mercoledì 28 ottobre 2020

Erdoğan e la benzina di Charlie

Scherza coi fanti, ma lascia stare i santi recita un libretto del Belcanto, categoria occidentale che magari l'ultimo sultano, memore delle Tanzimat ottecentesche e della rincorsa ai modelli europei,  avrà, forse, apprezzato. La Turchia attuale, meno laica e nostalgicamente ottomana, ha forse poco senso dell’ironia rispetto ad altre fasi del suo passato. Però dell’Erdoğan sbracato in poltrona in mutande, che l’ultima vignetta di Charlie Hebdo definisce ‘molto buffo’ mentre drinka, solleva il chador d’una musulmana osservandole il posteriore nudo ed esclama “ouuuh! Il profeta!”, offre l’ennesima conferma del delirio di questo gruppo kamikaze della satira. Probabilmente il punto di non ritorno nella redazione del settimanale parigino è rappresentato dalla strage subìta dal suo nucleo storico barbaramente assassinato dal commando jihadista dei fratelli Kouachi. Cosicché incuranti di tutto e tutti, e soprattutto convinti che la satira debba colpire a 360°, i vignettisti ‘libertari’ si sfogano anche con strisce di dubbio gusto. Anche per i senzadio occidentali. Stavolta il bersaglio principale è l’odiatissimo, non solo da loro, presidente turco. Un fante, salito molto in alto, dunque passibile di presa in giro, perché lontano da misticismo, pur reputandosi ossequioso fedele dell’Islam. Peccato non sia l’unico colpito dalla striscia satireggiante. Ancora una volta viene derisa la figura del profeta islamico, lì metaforizzato come ciascuno può osservare. In aggiunta si schernisce una figura femminile, ben oltre l’abito che veste. L’uso della parte anatomica della donna propone un machismo becero che incredibile a dirsi, uscirebbe (sarà così?) dal pennarello di tal ‘Alice’. I più avveduti ribadiranno che la satira vola ben oltre i generi, dunque la vignettista-donna può scherzare sui tratti anatomici al di là dei sessi. Sarà, ma non è questo il punto. Restano, accanto alla questione del buon gusto, due fattori incredibilmente destabilizzanti. 
 
Quello della provocazione religiosa
, nuovamente contro Maometto, dell’offesa a un capo di Stato, che certo si può contestare e deridere poiché appartiene al mondo dei fanti, seppure d’alto rango. Per chi tiene al protocollo – e i caricaturisti ovviamente s’autoescludono – l’oltraggio alle alte cariche d’una nazione diventa vilipendio, come lo è quello a una confessione, considerato poi dai chierici e dagli stessi fedeli una blasfemia. Infine l’attacco di genere è sessismo. Nella vignetta firmata Alice c’è un po’ di tutto, e il bersaglio Erdoğan, trova pane per i suoi denti. Al leader turco che ha fatto della politica - interna ed estera - un terreno di accumulazione di potere, la strategia di cercare nemici per rafforzarsi piace da morire. In più abilmente utilizza la sua funzione nel proporsi difensore di qualcosa. Naturalmente del mondo islamico, della sua gente, di profughi e rifugiati, del popolo turco, dei valori di patria, ultimamente di ‘patria blu’, e della grandezza d’un passato nazionale e imperiale. Negli ultimi anni il suo discusso e discutibile ruolo politico è stato spregiudicato, alla stregua di altri autocrati che manipolano eventi e crisi, per giocare una cinica partita di potere. Eppure l’Occidente che gli si oppone ha commesso e commette errori di valutazione e peccati di vario genere soprattutto sul fronte geopolitico. La Francia in primis, da Sarkozy a Macron. Alcuni presidenti e premier sembrano goffi giocatori di scacchi costretti a subìre umiliazioni dal proprio pressappochismo tattico. Poi, a incrinare ulteriormente la linea dell’Eliseo interviene l’Hebdo con la sua irriverenza egotista, che chissà per quali ragioni viene difesa dalla politica francese come fosse l’étendard sanglant contro la tirannia. Quella di Erdoğan la conoscono in molti, ma la Francia della caricatura e della politica paiono dargli una mano. 

lunedì 26 ottobre 2020

Kabul, sangue studentesco

Il rito della morte esplosiva s’è ripetuto a Kabul. Copioni collaudati e mai frenati, per incapacità, mancanza di volontà, impossibilità. Il kamikaze che s’è fatto saltare in aria portando con sé una trentina di studenti e ferendone altrettanti nell’area ovest della capitale, presso l’Istituto Kawsae-e Danish, è un miliziano dell’Isil. Il gruppo fondamentalista ha rivendicato l’attentato senza fornire prove. I talebani hanno rigettato ogni responsabilità. Com’era accaduto nel maggio scorso, quando alcuni jihadisti del Khorasan avevano sparso sangue di neonati e madri hazara, a perdere la vita sono stati adolescenti sciiti fra i diciassette e diciotto anni che si recavano nel centro per prepararsi alla prova d’ammissione universitaria. Un dispaccio delle Forze di sicurezza afferma che l’attentatore aveva provato, senza esito, a entrare nell’edificio dove il numero dei giovani che avrebbe potuto colpire era decisamente superiore a quelli decimati fuori. Saltati in aria anche alcuni agenti di polizia che vigilavano l’ingresso, una protezione introdotta dal governo dopo un simile attentato che nell’agosto 2018 aveva sfregiato un’altra scuola nel quartiere di Dasht-e Barchi. Comunque la misura non ha preservato il luogo dall’ennesima esplosione. I filtri sarebbero dovuti essere molto più fitti, ma il sito non era certo d’importanza strategica come i palazzi governativi, ed era dotato solo d’un simulacro di sicurezza. A mescolare ancor più le carte – è già accaduto in molti attentati – è stato l’abbigliamento del kamikaze: non il turbante miliziano bensì una divisa militare che lo rendeva del tutto simile ai veri soldati posti a presidio. 
 
Alcuni testimoni hanno riferito che dopo l’esplosione, fra gli studenti e i passanti accorsi a prestare soccorso, qualcuno filmava la scena col proprio cellulare. I poliziotti intervenuti fermavano quei giovani, sequestrando i telefonini. “Non siete in grado di proteggerci e ci sequestrate” gridavano quegli studenti, non è servito a nulla. La morte violenta che da decenni straccia il Paese, nonostante le ultime sedicenti intenzioni di consolidare un futuro di coesistenza pacifica, vede altrove protagoniste le forze talebane. Nelle province dove i comandi dei turbanti contano molto più dei governatori di Ghani, i taliban hanno ripreso le offensive contro l’esercito afghano. Nei giorni scorsi era stata Emergency a lanciare un sos internazionale dalla provincia dell’Helmand, dov’è presente con un proprio centro chirurgico per vittime di guerra dal 2004. Il portavoce dell’ong sottolineava che dalla prima decade di ottobre avevano ricoverato e curato oltre cento pazienti, poi dal 19 del mese c’era stata un’impennata di arrivi. Una sequenza disperata, addirittura una cinquantina in un giorno, alcuni dei quali gravissimi e deceduti dopo poche ore. Nell’Helmand si registrano evacuazioni di decine di migliaia di persone che cercano riparo altrove. Ma anche le province di Farah, Kandahar, Kunduz e Badakhshan sono sconvolte da azioni di guerra più che di guerriglia. I tavoli aperti, non solo non annunciano la pace, non marcano neppure una tregua. 

sabato 24 ottobre 2020

Mufti libera: “Il Bjp demolisce la Costituzione, spacca l’India, ruba i diritti agli oppressi”

Dopo quattordici mesi di pesante detenzione Mehbooba Mufti, leader del Partito Democratico del Popolo ed ex primo ministro dello Stato indiano Jammu e Kashmir, ha parlato in una conferenza stampa dopo essere stata rilasciata una decina di giorni fa. Mantenendo fede alla fama di politica d’acciaio ha esordito denunciando le posizioni del Bharatiya Janata Party responsabile di “voler demolire la Costituzione nazionale” e di sostituirla con un manifesto di proprie volontà di partito animate dal fondamentalismo confessionale hindu. Mufti ha accusato anche tanti colleghi che minimizzano la situazione interna, mentre operazioni come l’abolizione dell’articolo 370 della Carta (sull’autonomia del suo Stato) e la norma denominata Citizenship Amendment Act (che ammette l’ingresso in India alle minoranze confessionali di nazioni confinanti a eccezione dei musulmani) puntano a polarizzare la già complessa situazione interna. “Penso che il governo stia rubando i diritti degli oppressi e della grande comunità dei dalits (storicamente la gente fuori dalle caste, ndr)” ha tuonato al microfono. Quindi: “La leadership del Bjp vuole scippare il territorio del Jammu e Kashmir alla popolazione, quella formazione non s’interessa dei bisogni delle persone, vuole solo annettere la regione e decidere in solitaria cosa farne”. 
 
Ha poi aggiunto:
Noi siamo incompatibili col ceto politico del Bjp che mira al saccheggio dei beni del Paese, disprezza le minoranze e chi ha fatto propria la storia indiana e la sua scelta liberale, democratica, secolare”. Gli strali volano su Modi e la sua cricca accusata d’aver fallito su ogni terreno da quello economico, disastroso ben oltre i problemi creati dalla pandemia, alla convivenza che viene tranciata cercando capri espiatori nei kashmiri (sottoposti dall’agosto 2019 a uno stato d’assedio militare), agli islamici e perfino ai dalits. Nel contraddittorio con la stampa è venuta fuori la questione dell’errore tattico compiuto nelle elezioni del 2014 dal suo partito che si accordò col Bjp. La leader ha sottolineato che ci può essere rammarico per essere finiti, in quella fase particolare, al fianco d’un partito che comprendeva soggetti come il vecchio capo Vajpayee, che fu anche primo ministro ma il cui spirito estremista era noto, per aver militato nei gruppi del fondamentalismo hindu come il Rashitriya Swayamsevak Sangh (formazioni paramilitari fascistoidi e razziste). “Il nostro partito proseguirà l’impegno per rilanciare l’autogoverno del Jammu e Kashmir, continueremo a farlo secondo la politica pacifica che ci caratterizza”. Se la caparbia opposizione a Modi le consentirà d’infiammare future conferenze e piazze è tutto da verificare.

martedì 20 ottobre 2020

Nagorno Karabakh, l’indesiderata guerra per procura

Le granate d’artiglieria pesante riprese a cadere copiose sulle abitazioni, a Stepanakert come a Ganja, che portano i vertici militari di Armenia e Azerbaijan a giustificare i morti civili – trecento, cinquecento? – come “danni collaterali”, neanche fossero le potenze padrine delle due comunità tornate a disputarsi il Nagorno Karabakh, hanno un comune fornitore: la Russia putiniana. Che ha fatto dire al ministro Lavrov: questa guerra non s’ha da fare, sebbene le tregue avviate il 10 e il 18 ottobre siano durate qualche giorno e poi poche ore. Baku ed Yerevan smaniano per azzuffarsi spargendo più sangue civile che militare. E la Russia pro armena (esiste un trattato di difesa militare che lega l’Armenia e altre nazioni caucasiche all’ex Urss, l’Azerbaijan non è fra queste), non ha usato nessun soldato in funzione del medesimo accordo. Perché pensa - e lo fa dire a Lavrov - che la diatriba si risolve sui tavoli di pace, non sui campi di battaglia. Invece gli armeni sostengono che Ankara, come già fece in Siria, stia infiltrando o favorendo l’accorrere di mercenari filo-azeri, filo-turchi e jihadisti. Le prove sono finora scarse. L’ipotesi plausibile, visto che dopo il confronto muscolare in Siria Erdoğan e Putin, avversari diventati amici, si sono misurati nel deserto libico, pur indirettamente a suon di mercenari (in questo caso russi) e tecnologia aerea (i droni da combattimento TB2 Bayraktar che hanno avuto la meglio). Ma l’eventuale scontro per procura, i due uomini forti sembra non vogliano realizzarlo, Mosca ancor più di Ankara. S’incrinerebbe un intreccio affaristico fra due Paesi e due autocrati che nell’ultimo triennio hanno gestito favorevolmente ed entrambi guadagnato dai musi duri e dalle strette di mano.

Come detto l’Azerbaijan non è legato da patti militari con Mosca ma è guidato da un ex militare, Ilham Alyev, succeduto a suo padre, un politico formatosi nel Kgb sovietico. Proprio come Putin. Nell’ultimo decennio il Paese ha ricevuto dalla Russia, comprandole, una gran quantità di forniture belliche, e speso addirittura 24 miliardi di dollari. Sarebbe più corretto definirli petrodollari, poiché le molte ricchezze azere provengono dalle sue riserve energetiche. Comunque Baku acquista armi da vari soggetti, dopo la Russia ci sono Turchia e Israele. Simili forniture irritano il governo Pashinyan che investe molto meno in materiale bellico (4 miliardi di dollari nello stesso periodo, secondo dati forniti dall’Istituto di pace di Stoccolma). Il Cremlino non si preoccupa degli altrui umori specie di quelli poco inclini ad accettare ‘suggerimenti’, come fa l’attuale premier armeno ben disposto verso il liberismo occidentale e critico al sostegno moscovita alle tendenze separatiste di taluni territori (Donbass, Abkhazia, ecc). Certo nella controversia, Putin (ed Erdoğan) si mostrano reciproci protettori delle confessioni armena e islamica, ma pare più una posizione imposta dal ruolo pubblico che l’uno e l’altro vestono in casa propria e sulla scena mondiale. Però talune conflittualità irrisolte possono creare strascichi proprio ai gestori dei grandi giochi internazionali; per questo il realistico Lavrov punta a spegnere la brace caucasica.

lunedì 19 ottobre 2020

Egitto, americani per i diritti


Tempo di elezioni a stellestrisce e i deputati statunitensi riscoprono il tema dei diritti in politica estera. Cinquantacinque democratici del Congresso hanno sottoscritto una lettera stilata da tre avvocati del proprio schieramento. La missiva è indirizzata al presidente egiziano al Sisi, senza mezzi termini gli si chiede di rilasciare attivisti, giornalisti, avvocati incarcerati per aver rivendicato l’applicazione dei diritti in quel Paese. “L’ingiusta detenzione in Egitto di difensori dei diritti umani, di attivisti e pacifisti è in netta opposizione alla tutela e alla libertà degli essseri umani custodite nella legge egiziana e in quella americana” afferma perentorio un passo della lettera. I deputati statunitensi esprimono timori anche per la complessa fase di pandemia che i luoghi affollati, come sono le celle delle prigioni cairote, rendono particolarmente pericolosa per la propagazione del virus. Un contagio che avviene fra i detenuti (ultimamente sono deceduti in carcere quattordici affetti da Covid-19) e fra gli stessi agenti di custodia. Sul punto c’è un attacco diretto a Sisi in persona cui è attribuita la volontà di tenere bloccati i prigionieri, con un’insensibilità senza pari attorno alla medesima questione della salute. Il testo fa un diretto riferimento ai finanziamenti militari degli Usa all’Egitto, che fra i Paesi armati da Washington occupa la seconda posizione assoluta. Ne deriva un esplicito avvertimento, anche in funzione del prossimo cambiamento d’indirizzo politico nell’amministrazione della Casa Bianca auspicato dai firmatari. Se in futuro Sisi vorrà ottenere le ‘preziose forniture’ dovrà addivenire a più miti consigli verso le decine di migliaia di cittadini bloccati in galera. Alcuni da anni, altri per anni come sancisce la norma del rinvio perpetuo del fermo e dello slittamento infinito dei processi subìto da molti di loro. La lettera ne ricorda i più noti: i militanti politici Ramy Shaath, Alaa Abdel Fattah, Zyad el Elaimy. Gli avvocati el Baqer ed el Massry; i giornalisti Solafa Magdy ed Esraa Abdel Fattah.

mercoledì 14 ottobre 2020

Afghanistan, la guerra nonostante Doha

Notizie raccolte dall’Afghanistan Analists Network nei mesi primaverili ed estivi - quindi prima che s’avviassero i colloqui inter-afghani e nella fase successiva l’accordo pacificatorio vergato in Qatar fra le delegazioni statunitense e talebana - mostrano un quadro del Paese nient’affatto  lontano dall’aria di morte che la popolazione respira da decenni. Dopo la firma di Doha (29 febbraio) l’esercito afghano sembrava aver sospeso gran parte delle operazioni di terra, mentre i talebani già il 2 marzo lanciavano l’ammonimento che la loro offensiva sarebbe potuta riavviarsi in qualunque momento. A detta del ministro dell’Interno di Kabul, già nei giorni seguenti gli studenti coranici lanciavano operazioni in 17 province. Comunque, distinguendo fra i firmatari dell’accordo e i politici locali, i taliban si sono lasciati mano libera e hanno ripreso ad attaccare le forze governative, seppure vigesse un generalizzato cessate il fuoco. Ma i negoziatori dell’Emirato Islamico non estendevano questa tregua agli amministratori di Ghani e al loro apparato di sicurezza. Ai primi di aprile anche l’Afghan National Security Forces ha ripreso le operazioni belliche. E mentre la stampa ha dato risalto soprattutto a notizie eclatanti come l’assalto, senza conseguenze al vicepresidente Amrullah Saleh, decine di altre azioni si sono ripetute in varie province. Spesso s’è trattato di agguati o tentativi d’attentato tramite kamikaze, camion-bomba o i meno ingombranti, ma sempre micidiali, Ied. Le vittime erano militari, ma anche avvocati dei diritti e ovviamente sfortunati passanti. Si computano (fonte Unama) quasi 3.500 fra morti e feriti nei primi sei mesi dell’anno in corso. Sulla paternità delle azioni c’è una parziale incognita. I vertici talebani, per non essere considerati traditori dei patti, in genere rigettavano le responsabilità, seppure in alcune occasioni ne hanno assunto la paternità.


Talune atroci stragi, su tutte quella di maggio nella clinica per neonati di Nangrahar, hanno raggiunto un livello d’insensata crudeltà che sembra aver turbato gli stessi turbanti, impegnati a dimostrare a ogni costo la propria estraneità da quella follìa. Che, comunque, albergava nell’Iskp afghano, loro rivale nel progetto di scalata al potere. Eppure nonostante l’approccio diplomatico degli ultimi tempi, i taliban risultano sempre sensibili al richiamo del sangue e non hanno voluto perder colpi al cospetto dei miliziani del Khorasan. Da qui gli attacchi in 32 province con l’uccisione di circa trecento soldati dell’ANSF. Secondo il governo di Kabul il numero di morti e feriti per mano talebana nello stesso periodo sarebbe triplo: 12.279. Ma il sospetto che ci sia una buona dose di propaganda è elevato, anche perché non appaiono addebiti al proprio esercito per le morte di civili. Un atteggiamento totalmente fuori dalla realtà che la popolazione, suo malgrado, valuta. Proprio il citato network narra quanto documentato da un proprio collaboratore a fine giugno nell’Helmand: la risposta dell’esercito afghano a un’azione talebana ha prodotto 19 vittime e 31 feriti. E questo è uno delle centinaia di episodi dei sedicenti mesi di tregua in cui il conflitto strisciante è proseguito, col vantaggio per i talebani di non subìre i micidiali attacchi aerei statunitensi. Mentre una spaccatura passa fra lo staff di Ghani e il corpo militare, ufficiali e soldati che rischiano la vita. I graduati vivono un senso di frustrazione nel pensare che in un domani che s’approssima potrebbero prendere ordini – politici e forse anche tattici – dagli attuali avversari promossi a neo governanti.     

lunedì 12 ottobre 2020

Il Libano ad Hariri, tutto come prima

Il Libano che spera di salvarsi tornando una colonia parigina non poteva che rispolverare nel passato, seppure recente, un ipotetico primo ministro servile con l’Impero che fu. In realtà come in tanto Magreb e Mashreq la mano coloniale è rimasta tale nei decenni, nonostante le acquisite indipendenze. Ma specie al piccolo Libano - straziato dal quindicennio di guerra civile e dal rischio di finire fagocitato dalle smanie d’annessione israeliana e siriana - anche altre mani hanno contribuito a impedire un futuro. Mani che facevano discendere denaro, tanto denaro. Mani soprattutto saudite ed emiratine, ma pure iraniane. Capitali buoni per speculazioni edilizie e finanziarie che hanno drogato la pseudo emancipazione del Paese negli anni Novanta, quando a condurre il piano liberista era Hariri padre. Un progetto, è stato detto più volte, imploso su se stesso, annuncio di quel controllo che potenze regionali volevano avere del fragile sistema multiconfessionale. La durissima crisi interna che da oltre un anno spingeva in piazza giovani generazioni e anche cinquantenni e sessantenni coi conti correnti azzerati, diceva innanzitutto basta a qualsiasi ingerenza straniera, all’assistenzialismo economico che impediva lo sviluppo autoctono, al modello della spartizione confessionale foriero del clanismo e del clientelismo cronici patrigni verso la stessa massa dei gruppi etnico-religiosi che si spartiscono il potere. Ribellandosi al controllo del territorio l’avevano gridato per via i ragazzi poveri della cintura sciita, lo gridavano accanto agli ex ceti medi sunniti e drusi. Un’incrinatura minore s’intravvedeva fra i maroniti, seppure la crisi mordeva e seminava sfiducia pure lì. Le fiammate d’un anno fa capaci di bruciare le banche del centro e portare scompiglio fra le vetrine di Hamra, nel cuore della Beirut da godere, sono state niente davanti alla catastrofe del porto esploso per la ‘bomba al nitrato di ammonio’ a lungo serbata fra incuria, connivenze, omertà di politici, amministratori, forze dell’ordine, Intelligence e paramilitari in servizio permanente effettivo.
Davanti ai morti (oltre duecento), ai feriti, taluni menomati a vita (seimilacinquecento), ai senzatetto (trecentomila), ai senza speranze (centinaia di migliaia), la politica interna aveva promesso di cambiare. Dopo due mesi dalla tragedia d’agosto non solo non cambia nulla, ma riappare il modello noto col presidente Aoun al suo posto e il neo ricandidato alla carica di primo ministro, Hariri junior, che si sorridono e parlano di “ultima occasione per il Paese”. La ricca occasione sarebbe l’accondiscendenza al piano Macron: un classico pacchetto d’aiuti in stile imperialista che chiede in cambio asservimento geopolitico. A uno Stato fragile e disorientato si continua a non permettere un proprio sviluppo, si suggerisce un percorso che utilizzi servizi esterni, magari privilegiando quelle multinazionali francesi attive nell’Africa mediterranea come Veolia, e si farà opzionare lo sfruttamento dei bacini gasiferi di competenza libanese alla sorella per tutte le stagioni Total. Ecco, la popolazione desiderosa di cambiamento resta avvinta alla sua dannazione. E come Hezbollah e Amal si sono opposti al prosieguo del premierato flebile e confuso di Adib, l’asse para francese del presidente della Repubblica ripesca il fantoccio dal nome celebre, pur accartocciato dal tempo, dagli scandali personali, dalle maraldeggiate subìte dai padrini e padroni sauditi e lo ripropone alla guida d’un esecutivo. Del resto il suo partito Corrente Futuro continua a esistere, come esistono gli altri gruppi e clan di potere. Si ricomincia precisamente da dove si era lasciato il Paese: davanti a un cumulo di macerie.  

venerdì 9 ottobre 2020

Afghanistan, eterni crimini sessuali

Riemergono con tutto il contorno di squallida violenza episodi del cosiddetto bacha bazi (gioco coi bambini), un’antica consuetudine che in Afghanistan, come in ampie fasce del Grande Medio Oriente, diventa una pedofilia istituzionalizzata, e di per sé una schiavitù sessuale. Purtroppo la pratica è tuttora presente, difesa e diffusa da uomini di potere, economico e istituzionale. Questi costringono bambini e adolescenti a indossare abiti femminili, li fanno danzare e, spesso fra gli scherni, abusano di loro. Nonostante negli ultimi tempi ci sia una legge che reprime tali comportamenti la diffusione è ampia. Il riferimento al bacha bazi è tornato alla cronaca per le conseguenze d’una violenza che ha messo in subbuglio un villaggio meridionale afghano, Karezak, provincia di Kandahar. Lì il tredicenne Naseebullah Barakzai discute con un coetaneo che, per prendere dei melograni da un albero di proprietà dei Barakzai aveva tranciato alcuni rami. I due s’azzuffano, Naseebullah spinge l’altro a terra. Dopo due giorni i genitori trovano il corpo senza vita di Naseebullah, il cadavere mostra segni di violenza fisica e sessuale. Sospettano del locale capo della polizia, Roozi Khan, già noto per aver ordinato e praticato crimini del genere. Così la famiglia della vittima, sostenuta da una folla di abitanti del villaggio, organizza una marcia sino al comando poliziesco nel capoluogo e addita il luogotenente Khan quale mandante del delitto. La madre e il fratello del ragazzo ucciso accusano un gruppo di agenti al servizio di Khan per rapimento, percosse e stupro, contro una versione poliziesca che afferma come il ragazzo sia caduto da un tetto. Ma un medico ospedaliero, esaminando il corpo di Naseebullah, denuncia ferite interne frutto di abuso sessuale. Nonostante a Doha si discuta d’una prossima pacificazione e riorganizzazione dell’Afghanistan, la realtà di molte province è contrassegnata da simili sopraffazioni, attuata da sedicenti tutori dell’ordine. La famiglia Barakzai ha inviato al presidente Ghani una richiesta di giustizia “in nome dell’Islam”. A nome delle istituzioni il governatore di Kandahar risponde che nessun rappresentante dello Stato si pone al di sopra della legge. Ma sia in casi simili, sia nell’utilizzo del bacha bazi da parte delle forze dell’ordine o di potenti privati si richiama la “tradizione” per minimizzare atroci violenze. La gente sa: chi può pagare o ha prossimità col potere riesce a evadere qualsiasi applicazione della legge. Lo ammettono con rammarico gli attivisti d’una Commissione per i diritti umani insediata a Kabul e lo confermano i tanti soggetti bloccati da paura e minacce. Circa un anno fa s’era verificato un ennesimo torbido episodio che coinvolgeva un gruppo “a difesa dei bambini” nell’area di Logar. Ben 165 scolari risultavano abusati da una ventina di adulti che avrebbero dovuto tutelare i bambini. Erano presidi, insegnanti, agenti di polizia, quattro di loro sono sotto processo. Egualmente nel mese di luglio alcuni militari delle Forze di sicurezza afghane sono stati incarcerati per percosse e stupro di adolescenti, l’episodio è accaduto in una caserma nella provincia settentrionale di Takhar. In varie circostanze commissioni investigative messe su dal governo di Kabul hanno costatato precise responsabilità che raramente producono condanne. Chissà se la sollevazione popolare di Karezak darà una scossa al machismo pedofilo che tuttora giustifica il "gioco coi bambini".

mercoledì 7 ottobre 2020

L’India nel sogno americano d’una Nato asiatica

Vista dalla Casa Bianca - non tanto quella infetta di Trump che deride la pandemia, ma quella dei think tank sempre attivi al di là di chi è e sarà l’inquilino - la crescente tensione sul confine himalaiano fra Cina e India rappresenta un’occasione ghiotta. Al tempo stesso produce un grande avversario per il proprio nemico ideologico, diventato ancor più ingombrante nemico economico. I rapporti fra New Delhi e Washington hanno più o meno vent’anni di diplomazia attiva, da quando Bill Clinton volò verso quei meridiani. Alla nascita l’India moderna si definiva socialista, durante la Guerra fredda Nerhu collocava il Paese nel blocco dei “non allineati” e la partnership scelta dai governi statunitensi sosteneva il Pakistan avverso agli indiani, mentre Mosca sorrideva a quest’ultimi. Le due nazioni asiatiche ricevettero dai loro padrini i materiali e le credenziali distruttive dell’arma atomica. E tuttora li conservano. Questo genere di ‘tesori’, al pari delle relazioni internazionali, sono tenuti in gran considerazione dal Pentagono che gestisce una buona fetta della politica estera americana. In tale prospettiva se la tensione fra i giganti asiatici si sposta dai mercati all’apparato della forza ecco che i generali della Virginia aguzzano occhi e menti per elaborare piani strategici. In questo caso si tratta di un riciclo, una formula usata più di una decina d’anni addietro, all’epoca di George W. Bush, che ipotizzava un arco di democrazia asiatica fra Giappone, India, Australia e Stati Uniti. Quest’ultimi non si trovano propriamente in quel grande continente ma per tanti aspetti intenderebbero controllarlo o piegarlo come facevano all’epoca delle bombe su Hiroshima. Un’idea di patto della sicurezza fra alcune potenze in opposizione alla Cina. In quella fase (2007) l’India rimase riluttante all’idea e al corteggiamento di Washington. Col premierato di Modi la situazione è diversa, per il suo approccio aggressivo interno e, dalla vicenda della regione di confine, anche internazionale. Perciò alla Casa Bianca pensano di battere su questo ferro caldo, l’idiosincrasia verso la Cina, che costantemente in varie epoche ha visto in prima fila il Giappone, può trovare un nuovo alleato nel primo ministro indiano e hindu.
Il suo nazionalismo radicale, la repressione delle autonomie locali, la discriminazione degli islamici vengono considerati segnali positivi per un’aggregazione nel ‘quadrilatero asiatico’ di fabbricazione statunitense. Se quest’accordo potesse sviluppare anche un’alleanza militare nell’area indo-pacifica si raggiungerebbe la quadratura del cerchio, così la pensano al Pentagono. Intanto il ministro degli esteri indiano Subrahmanyam Jaishankar ha incontrato a Tokio il Segretario di Stato Pompeo che sta girando il mondo per varie questioni. Precedentemente era passato per Roma, polemizzando a distanza col papa che non l’ha ricevuto. Anche più d’un politologo indiano crede che l’avvicinamento del governo di Delhi a quest’alleanza sia possibile dopo i contrasti nel Ladakh (la zona d’alta montagna contesa). E quando gli Usa affrontano temi geostrategici di conseguenza s’apre il campionario delle proprie forniture militari, nell’anno in corso l’India acquisterà armi per 20 miliardi di dollari, potrebbero non sembrare molti ma nel decennio precedente queste commesse non esistevano. A Washington e Arlington hanno benedetto la continuità politica che gli indiani stanno offrendo a Modi, quando di recente hanno stretto un accordo con l’amministrazione delle isole Maldive per una presenza militare Usa in funzione anticinese. Finora nessun governo e nessun partito indiano aveva accettato militari stranieri tanto vicini ai propri spazi vitali. Grandi associazioni a difesa dei diritti umani sollevano proteste contro l’ipocrisia del governo americano, giustamente pronto ad accusare la Cina di calpestare simili tutele mentre non si cura di comportamenti e leggi dell’amministrazione Modi, che pone repressione e intolleranza alla base del proprio programma. Queste ong potrebbero anche chiedere alle istituzioni d'America cosa accade da mesi sulle strade di quel Paese. 

martedì 6 ottobre 2020

Nagorno Karabakh, il giardino montuoso conteso

I venti di guerra tornati a soffiare su quel lembo di terra che è il Nagorno Karabakh, enclave armena in terra azera, mettendo l’una contro l’altra nazioni nate dalla polvere dell’Urss, sono alimentati da un irrisolto lungo quasi trent’anni. Ma le contraddizioni sono più antiche. Le vivono genti radicate da secoli in certi luoghi non esenti da passaggi truppe, imperi, persecuzioni, deportazioni, decisioni burocratiche e giri di valzer. Uno, clamoroso, fu fatto il 3 luglio 1921 dal Kavbiuro della neonata Unione Sovietica. Con lo scarto d’un voto (4-3) si decise che la regione del Karabakh - autoproclamatasi indipendente alla stregua del Nakhichevan e Zangezur (poi Syunik) - venisse assegnata alla Repubblica Sovietica dell’Armenia. Pareva logico: era in gran parte abitata da armeni. Ma dopo neppure quaranttott’ore: contr’ordine compagni! Il Kavbiuro rigirò la decisione e l’area passò alla Repubblica Sovietica Azera. La motivazione messa agli atti sosteneva una “necessità di armonia nazionale fra musulmani e armeni, con collegamento economico fra Karabakh superiore e inferiore e i suoi legami permanenti con l’Azerbaijan”. Commissario del popolo per le nazionalità era un giovane Josef Stalin ma, a detta di alcuni storici armeni, sulla decisione mise il suo carico Nariman Narimanov, presidente del Comitato rivoluzionario azero e molto considerato dai vertici bolscevichi. Eppure a brigare con lo sfaldamento di alcuni imperi, innanzitutto quello Ottomano, e pasticciare su terre e popolazioni c’erano anche altre potenze. Per il Caucaso soprattutto la Gran Bretagna, già responsabile insieme alla Francia del ridisegno del Medioriente sancito, nel 1916, dal patto Sykes-Picot. Certo, fino alla durata del potere sovietico tutto rimase congelato, anzi consistenti minoranze delle due etnìe erano presenti nell’altra Repubblica. Lo dimostra il numero dei profughi a conclusione del conflitto fra Armenia e Azerbaijan scoppiato nel gennaio 1992, dopo la proclamazione della Repubblica del Nagorno Karabakh, e durato fino al ‘94.
Una guerra su cui pesano trentamila vittime, in gran parte civili, ottantamila feriti, circa un milione di profughi quasi tutti lavoratori e loro familiari (quattrocentomila armeni residenti in Azerbaijan e mezzo milione di azeri presenti in Armenia, che rientrarono nelle rispettive nazioni o ripararono altrove). Offrendo altre cifre, ricordiamo che l’attuale popolazione armena ammonta a tre milioni, sebbene si conti una diaspora di otto milioni con un’elevata presenza negli Usa e in Francia. Gli azeri sfiorano i dieci milioni. Il Nagorno Karabakh conta centoquarantamila anime. La fase post bellica, gestita dalla Conferenza di Sicurezza e Cooperazione in Europa - al di là di tenere sotto controllo le contrapposizioni armate di frontiera, spesso con scarsi risultati viste le violazioni - non ottenne oltre. Del resto il territorio, che la stessa denominazione definisce montuoso e una più poetica 'giardino montuoso', è privo d’interesse strategico per quei padrini che, ai tempi del conflitto e maggiormente ora, s’interessano delle sorti dell’enclave. L’area è zeppa di contraddizioni. Fra l’Armenia e l’Iran è collocata la Repubblica autonoma di Naxçıvan, un’exclave azera in territorio armeno, dove vivono mezzo milione di persone. Se si volesse dare omogeneità etnica, quest’ultime dovrebbero collocarsi più a est nel Nagorno al posto di quegli abitanti che potrebbero sostituirli. Ma simili follìe, peraltro già provate dalla Storia con deportazioni e stragi, sono (o dovrebbero essere) fuori dal tempo. Mappe geografiche e confini  tracciati col righello hanno già caratterizzato epoche recenti, producendone guasti e instabilità. Gli attuali conflitti locali rappresentano una conseguenza di simili tendenze e tuttora costituiscono la modalità con cui potenze mondiali e regionali cercano d’imporre decisioni internazionali, noncuranti di etnìe e comunità. I due leader che osservano, dibattono e possono far pesare decisioni sulla nuova crepa nel Karabakh - Erdoğan a favore del presiedente azero Aliyev, Putin a vantaggio dell’omologo armeno Sarkissian - da tempo gestiscono la crisi mediorientale in Siria e Libia, passando per il Mediterraneo orientale.
Adesso potrebbero misurarsi per procura sul territorio caucasico. Ma quanto visto in questi anni sugli scenari delle citate nazioni diventate liquide, lì dove gli eserciti russo e turco si sono mossi, ha rappresentato un segnale più che scontri aperti. Un segno  autoreferenziale per le rispettive leadership. L’impatto militare di Mosca risulta pesante anche per Forze Armate determinate come quelle della mezzaluna anatolica, che è pur sempre il secondo esercito Nato del mondo. Eppure, nonostante le difficoltà economiche interne, l’industria bellica di Ankara ha mostrato l’efficacia di alcuni suoi ‘gioielli’: i droni dell’industriale di casa Selçuk Bayraktar, genero del presidente, che in Libia hanno umiliato i mercenari russi del Wagner Group, sino a decretarne il ritiro. Egualmente i prototipi della cantieristica militare - le fregate Gabya, la nuova tipologia T2000, l’unità d’assalto Anadolou - offrono “argomenti” di supporto al grido mediterraneo della “Patria blu”. Di fatto i nazionalismi che i due nemici diventati amici propongono possono pure fronteggiarsi nel mestiere delle armi, ma hanno trovato dialogo e convergenza d’intenti sul terreno geostrategico ed economico-finanziario. Quest’ultimo non esclude, anzi integra il precedente. Basti ricordare le batterie di missili antiaerei S-400, già consegnate fra il 2019 e l’anno in corso, che tanto hanno fatto fibrillare Pentagono e Casa Bianca perché squilibrano i protocolli interni Nato e le commesse statunitensi. Inoltre il piano turco di diventare un hub energetico fra i continenti europeo e asiatico, ha trovato con le pipeline Blue Stream e Turk Stream il sostegno interessato di Mosca. Erdoğan e Putin paiono troppo legati da reciproci interessi per incrinare il rapporto attorno all’incompiuta del Karabakh. In queste ore ciascuno s’erge a paladino d’una comunità contrapposta all’altra, ma entrambi lo fanno per ribadire il tono internazionale che si sono creati. Difficilmente i veri signori del Caucaso litigheranno per un ‘giardino montuoso’. L’incompiuta è destinata a trascinarsi nel tempo con lo scorno degli abitanti.