mirata e aiuta a sostenere il disegno securitario di Al-Sisi, che due giorni fa aveva ulteriormente stretto il controllo della sua casta sulla vita politica e sociale. Sono stati introdotti inasprimenti di pena verso chi è accusato di terrorismo (da mesi non solo la Fratellanza Musulmana, ma qualsiasi opposizione) e soffocata ulteriormente l’informazione che può essere perseguita con l’arresto e multata con sanzioni salatissime (fino a 50.000 euro) per notizie considerata “false” e comunque d’ostacolo alla linea presidenziale. E allora Sisi si vara la norma (il Parlamento egiziano non esiste più dall’estate del 2013) e inscena l’attentato? E’ un’ipotesi, se non per questa per qualcuna delle tante esplosioni incrociate in trenta mesi.

Le risultanze in fatto di controllo socio-politico sono favorevolissime all’immagine d’un raìs e un esercito garanti  “dell’incolumità della nazione”. Certo è possibile che frange della galassia repressa, i movimentisti di Tahrir non quei tamarod  diventati nel 2013 i galoppini consapevoli o meno della restaurazione politica, si diano fogge simili al laicismo anarcoide degli incappucciati no global. Com’è ancora più probabile - lo diciamo da tempo - che nuclei giovanili dell’attivismo della Brotherhood possano aver intrapreso strade armate accanto ad altri soggetti inseriti nel confronto-scontro in atto. Del radicalismo islamico che nel Sinai ha stretto una collaborazione pro jihadista con l’Isis, s’è parlato in più occasioni e in relazione a loro azioni specifiche. Questo genere d’attacco a uomini e cose non è solamente scenografico, punta a colpire duro, uccide tramite assalti, agguati, esplosioni. Come nei luoghi dove il Daesh vuole stabilire un proprio controllo (Siria, Iraq, Rojava, Libia) i jihadisti del Sinai, con Ansar Beit Al-Maqdis in testa, mirano a disarticolare autorità e presenza sul territorio delle truppe del Cairo. Taluni angoli della penisola sul Mar Rosso si prestano; i militari di Sisi possono solo bombardarli dall’alto, muovendosi a terra rischiano visto che coi locali beduini i miliziani islamici hanno stabilito rapporti e legami. Ma fra scontri con armi leggere e mezzi corazzati ce ne passa. Eppure la promessa “pulizia” del Sinai non avviene e prevalgono i tatticismi. D’ogni fazione.

domenica 16 agosto 2015

Turchia, il governo impossibile e le nuove elezioni

Quarantacinque giorni s’era concesso il presidente-dimezzato Recep Tayyip Erdoğan per indirizzare il dopo-voto turco del 7 giugno verso un esecutivo, pur di transizione. Elezioni fortemente punitive per il suo partito (Akp) sceso al 40.87% e impossibilitato a inseguire i sogni d’un governo monocolore e soprattutto della trasformazione in senso presidenziale della Repubblica. Di giorni ne sono trascorsi settanta. I tentativi d’approccio col partito repubblicano (Chp), seconda forza col 24.95% di sostenitori, sono finiti nel guado. Troppe diversità su temi vitali in politica interna (educazione e questione religiosa). Inoltre il Chp è un fermo sostenitore della laicità statale e della Repubblica parlamentare, questioni non proprio di lana caprina anche in un momento d’emergenza come quello che il Paese vive dall’inizio dell’estate. Il ruolo impone al presidente di proseguire i colloqui, ma anche gli incontri col leader nazionalista Bahçeli, forte di ottanta deputati, non stanno producendo effetti. Della formazione di maggioranza il suo kemalismo in salsa militarista apprezza solo la mano pesante verso l’opposizione di sinistra e gli odiati kurdi, il cui Partito dei lavoratori (Pkk) in relazione alla strage di Suruç e i bombardamenti nelle aree sud-orientali, ha riaperto le ostilità con esercito e polizia.
Da luglio la Turchia sta rivivendo un clima di rilanciata conflittualità interna, con quaranta fra militari e poliziotti uccisi, e attivisti e simpatizzanti del movimento kurdo egualmente vittime o incarcerate. Nello scontro è presente anche il Fronte rivoluzionario di liberazione del popolo (Dhkp-c) che nei primi mesi dell’anno ha riproposto azioni armate, con cui, a fasi alterne anche in relazione alla repressione, aveva già segnato il suo percorso. Il gruppo è bollato come terrorista dalla politica interna e internazionale. Stesso marchio e stessa coercizione sono rivolti ai miliziani del Pkk, tornati a uccidere e a essere uccisi. Come prima dell’avio dei colloqui col leader incarcerato kurdo Öcalan (2011-12) e prima del famoso discorso del 2005 con cui Erdoğan, allora al primo mandato di premier, tendeva la mano, o mostrava di farlo, alla copiosa minoranza per cercare una soluzione alle loro richieste. In dieci anni i rappresentanti dei quindici milioni di kurdi di Turchia hanno elaborato strategie varie, più di confronto, dialogo e lotta pacifica, che di scontro armato, richiamo delle dure fasi degli anni Novanta che mietevano vittime (40.000) e deportavano milioni di persone in giro per l’Anatolia.

Il neonato Partito democratico del popolo (Hdp), ultima creatura d’una linea entrista che non rinnega origini e finalità, ha conseguito un risultato d’efficacia e prestigio enormi e con gli ottanta parlamentari e il 13% dei consensi è oggi una quarta forza che spariglia progetti dell’autoritarismo islamista e d’un kemalismo dal fiato corto. Dall’8 giugno, ingoiato il boccone amaro d’un appuntamento mancato, Erdoğan avrebbe potuto elaborare la “folle idea” d’un esecutivo con questa quarta Turchia. Un’ipotesi irta di difficoltà per le concessione da porgere a un pezzo di società anch’essa secolare, ampiamente progressista nei ruoli e nei generi. Non l’ha fatto perché avrebbe dovuto limare tanto conservatorismo che la sua gente serba pur in comunione al consumismo tecnologico che il partito-regime ha diffuso e cavalcato per oltre un decennio. Ora con lo spettro di bombe e pallottole questo passo sembra irrealizzabile. Ma se la prossima via sarà quella di nuove consultazioni, analisti e sondaggisti prevedono il peggio per l’attuale establishment. La caduta di popolarità dell’Akp potrebbe proseguire. L’Istituto Gezici parla addirittura d’un consenso non superiore al 35% e i problemi che affliggono il Paese riguardo alla sicurezza, all’incubo Isis vissuto fra tolleranza e guerra, e anche alla frenata economica, sarebbero tutti addossati al partito islamico.