Caos a Kos, dicono le notizie. E da due giorni
foto e filmati di migliaia di profughi sbarcati, ammassati, impossibilitati a
qualsiasi ospitalità riempiono pagine e schermi di un’informazione presente e
attenta. Chi non lo è, e sembra scendere da nuvole in questa stagione peraltro
inesistenti sul Dodecaneso, è la politica internazionale e locale. Cosa
prevedibile perché, da due anni a questa parte in una situazione d’emergenza
storica, solo un po’ di associazioni umanitarie s’occupano del milione e mezzo
di rifugiati siriani in terra turca. Loro, i profughi, dopo mesi trascorsi in
campi diventati stabili e sempre meno assistiti, quali progetti potevano
elaborare se non quello d’una fuga in una zona targata Ue, complice il mare estivo?
Col benestare del governo Davutoğlu, ben felice d’alleggerire una zovorra che
pesa in gran parte sui propri confini. Sull’altra sponda l’esecutivo Tsipras,
per mesi concentrato attorno all’assalto economico-istituzionale alla sovranità
ellenica, si fa cogliere impreparato per la stagione degli sbarchi, perlomeno
quelli clandestini. L’arrembaggio vacanziero, invece, è proseguito come e più
d’ogni anno, coi soliti guadagni esentasse d’ogni categoria turistica. Il
pienone nelle isole è così cospicuo che bagnanti e fuggitivi s’incontrano, si
sfiorano, per qualche tratto fraternizzano; ma poi chi sta in barca sente
d’aver fatto la propria buona azione, chi sogna l’Europa deve farsi tradurre
dagli scarsi mediatori presenti che il continente agognato non li vuole.
La decrepita e avida Europa non ama
beneficenze; abbracciata com’è ai populismi dei Farange, Wilders, Le Pen, dei
nostrani Grillo e Salvini respinge e chiude porte. Oscilla fra il
conservatorismo dei Duda e il fascismo di Orbán. Oppure vaga nell’indifferenza
parolaia di tanta classe politica. E chi umanamente salva le vite non sa dove
dirigerle, formando nuovi ghetti. Se alcuni tumulti scoppiano per calca,
tensione, mancanze primarie, si vedono tuttora sorrisi, pazienza obbediente di
gente che s’affida, pur portando con sé culture, professioni oltreché ricordi
non ostentati come le prediche di chi gli spiega di restare a casa. A casa? Quale?
Non ce n’è più, non solo ad Aleppo martoriata da quattro anni, anche nei
villaggi di tanto Medio Oriente non c’è più riparo. Da europei dovremmo
rivisitare gli sguardi silenziosi di certi parenti di settant’anni addietro o
di tragedie più recenti. Non sono tutti morti. C’è chi tuttora bene rammenta l’angoscia
delle bombe e i dormitori, spartiti con filo e quattro stracci a mò di separé.
L’emergenza casa del dopoguerra fu per nazioni come la nostra una lunga piaga
sociale. Chi oggi è costretto a osservare dal buco della serratura quale
orizzonte si prospetta, rappresenta il soggetto che offre all’asfittico modello
europeo una chance per mutare e rinascere: la multietnicità. Nella battaglia,
diventata guerra ideologica e non solo, fra nazionalismi faziosi e razzisti e
nuova umanità, una fase di confronto-scontro si gioca su questo terreno.
Sfollati o accasati, siamo tutti coinvolti.
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