domenica 28 maggio 2023

Turchia, terza presidenza per Erdoğan

 


Erdoğan è ancora presidente della Turchia. Lui dice di tutti i turchi, ma un po’ meno della metà degli elettori non lo pensa. Hanno votato per il suo antagonista Kemal Kılıçdaroğlu. Eppure la sterzata ipernazionalista degli ultimi giorni di propaganda per il ballottaggio, che ha caratterizzato più quest’ultimo che il presidente uscente, con accordi per incamerare i due milioni e mezzo dei voti xenofobi della coppia Oğan-Özdağ, è stata equamente divisa fra Erdoğan che percepiva i consensi del primo, e Kılıçdaroğlu che calamitava quelli del secondo. Un milione e rotti ciascuno e la distanza fra i competitori è rimasta invariata a quattro punti di percentuale, com’era accaduto nel primo turno. Il Consiglio Elettorale Supremo andrà a puntualizzare le percentuali definitive che stasera incoronano Baba Tayyip per la terza volta e, eğer Tanrı isterse, fino al 2028. 52,07% per lui, 47,93% per colui che resta presidente solo del partito repubblicano. L’elezione del centenario fa di Erdoğan il padre assoluto della nuova patria turca, nazionalista e islamica, molto più di quanto l’avesse forgiata Atatürk. Da oggi l’epiteto ‘sultano’ usato a mo’ di scherno dagli avversari e per indicarne il desiderio di dominio, diventa una qualifica reale e più una virtù che un vizio. Certo, fra i sovrani dell’Impero c’è chi ha conservato il potere più a lungo: trentasei anni Orhan, il guerriero (dal 1326 al 1362), trenta Mehmed II, il conquistatore (dal 1451 al 1481) e successivamente Solimano, il magnifico che rimase sul trono per 42 anni (1520-1566). Ma quelli che potranno essere i ventisei anni di Erdoğan, sempre se Allah vorrà, hanno un valore quasi secolare. Poiché la nazione che lo mise anche in galera per aver rivendicato l’orgoglio d’una militanza islamica da poter proporre alla luce del sole, rappresenta tuttora, e dopo le tante vicissitudini di cui è stato protagonista, un collante per una maggioranza della popolazione che non è più quella da lui presa per mano alla fine degli anni Novanta, prima come sindaco di Istanbul, poi come premier. La nazione è cambiata, cresciuta, anche nelle aree anatoliche per lungo tempo arretrate. Ha conosciuto un’estensione del benessere soggettivo e collettivo. Ha anche vissuto fasi tragiche con attentati interni da parte di quei gruppi jihadisti, che si presume il leader dell’Akp avesse sostenuto nella prima fase della guerra civile siriana. 

 

Ha conosciuto il soffocamento, partito da Istanbul e seguito in grandi città, del movimento giovanile di protesta per la ristrutturazione al Gezi park. E poi il blocco del processo di pacificazione col leader kurdo Öcalan e la conseguente repressione rivolta alla popolazione del sud-est correlata a una ripresa di guerriglia del Pkk; una repressione che ha ricadute sul Partito Democratico dei Popoli con l’arresto di parecchi parlamentari accusati di sostegno del terrorismo. E ancora: lo scontro con l’ex alleato Fethullah Gülen, a detta del governo organizzatore con la confraternita Hizmet del tentato golpe nel 2016, cui sono seguite decine di migliaia di epurazioni fra le file di militari, poliziotti, docenti, magistrati, dipendenti pubblici e privati. Una stretta autoritaria che ha colpito testate d’opposizione, la libertà di stampa e di pensiero di giornalisti, intellettuali, artisti. All’epoca verso costoro il partito repubblicano non s’è mostrato così solidale come alcuni oppositori marxisti e progressisti si sarebbero aspettati. Gli accordi con cui Dimirtaş e colleghi hanno indirizzato il voto su Kılıçdaroğlu sono stati una scommessa obbligata per l’impossibilità di presentare un proprio candidato di peso, che in ogni caso avrebbe scontato un ruolo di minoranza, corposa ma minoritaria rispetto al voto nazionale. Del resto il ‘Tavolo dei sei’ era coalizzato unicamente sulla caduta di  Erdoğan, un fattore che polarizza, tanto da metterlo seriamente in difficoltà davanti agli ulteriori problemi della nazione: l’emergenza post terremoto e quella inflattiva. Ma l’alleanza risultava limitata sul proprio programma interno (contrastare il caro vita e riformare il presidenzialismo) e ancor più sul fronte internazionale. Qui il pur contraddittorio personalismo del presidente uscente ha offerto alla Turchia un ruolo di primo piano nelle aree di crisi geopolitiche. Dunque sulla voglia di cambiamento ha prevalso il timore di perdere quella guida consolidata che il sultano offre da un ventennio. Kılıçdaroğlu, passato in una manciata di giorni da uomo d’una promettente primavera turca a sostenitore di rimpatri razzisti, è parso un opportunista che stordiva le speranze progressiste.

 

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venerdì 26 maggio 2023

Elezioni turche: ultime battute tutte nell’ultradestra

 


Le due settimane d’attesa del ballottaggio sono diventate per Kemal Kılıçdaroğlu la via dannata al trasformismo. Ha raccolto i malumori di chi conta nel ‘Tavolo dei sei’, la lupa Akşener che non lo voleva come candidato presidente, ma s’è rimessa alla maggioranza della coalizione e dello stesso partito repubblicano stretto attorno al proprio presidente voglioso di diventare presidente della nazione turca. Lei, che nelle politiche ha confermato la bontà elettorale del İyi Partisi con tanto di buona rappresentanza nel Meclis, ha quell’autorità che manca agli ex ministri erdoğaniani, con un destino di vuoto a perdere nelle urne e nell’alleanza. Nel rimescolamento succeduto al 14 maggio Kılıçdaroğlu ha licenziato alcuni esperti di comunicazione: via il buonismo politico della campagna delle promesse, un cambiamento basato su riforme sociali, parlamentari, su una nuova primavera del Paese. Ora abbraccia l’inverno più burrascoso. Usando in prima persona il linguaggio della xenofobia, che acutamente l’avversario presidente non s’è mai sognato di pronunciare, e giù coi nuovi tabelloni elettorali che annunciano: I siriani se ne andranno. In quanti? Qui il Gandhi turco, diventa una via di mezzo fra un persecutore di stranieri e un macchiettista, promette infatti agli elettori di rimpatriare: “dieci milioni di siriani che tolgono lavoro ai turchi”. Osservatori assolutamente neutrali hanno fatto notare lo sproloquio, perché attualmente i rifugiati siriani non superano i 3.7 milioni. Con l’aggiunta di altri migranti potranno di poco superare i quattro milioni, che sono indubbiamente tante e destabilizzanti presenze, su un mercato del lavoro flagellato dall’inflazione, però il quadro presentato al Paese è falso e questo non è un buon biglietto da visita per un candidato presidente in odore di rilancio della nazione. La boutade di Kılıçdaroğlu serviva ad affermare che negli anni passati Erdoğan e il suo partito non hanno difeso i confini e l’essenza patria. Non contento, e pure destabilizzato dalla scelta operata da Sinan Oğan, di cui aveva cercato i voti per il ballottaggio e che opportunisticamente gli preferisce il presidente uscente, il candidato repubblicano è entrato in fibrillazione.

 

Negli ultimi interventi pubblici mostra ghigno e toni da guerriero, e perduto il campione dell’ultranazionalismo che s’era proposto come terzo uomo, ha abbracciato un'altra inquietante figura di quella coalizione, il leader di Zafer Partisi Ümit Özdağ. Costui è figlio di diplomatici, nato in Giappone, come Oğan ha provato la scalata al partito nazionalista, senza esito perché i fedelissimi di Bahçeli l’hanno isolato ed espulso. Veleggia così ai margini della politica, poiché la soglia di sbarramento elettorale turca non permette alle piccole formazioni di entrare nelle assisi che contano. Con l’alleanza denominata Ata - assieme a Oğan e altri fanatici dell’intolleranza a prescindere - ha tentato d’essere protagonista nella tenzone presidenziale, ora entra nel gioco della disperazione di Kılıçdaroğlu che gli avrebbe promesso, dicono le indiscrezioni, nientemeno che il ministero dell’Interno in cambio del suo milione di voti per domenica. I due si sono stretti pubblicamente la mano: “Abbiamo tenuto un incontro molto produttivo e bello” è stata la  frase di rito davanti alle telecamere, e per non essere da meno del nuovo alleato Özdağ ha detto che “tredici milioni d’immigrati (sic) devono riprendere la strada di casa”. La fiera delle cifre è in totale libertà per chi vuol ascoltare e credere. Questo legame, certamente di passaggio e funzionale al ballottaggio, punta in seconda battuta sulla sicurezza e la lotta al terrorismo. Fetö, Pkk e Isis sono i soggetti menzionati dal duo Kılıçdaroğlu-Özdağ per sbugiardare un presidente uscente ex amico dei fethullaci, dialogante col Pkk e sostenitore di gruppi jihadisti nel conflitto siriano. Complete o mezze verità, però vissute in epoche diverse dall’attuale in cui proprio il candidato anti Erdoğan cambia repentinamente linea, tradendo l’elettorato progressista che l’ha finora votato. I vertici del partito filo kurdo Hdp, hanno confermato il proprio sostegno, ma non è detto che le ultime giravolte di Kılıçdaroğlu siano accettate nel sud-est, e c’è chi teme anche fra l’elettorato delle metropoli. La corsa per il primato (e per il potere) mette a nudo i tratti del ceto politico turco: conservatore - islamico o secolare - trasformista, individualista. A costoro un popolo polarizzato s’affida. 

 

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mercoledì 24 maggio 2023

Il Giro a Roma: la presa in giro dei romani

 


La tappa conclusiva del 106° Giro d’Italia con volatona sui romani Fori Imperiali, molto desiderata dalla politica locale e nazionale, rileva un particolare che irrita quei ciclisti non professionisti quotidianamente alle prese con la carenza di percorsi in sicurezza e piste ciclabili nell’Urbe Magna. Tralasciamo (ma non troppo) questioni annose affrontate da centinaia di servizi giornalistici, sempre inascoltati dagli amministratori, con cui si denuncia la promozione-propaganda di pseudo piste ciclabili in centro e in periferia. Di fatto pericolosissime per i ciclisti che sul tragitto trovano ostacoli d’ogni genere e quando li evitano rischiano d’essere investiti dalle auto. Tralasciamo pure l’inverosimile accesso sulle ciclabili - si prenda ad esempio l’unica degna di questo nome che va da Magliana a Castel Giubileo, per poco più di 30 km - ai podisti, roba che in Germania, Francia, Belgio, Paesi Bassi e ovunque la cultura della bicicletta è radicata, farebbe inorridire quegli amministratori, perché tale promiscuità può produrre seri incidenti a entrambi, ciclisti e podisti. Ma il pedalatore capitolino sa che sulla ciclabile incontra altresì: mamme col pargolo in carrozzina (signora stìa attenta!! e che nun ce posso sta’ qui?), cani d’ogni taglia tenuti al guinzaglio dai padroni distratti dal telefonino, disabili sospinti da badante anch’esse impegnate al cellulare, pensionati a passeggio, coppiette romanticamente mano nella mano, come se per tutti costoro mancasse spazio altrove… Insomma, dopo tale rischiosissima gimkana il ciclista o cicloamatore può compiacersi con l’attuale Giunta d’aver stanziato 1.5 milioni di euro per l’organizzazione dell’ultima tappa del Giro. 

I denari, sia chiaro, non vengono dalle casse del Campidoglio, ma da un capitolo di spesa del Pnrr con cui il sindaco Gualtieri e l’assessore Onorato si fanno belli per un giorno pagando a Rcs dell’imprenditore Cairo i diritti per la conclusione della manifestazione agonistica e poi all’arraffatutto 'Zetema' una mostra fotografica, in realtà miserella. Ci sono quasi esclusivamente immagini anni Cinquanta, Sessanta, Settanta. Gli archivi Corsera e Gazzetta avrebbero potuto fornire molto di più. Infine un concertino a Ostia (cfr. L. Vendemiale sull’odierno “Il Fatto Quotidiano”). Robetta se paragonata all’effimero doc che l’assessore che fu Renato Nicolini elargiva al popolo romano durante i fasti delle Giunte Argan e Petroselli. Già all’epoca si discettava, col comunque geniale e visionario politico del Pci, sull’uso dei fondi comunali da dedicare al bello e sulla necessità di finanziare il permanente, inteso come strutture di pubblica utilità. Eppure alcuni impianti sportivi furono strappati a furor di popolo e di occupazioni (Villa Gordiani, Quarticciolo, Pietralata a fine Settanta). Ora, i dati dicono che, un chilometro di pista ciclabile costa dai 20.000 ai 150.000 euro. Dividendo il milione e mezzo, bruciato in un giorno nella passerella romana della fase conclusiva del Giro che poteva benissimo restare nella sua casa meneghina, la Giunta della lupa avrebbe potuto creare per i concittadini, a un costo medio diciamo di 70.000 euro al chilometro, almeno una ventina di chilometri di ciclabile degni di questo nome. Quelli che, ad esempio, mancano da Mezzocammino a Fiumicino. Per chi non è pratico di pedali e legge solo le indicazioni dell’amministrazione, quel tracciato esiste. Ma solo sulla cartina. Di fatto si sviluppa fra campi, più o meno seminati, e pietraie. Per percorrerlo senza ritrovarsi appiedati occorrono una mountain bike downhill, una discreta abilità e tanta fortuna. Il tratto di cui parliamo era già promesso da due giunte Rutelli e due veltroniane, poi una Alemanno, e Marino e Raggi. Tutti si sono occupati d’altro, dai regali ai costruttori cementificatori, a quelli alle "cooperative" di Buzzi e Carminati, oppure hanno occupato il tempo a fare e subìre polemiche e veti incrociati. Così la ciclabile che va (andrebbe) al mare è ferma da un trentennio. Oh, quanta strada nei miei sandali, quanta ne avrà fatta Bartali… 



martedì 23 maggio 2023

Turchia, la volata presidenziale guarda al passato

 


Erdoğan incassa il sostegno elettorale di Oğan per il ballottaggio e quest’ultimo può ricevere in cambio il controllo di un ministero creato su misura che s’occuperà dell’emergenza terremoto. Ufficialmente fra i due non c’è nessun accordo, il presidente uscente l’ha ribadito in un’intervista televisiva, ma il suo staff nei giorni scorsi ha incontrato il terzo candidato presente al primo turno delle presidenziali. Ancor più l’aveva contattato Kiliçdaroğlu, due le riunioni avvenute a risultati confermati, perché i 2.7 milioni di voti raccolti da Oğan corrispondono al distacco fra gli elettori del leader del Chp e di quello dell’Akp. Dunque fanno gola. Ma l’ultranazionalista, al di là di sottolineare posizioni ideologiche di stampo xenofobo contro la presenza di stranieri sul suolo turco - un tema che ha prodotto una sterzata anti rifugiati siriani da parte di entrambi i candidati ora in lizza per la presidenza - sembra badare al sodo. S’offre a chi può fornire contropartite. E’ uscito dalla prima contesa, non dalla politica futura e cerca spazio fra un elettorato da consolidare gestendo qualcosa di prezioso. Il capitolo post terremoto è foriero di potere e affari. Erdoğan ha impostato un pezzo di campagna elettorale promettendo rapidi alloggi per gli sfollati, una volta incassati i voti, com’è accaduto alle politiche e al primo turno delle presidenziali, col suddetto ministero passa la mano a un altro soggetto che potrà diventare il parafulmine per eventuali mancanze e cattive gestioni. Ovviamente si tratta d’illazioni, bisognerà vedere quale diventerà il percorso dell’ipotetico ministero. Per ora il presidente uscente ha affermato che una struttura istituzionale da affiancare all’operato dell’Afad (l’agenzia d’intervento sulle calamità) può tornare utile. E restando sul tema ha ricordato come il governo è impegnato a fornire alloggi, per ora di fortuna, a un milione di sfollati e circa mezzo milione di borse di studio per gli studenti delle province terremotate. 

 

Nei giorni scorsi diversi grandi media mondiali - fra cui l’immancabile Al Jazeera sempre attenta a questioni mediorientali - hanno ricordato la sperequazione nell’informazione turca fra i candidati in corsa per il ballottaggio. Erdoğan riscontra una presenza più che doppia rispetto a Kiliçdaroğlu, il quale pur contando su un canale televisivo di sostegno della politica kemalista e qualche quotidiano storico come Cumhuriyet, si trova schiacciato da una comunicazione palesemente pro governativa. Non è storia nuova. La repressione seguita al tentativo golpista del 2016 ha visto la chiusura di diverse testate d’opposizione, liberali, di sinistra e quelle gestite dalla confraternita gülenista Hizmet, con l’espulsione da molti canali televisivi di giornalisti accusati di collusione coi golpisti. Di recente uno degli Osservatori che s’occupa della libertà di espressione ha declassato la Turchia dal 100 al 165 posto della graduatoria internazionale che monitora il sistema dei media. Eppure le ultime lamentele dell’opposizione repubblicana sulla vicenda sembrano un alibi. Fino alla vigilia del voto il cosiddetto ‘Tavolo dei sei’ pensava di scalzare Erdoğan nonostante la propria limitata presenza nelle tivù, ciò che non ha funzionato va oltre lo svantaggio mediatico. Nell’ultima settimana la spinta elettorale pro Kiliçdaroğlu sembra molto affievolita, fra gli stessi alleati la fiducia appare offuscata perché una stessa ipotetica presidenza repubblicana non potrebbe attuare la tanto ambita riforma anti presidenzialista (mancano i numeri nel Meclis) e si troverebbe a fare i conti con una maggioranza parlamentare sfavorevole. Nella volata finale per domenica trova spazio il progetto del ‘nuovo secolo della Turchia’, che parlando alle genti turca, circassa e albanese, bosniaca, turkmena, uzbeka, uigura (ma non ai kurdi) prospetta un benessere patrio d’impianto ottomano. Non manca il tema della sicurezza con cui in queste ore viene presentato un nuovo sistema di difesa aerea, detto Siper, che affiancherà gli S-400 forniti dalla Russia. La propaganda armata del presidente uscente non perde un colpo, anche perché una maggioranza ben più ampia del suo elettorato apprezza. 

 

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venerdì 19 maggio 2023

La Turchia islamica attende il 29 maggio

 

 

 

Il 29 maggio per il turco di fede islamica non è un giorno come un altro. In quella mattinata di primavera matura del 1453 le possenti difese di terra e di mare della città di Costantinopoli non ressero all’ennesimo attacco Ottomano. La capitale dell’Impero romano d’oriente fu espugnata da Mehmet II, ricordato negli annali con l’epiteto Fatih, cioè il conquistatore. Così ebbe fine un Impero dal tempo lunghissimo, durato 1058 anni, un ponte fra l’era antica e l’età moderna, come lo è la capitale conquistata che trasformava il proprio nome in Istanbul. Una variazione dell’εἰς τὰν Πόλιν, e dunque ‘Istam bolin’ verso la città, il modo con cui le comunità greche lì dislocate da secoli, definivano i luoghi divisi fra tre coste, le dirimpettaie sul Corno d’Oro e quella asiatica. L’avvicinamento a Costantinopoli da parte turca era iniziato oltre un secolo prima. Nel 1326 il giovane guerriero Orhan, figlio e successore di Osman, aveva occupato la città di Bursa, col tempo nota per la produzione di raffinatissime sete, e ne fece la capitale, che per la sepoltura di Osman medesimo, divenne una sorta di località-santuario per i sovrani ottomani. L’espansione dei loro territori fu rivolta ai Dardanelli con la presa di Gallipoli (1354). Nel 1362 fu la volta di Adrianopoli, diventata Edirne, che rappresentava un eccellente avamposto per addentrarsi nei Balcani. Quello fu anche l’anno della dipartita di Ohran, sostituito dal figlio Murad. Non seguiamo l’intero percorso cronologico dei sultani a venire, un percorso denso, intricato che coinvolge chi sul fronte opposto dell’Impero d’oriente difendeva territori e coste. Ammiragli e godi delle repubbliche marinare di Genova e Venezia erano di casa nella Costantinopoli imperiale, infatti le aree di Pera e Galata, oggi integrate nel più ampio quartiere di Beyoğlu, si  svilupparono in quel periodo. Voliamo in avanti di quasi un secolo, suggerendo a chi s’appassiona di queste note il prezioso studio di Julius Cooper, un  diplomatico e scrittore britannico che ha meravigliosamente descritto epoca ed eventi ne Il mare di mezzo, un testo che nutre questo scritto. 

 

Giungiamo al momento topico del sultanato di Mehmet II. Era il 13 febbraio 1451 quando costui subentrò al padre Murad II defunto per un ictus. Il giovane sovrano viene descritto come dedito allo studio e conoscitore, oltre all’idioma natìo, di varie lingue: greco, latino, arabo, ebraico, persiano, viene anche ricordato come non fosse esente da cinismo politico. Nell’assumere il comando incontrò la madre e ordinò l’eliminazione d’un fratello, ancora in fasce, che la donna aveva avuto prima che il consorte spirasse. Agli inizi del XV secolo la lenta morìa di quel che restava dell’Impero d’oriente appariva sulle mappe con un lembo di terra attorno alla città di Costantinopoli nell’area europea, risalendo per un tratto le coste del mar Nero e i territori di Tessalonica e di parte del Peloponneso. Il potere della dinastia dei Paleologi, con Costantino XI, era ridotto ai minimi termini, lo storico Braudel definisce la città sul Bosforo “un cuore rimasto miracolosamente vivo, di un corpo da lungo tempo cadavere”. Dall’anno precedente l’ultimo assedio, quando Costantinopoli chiedeva aiuto al pontefice e alle flotte crociate, il sostegno non seguì l’immediatezza di altre circostanze. Così l’esito della battaglia finale, che pure si protrasse per circa due mesi, divenne scontato. E se per i difensori le possenti mura teodosiane a nord-ovest e l’ingegnosa, enorme catena che chiudeva lo specchio d’acqua interno al Corno d’Oro impedendo l’ingresso di vascelli invasori all’interno delle aree abitate della città, ritardarono la caduta, fatale per loro, vincente per gli assalitori, risultò l’artiglieria. Un elemento che ha una storia propria e una sottovalutazione. L’ingegnere ungherese Orban, creatore di terribili obici aveva proposto quell’arma ai bizantini, costoro la rifiutarono. Mehemet udite le abilità dell’uomo gli ordinò un cannone straordinario. Fu accontentato: otto metri di lunghezza, 75 cm di diametro con un bronzo spesso 20 cm e proiettili fino a 600 kg di peso. 

 



Mai visto nulla di simile in battaglie che archiviavano il sistema di difesa medioevale incentrato sulle mura, e introducevano le distruzioni esplosive. Dell’ingresso in città dalle brecce aperte resta l’orrifica descrizione di storici che, pur di parte, non si discostavano dai truculenti atti finali dei vincitori con sgozzamenti, stupri, impalamenti. Comunque  l’anima crociata non era da meno, specie con soggetti rimasti nella memoria e nell’immaginario di sudditi e nemici in qualità di demone: il coevo conte Vlad, detto appunto Dracula e l’impalatore, per le crudeli sofferenze che infliggeva agli sconfitti, fossero ottomani o boiardi della Valacchia. Per quella conquista Cooper sentenzia: “La Croce cedette il passo alla Mezzaluna. Santa Sofia divenne moschea. L’impero bizantino fu sostituito da quello ottomano. Costantinopoli diventò Istanbul”. Eppure l’ambizioso Mehmet II gloriato per quel successo e i mercanti cristiani di Galata e Pera che sarebbero dovuti recedere dagli affari, trovarono un accordo. Non fu lunghissimo, ma durò. A metà del Cinquecento la forza commerciale genovese svanì. Non quella della Serenissima, che sotto la croce conservava piazzeforti a Creta, Cipro, in Morea, nelle isole ioniche e dalmate. Tali vicende con risvolti molto più ampi di quanto detto, noti a studiosi e studenti di storia mediterranea, alimentano di certo l’orgoglio nelle odierne scuole religiose turche, come l’istituto İmam Hatip dove si diplomava l’Erdoğan studente. Questi organismi erano presenti nello Stato laico kemalista, ben prima del grande investimento sull’istruzione compiuto dalla confraternita gülenista Hizmet con cui l’imam Fethullah, prima amico poi acerrimo nemico del leader dell’Akp, si fece conoscere per un ventennio (1990-2010). Ora seppure l’incertezza del ballottaggio presidenziale resti, l’andamento elettorale sembra favorire una conferma del presidente uscente, il quale se rieletto sarebbe al terzo mandato, centrando a pieno il centenario della Turchia moderna che si festeggia il 29 ottobre prossimo. E c’è da giurare che un eventuale successo, oltre a renderlo più padre della patria di Atatürk, lo consacrerà “conquistatore” e “magnifico” come certi sultani.  

 


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giovedì 18 maggio 2023

Turchia: chi vince, chi perde, chi contesta

 


In attesa del voto, si discute sul voto. Il primo è quello del ballottaggio, decisivo per eleggere il presidente, il secondo concerne i risultati di domenica scorsa con contestazioni sia per la scelta del Capo dello Stato, sia per il Parlamento. Ad avere il dente avvelenato il partito repubblicano (Chp) che già a inizio dello spoglio aveva attaccato l’agenzia governativa Anadolu rea di far circolare prevalentemente i risultati dei feudi di Erdoğan, che infatti nelle prime due ore di scrutinio risultava depositario d’un 56% di consensi contro il 37% di Kiliçdaroğlu. Col passare delle ore la situazione si è riequilibrata, ma non al punto di consentire un risultato definitivo poiché nessuno ha superato la soglia del 50%. A fine conteggi, verificati da lunedì scorso dal Consiglio Elettorale Supremo, il presidente uscente è al 49.5%, il principale sfidante al 44.89%, il terzo uomo (Oğan) al 5.2%. Ma nella sede centrale del Chp i cuori, presi a simbolo della campagna elettorale, sanguinano. In tanti erano convinti che sarebbe stata l’occasione buona per dare la spallata definitiva allo strapotere di Erdoğan, superandolo al primo turno. E l’attuale situazione che conduce al ballottaggio, viene considerata da esponenti del partito kemalista frutto di scompensi, se non apertamente di brogli. Il loro deputato Erkek ha presentato la lista delle contestazioni: conta errori di calcolo in oltre settemila seggi, duemiladuecento riguardano i voti presidenziali, i restanti quelli per il Meclis. Ovviamente il fronte opposto respinge le accuse, giudicandole false. Il portavoce dell’Akp Celik sostiene come le valutazioni degli avversari siano assolutamente di parte, non giungono dai funzionari dell’organismo di controllo elettorale. Il cui presidente, Ahmet Yener, è intervenuto per dire che vengono diffuse voci infondate sul sistema di voto, verifica e conteggio. Lui fa capire che, al di là delle ordinarie falle proprie di ogni elezione (schede con doppia preferenza, ovviamente da annullare, oppure danneggiate su cui i rappresentanti di lista questionano per l’attendibilità del voto) il sistema è risultato trasparente. 

 

Ciascun gruppo politico aveva ovunque propri rappresentanti, in aggiunta a osservatori esterni. Una sicura carenza è che quest’ultimi non fossero dislocati in tutti i seggi. Comunque taluni oppositori continuano a dissentire giudicando “illegale” il Consiglio Elettorale. Altri conti vengono regolati in casa. Alcuni responsabili della campagna elettorale di Kiliçdaroğlu - che pure nel suo minimalismo, sembrava mettere il dito nella piaga della fallimentare gestione finanziaria di Erdoğan, cui si contestavano carovita, inflazione, caduta di stato sociale per i ceti medi - sono stati rimossi. Perciò la rincorsa degli ultimi dieci giorni fino al ballottaggio, verrà diretta da altro personale. E sebbene l’incertezza resti, soprattutto per il recupero dei voti di Oğan con cui lo staff del Chp ha già avuto un paio d’incontri, per quanto attenda, come lo stesso Akp, il pronunciamento ufficiale del ‘terzo uomo’ fissato per domani, sembra che l’entusiasmo che accompagnava la campagna dell’outsider intenzionato a entrare nella storia nazionale sia svilita. ‘Tornerà la primavera’ diceva uno dei suoi slogan, invece temperature autunnali e maltempo affliggono buona parte dell’Anatolia, come sta accadendo nel Mediterraneo centrale. L’altra resa dei conti, rispetto a quel che è accaduto alle politiche, è sul tavolo dei sei. L’unica a tenere botta è stata Akşener col suo Buon partito (İyi) capace di confermarsi gruppo compatto e conquistare 44 seggi in Parlamento. Le altre componenti sono risultate ininfluenti e in tanti casi inestistenti, come i raggruppamenti creati ad arte per i due ex ministri di Erdoğan, risultati senza radicamento e neppure carisma, nonostante entrambi fossero politici conosciuti e navigati. Erano però cresciuti sulla sponda opposta e dunque vissuti dall’elettorato kemalista come corpi estranei. Nonostante il partito repubblicano abbia ottenuto un aumento dei deputati - passando dai 146 del 2018 agli attuali 168 - solo il miracolo dell’elezione a presidente può salvare Kiliçdaroğlu da una chiusura di carriera. Un fallimento del sogno presidenziale gli anticiperà il pensionamento politico. 

 

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martedì 16 maggio 2023

Presidenziali turche - Il peso del terzo uomo

 


Ha rotto coi ‘Lupi grigi’ otto anni addietro perché contestava al leader Bahçeli lo sposalizio, politico s’intende, con Erdoğan. Loro son tutti maschi alfa e di promiscuità non vogliono sentir parlare. Men che meno lui, Sinan Oğan, che si nega anche relazioni politiche, così da restare in splendida solitudine minoritaria ma lanciandosi nella corsa presidenziale. E in un confronto-scontro polarizzatissimo, il terzo uomo ha raccolto quasi tre milioni di voti, un 5,2% che vale oro per il ballottaggio del 28 maggio. Gli osservatori, non solo interni, si chiedono a chi finirà quel patrimonio elettorale, e proprio perché nella prima tornata i due contendenti per l’alta carica dello Stato sono risultati distanti di circa cinque lunghezze, quei voti risultano determinanti. Riversati su Kiliçdaroğlu pareggerebbero la cifra tanto da far contare anche l’ultima scheda per determinare il vincitore. Orientati su Erdoğan il vantaggio sarebbe schiacciante. Ma le varianti sono ovviamente maggiori. Iniziando dal possibile astensionismo degli elettori di Oğan, che sono ipernazionalisti ‘duri e puri’ e disdegnano il kemalismo del primo e l’islamismo del secondo. La loro scorza è terribilmente xenofoba. Gli episodi d’intolleranza razziale che si registrano anche nelle affollate metropoli, con aggressioni di gruppo o isolate di rifugiati siriani e d’altra nazionalità, provengono in genere da elementi che la pensano come Oğan, per quanto lui appaia come un posato ed elegante signore di mezza età. Personalmente non s’è pronunciato sul ballottaggio di fine mese, ma da indiscrezioni si sa che il suo staff è in contatto con quelli dei contendenti. Potrebbero essere in gioco accordi e prebende dal momento che Oğan in politica ci resta al di là dell’elezione presidenziale. Chi conosce le dinamiche del partito nazionalista (Mhp), dalle cui fila il terzo uomo proviene, ritiene che la candidatura presidenziale non poteva avere presunzione di successo, serviva a rafforzarne l’immagine per dare l’abbrivio a una scalata quando Bahçeli non ci sarà più. Riferendosi non a una dipartita naturale, visto che il capo dei ‘Lupi grigi’ non è così vecchio, ma a un ricambio politico nel raggruppamento che rappresenta comunque la terza forza del Paese. Anche nelle elezioni di domenica Mhp ha superato il 10% dei consensi e Oğan, che in questi giorni ha riscontrato un buon ritorno di popolarità, conta a scalarne la presidenza. Sarebbe un riscatto per l’ostracismo ricevuto. Comunque se si va all’origine di quell’espulsione ci si può orientare per il presente. Oğan contestava al Mhp l’alleanza con l’Akp, se la sua intransigenza resta tale difficilmente dirigerà i consensi ricevuti sul presidente uscente. Eppure c’è un fattore che conta più d’ogni altro per il terzo uomo: combattere il terrorismo. Che nel linguaggio nazionalista equivale a contrapporsi alla comunità kurda, ben oltre la sigla del suo partito armato, il Pkk. Poiché l’equazione che il nazionalismo turco globale - dell’ultradestra, kemalista o islamico che sia - mette in atto è chiunque appoggia la causa kurda può essere tacciato di sostegno al terrorismo, ecco che Oğan fa pagare pegno a Kiliçdaroğlu reo d’aver accettato i voti dell’Hdp, il partito kurdo considerato fiancheggiatore del Pkk. Il cerchio, dunque, si chiude. Del resto lo stesso Erdoğan aveva un accordo di cartello con un partito islamista kurdo, Huda–Par, minoritario ma kurdo, un peccato mortale per Oğan, l’uomo che può fare la differenza sulle presidenziali. Deve decidere chi punire.  

 

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domenica 14 maggio 2023

Turchia spaccata, per ora senza presidente

 


Per avere il nuovo presidente la Turchia dovrà attendere il 28 maggio. Stanotte né Erdoğan né lo sfidante Kiliçdaroğlu hanno superato il 50% di preferenze. La voglia di conservazione e il desiderio di cambiamento si sono fronteggiati dentro e fuori dai seggi. Come avevano fatto per l’intera, lunga, combattuta, partecipatissima campagna elettorale vissuta a suon di slogan (“uomo giusto al momento giusto” e “te lo prometto“), programmi faraonici e liste della spesa, rispettive platee che spaccano il Paese coi simboli delle quattro dita di Rabaa per l’Akp e le mani a forma di cuore per i sostenitori del politico del Chp. Le oceaniche adunate dei giorni scorsi sono state l’annuncio d’una partecipazione al voto fra le più alte della storia nazionale, del resto l’appuntamento è storico, non solo per il centenario della nazione. Sfiora il 90%. Partecipata in maniera trasversale, coi cinque milioni di neo votanti ed elettori anziani che non mollano il seggio a cento e più anni. All’apertura dei seggi emittenti nazionali ed estere hanno puntato l’obiettivo su Gulu Dogan. Se lo merita. A 112 anni è voluta andare di persona a infilare la scheda nell’urna, sostenendo di star bene e non aver bisogno dei funzionari, che per nonnetti e disabili raccolgono il voto nelle abitazioni. E’ accaduto a Gümüşhane, un centinaio di chilometri a sud di Trebisonda sul mar Nero. A un paio d’ore dalla chiusura dei seggi Erdoğan è dato al 52%, Kiliçdaroğlu dieci punti di percentuale sotto. Immediatamente il sindaco di Istanbul İmamoğlu, vice del candidato repubblicano nell’Alleanza Nazionale che s’oppone all’Alleanza della Repubblica (Akp, Mhp e spiccioli dell’islamismo conservatore) accusa l’agenzia Anadolu di celare i voti dell’opposizione. Da parte sua Kiliçdaroğlu twitta: Öndeyiz,siamo avanti. Desiderio o realtà bisognerà aspettare. Passano altre due ore e alle 22:30 di Ankara il margine è ritoccato: il repubblicano supera il 44% mentre il presidente uscente, nonostante i ventitré milioni e mezzo di consensi è a un soffio sopra il 50%. 

 


Poi quel soffio s’affievolisce la percentuale cala: 49.7% contro i 44.6% dello sfidante. C’è il terzo incomodo, Sinan Oǧan (ricordatevi questo nome perché i suoi due milioni e settecentomila consensi faranno la differenza fra due settimane) attestato al 5.3% che condiziona le percentuali altrui. Ma paradosso dei paradossi se nella notte, per ora manca circa l’8% di seggi, le percentuali resteranno quelle  indicate, a impedire la rielezione del presidente uscente è İnce, il candidato ritiratosi giovedì scorso, che comunque raccoglie lo 0.46%. Non nel voto odierno, non poteva farlo, ma in quello all’estero avvenuto prima del ritiro. Il Consiglio Elettorale Supremo ha deciso di conteggiare i voti ricevuti nel precedente passaggio e quei voti abbassano la percentuale di ciascun concorrente. Le proiezioni delle politiche vedono conservare la maggioranza all’alleanza Akp-Mhp che dovrebbero avere rispettivamente 267 seggi (nel 2018 l’Akp contava 295 deputati) e 51 seggi (i nazionalisti ne avevano 49). Cinque deputati li strappa Refah Partisi il gruppo di Fatih Erbakan per un totale di 323 seggi di maggioranza relativa (49.95%). Sul fronte opposto 169 i deputati per Chp (ne contava 146) e 45 per İyi della Akşner, che incamera due deputati in più di cinque anni fa e risulta l’unica dei sei gruppi dell’alleanza d’opposizione a superare la soglia di sbarramento del 7%. Il blocco dell’est s’è orientato sull’aggregazione della Sinistra Verde e ottiene 60 deputati (come Hdp ne aveva 67), unita al Tip (Türkiya İşçi Partisi) con 3 seggi porta nel Meclis rappresentati dai collegi di Ağri, Van, Hakkari, Mardin, Batman, Diyarbakır e altre province. Come aveva promesso la leadership del partito kurdo, questa componente non avrà fatto mancare il sostegno a Kiliçdaroğlu e altrettanto lui s’aspetta per il ballottaggio. Inutile dire che i dati relativi su cui ragionano tutti i media, e anche noi, saranno verificati dal Collegio Elettorale Supremo. Se la sfida per la presidenza resta apertissima, la fisionomia del Parlamento per i prossimi anni non consentirà la riforma del presidenzialismo che aveva in mente il cosiddetto Gandhi turco, a meno che non ci saranno tanti Davutoğlu e Babacan pronti a  cambiare bandiera. Fino a quel momento se eletto, sarà lui l’uomo solo al comando.

  

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venerdì 12 maggio 2023

Turchia, la trumpizzazione delle elezioni

 


Il clima elettorale turco è ormai bollente. I colpi bassi della politica delle calunnie in questi giorni avevano mostrato, ovviamente sui social, uno dei quattro candidati - Muharrem İnce - fare sesso con una persona. Un misero falso, presto bollato come un’operazione squallida e maldestra volta a screditarlo. Eppure il leader del Partito della Patria, così devoto a quei valori e alla famiglia s’era dovuto giustificare, fino ad annunciare ieri, a tre giorni dal voto, il ritiro dalle presidenziali, mentre il partito resta in corsa per le politiche. İnce ha chiosato: “Faccio questo per il mio Paese”. Non c’è bisogno di dietrologie per separare le vicende. Al di là della bufala del video a ‘luci rosse’ l’ex membro del Chp, dal 2018 in dissidio col partito repubblicano, era comunque accreditato d’un 3% di consensi e questi dovrebbero finire a  Kiliçdaroğlu che s’è precipitato a solidarizzare con l’ex compagno, a invitarlo a dimenticare gli antichi dissapori e a stare dalla sua parte. L’interessato non s’è pronunciato e non è detto che i suoi elettori, che ne avevano seguìto le orme polemiche contro l’accentramento di potere dello stesso Kiliçdaroğlu (anche i sindaci repubblicani di Istanbul e Ankara ne sanno qualcosa), accetteranno di sostenere lui e il Chp. Dal punto di vista organizzativo è troppo tardi per stampare nuove schede dunque gli elettori troveranno alle presidenziali quelle con la quaterna. Fra l’altro i turchi residenti all’estero hanno già votato o stanno votando, in questo caso le preferenze per İnce saranno annullate. Sempre organizzativamente il Consiglio Supremo Elettorale ha respinto la richiesta del ministro dell’Interno Soylu di riversare le informazioni elettorali al ‘Centro di sicurezza ed emergenza’ diretto dal dicastero. Viene ribadito che il Consiglio è l’unico organo competente nella raccolta e nel  computo dei voti. Intanto Erdoğan, che gli exit-poll continuano a dare in ritardo rispetto a Kiliçdaroğlu, dopo il bagno di folla nella sua Istanbul, cerca di recuperare pezzetti di percentuali su territori impossibili. E’ di ieri l’apertura ai kurdi che chiama miei cari fratelli e dice loro: “voi siete testimoni del nostro impegno, ci sono stati nostri errori e impedimenti ma anche volontà di superarli. Ci opporremo al terrorismo e lavoreremo per una Turchia libera pacifica e prospera anche con voi e a difesa dei vostri diritti”. Quando si dice: non lasciar nulla d’intentato.

 


Invece proprio il voto all’estero, che ammonta a 3.5 milioni di elettori, ha offerto tensioni fin dentro i seggi di Germania e Paesi Bassi, dove attivisti repubblicani e islamici si sono affrontati e spintonati tanto da far intervenire la polizia. Contatti diretti si sono registrati a Gaziantep, sempre fra militanti dei gruppi giovanili dell’Akp e del Chp, che si lanciavano pietre e cercavano di divellere i tabelloni elettorali dell’uno e dell’altro fronte. Invece da talune aree terremotate giungono notizie sull’impossibilità di allestire seggi ovunque, cosicché tre milioni di sfollati in vari punti di Paese quasi sicuramente saranno costretti a disertare le urne. Queste assenze incidono sulle proiezioni di voto e ancor più incideranno sul voto reale, cosicché l’incertezza rappresenta il panorama anche delle ultime battute della caccia al consenso. A chi pensa che sia giunta la sua ora Erdoğan risponde in tivù: "Vogliamo una nuova Costituzione civile e libertaria scritta con lo spirito nazionale turco. Se verrà realizzata significherà cancellare le ultime nuvole sulla nostra democrazia” (sic).  Sui 600 deputati del Meclis occorrono 400 voti per cambiare la Costituzione, mentre con un consenso compreso fra i 360 e 400 si va al referendum popolare. Già nel 2017 il Paese s’era pronunciato avallando la trasformazione presidenzialista della Carta, vinse il sì col 51,3% contro il 48,7% di contrari. E proprio l’azzeramento del presidenzialismo e il ritorno alla centralità parlamentare è la riforma istituzionale su cui batte il ‘Tavolo dei sei’, un piatto condito con ricette economiche, abbattimento dell’inflazione, rimpatrio dei rifugiati, assistenza ai terremotati. Al futuro nel nome della conservazione sostenuto da Erdoğan, Kiliçdaroğlu contrappone la rivoluzione del cambiamento su tutto, compresi di diritti delle minoranze e dei Lgbtq, ma bisognerà vedere quanto la pensino così gli alleati. 

 

Cè anche un terzo polo, che nelle politiche si presenta con l’etichetta ‘Alleanza per il lavoro e la libertà’. E’ formato dal Partito della sinistra verde, un residuato dell’orientamento d’opposizione raccolto dieci anni addietro nella protesta del Gezi park e dal Partito democratico dei popoli. Quest’ultimo per una causa giudiziaria in corso sui presunti legami col Pkk non può presentare i candidati sotto la sigla dell’Hdp e li inserisce in quella della sinistra verde. Per le presidenziali hanno dato l’appoggio a Kiliçdaroğlu, che ne ricava il vantaggio di cui lo accreditano le proiezioni di voto, visto che acquisirebbe fra il 7% e il 10% del consenso kurdo nell’area del sud-est. Per le politiche questa componente ha la possibilità di far eleggere i suoi rappresentanti poiché non teme l’alta soglia di sbarramento (7%) su cui i partitini di sostegno sia all’Akp sia al Chp possono invece inciampare. Sui grandi temi di confronto-scontro l’Alleanza per il lavoro ribadisce: il ruolo centrale del Meclis, da cui spesso sono stati esclusi parecchi deputati finiti in galera come il co-presidente Demirtaş; sostiene le politiche incentrate sul miglioramento delle condizioni di vita per i ceti operai e sul conseguimento per loro di servizi sanitari, trasporti e istruzione gratuiti; vuole il conseguimento d’una soluzione pacifica alla questione kurda e la cessazione delle ritorsioni verso i propri membri che, eletti nelle amministrazioni locali in qualità di sindaco,  si vedono sostituiti da fiduciari nominati dal governo. Inutile ribadire che fra le libertà rivendicate dal terzo polo ci sono anche quelle di genere e sessuali, dunque pieni diritti per la comunità Lgbtq. Come s’orienteranno i 64 milioni di elettori si vedrà sin dalle prime ore della notte, perlomeno riguardo al tanto atteso risultato presidenziale che senza il 51% atto a decretare il vincitore sposta al 28 maggio il round definitivo. Per ora si sa che l’elettorato è diviso in 81 province e ha un’elevata concentrazione urbana (82,7%). L’Anatolia rurale fa parte del passato. Le donne risultano in maggioranza (circa due milioni in più degli uomini) e in ballo ci sono quasi cinque milioni di giovani al primo voto. La Turchia del futuro passa di qui. 

 

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