martedì 31 dicembre 2019

Hindutva, le radici dell’odio


E’ da quasi un secolo che l’hindutva, neologismo creato da Vinayak Damodar Savarkar, un bramino vissuto a cavallo fra Ottocento e Novecento, intossica la vita spirituale della religione hindu con ricadute socio-politiche per l’intera nazione indiana. Dal 1923, con la pubblicazione d’un testo che sviscera i suoi pensieri, Savarkar iniziò l’attacco all’ortodossia di quella fede esaltandone le tradizioni attraverso una personalissima interpretazione. Partiva da una realtà: l’introduzione in varie epoche nel territorio indiano di religioni e visioni della società provenienti dall’esterno. Lui accorpava tutto: l’espansione islamica e la campagna coloniale britannica che, a suo dire, avrebbero inquinato il millenario spirito hindu. L’hindutva serviva a ritrovarlo. Nel 1925 il bramino creò il partito Rastriya Swayam Sevak, dando una svolta iper nazionalistica alla sua ideologia. Poi non curante di quanto affermava riguardo al modello occidentale, imposto dall’imperialismo del Ray britannico, rimase abbagliato da altri modelli occidentali, primo fra tutti il militarismo dei movimenti fascista e nazista, presi come esempio per creare una propria struttura organizzativa della forza. Comunque Savarkar non si fermava all’apparato. Le sue idee pescavano nel torbidume del nazionalismo europeo, che partorì i due movimenti diventati regimi, temi come la razza, la fede, la terra, giustificandone le spinte estreme con gli stereotipi di patria ed eroi. Declinati in funzione razzista, xenofoba, machista, impregnati d’un superomismo nient’affatto filosofico ma volto ad attaccare una delle vere essenze dell’India: la diversità.

Diversità sicuramente di culti, che la medesima stirpe indiana ha incontrato nel suo tragitto storico incrociando buddismo, jainismo, cristianesimo, islamismo, parsismo, sikhismo tutti su quel territorio. Tutti nella moderna India che lottava per l’indipendenza e l’otteneva col contributo pacifista e pacificatore del Mahatma Gandhi. Ma l’hindutva nei decenni non ha fatto sconti a nessuno. Né all’hinduismo storico né al padre della nazione-continente, pur divisa con la nascita del Pakistan lo Stato creato per i musulmani da Ali Jinnah. Anche per questo Gandhi, accusato dall’RSS di aver cercato la riconciliazione con gli islamici, finì assassinato da un fanatico, nutrito con l’odio che le teorie di Savarkar continuavano a produrre e che l’attivista stesso divulgava come giornalista. Un rancore rivolto alle minoranze, soprattutto delle religioni del Libro, presenti in loco. Quando nel 1951 nacque il Bharatiya Jana Sangh, divenuto nel 1980 Bharatiya Janata Party, la tendenza a esasperare la contrapposizione coi musulmani crebbe ulteriormente. Nella scalata alla società il fondamentalismo hindu puntava su strumenti considerati vitali: controllo o condiscendenza dei media, rafforzamento del partito e meticoloso proselitismo in ogni strato sociale, anche fra poveri e diseredati oggettivamente avversati da chi si propone l’austera conservazione del sistema delle caste. Mentre il Rastriya Swayam Sevak aveva cercato d’infiltrare suoi membri nei gangli statali, il partito che ne seguiva le orme puntò a esasperare sia il conflitto religioso con le solite minoranze, sia i contrasti politici col Partito del Congresso. Una tattica che, scommettendo sulla polarizzazione violenta, ha nel tempo rafforzato il Bjp fino al grande balzo elettorale del 2014 in cui è diventato il primo raggruppamento indiano.

Varie voci, anche in campo teologico, sostengono che la linea dell’hindutva non sia mutata nel corso dei decenni. L’astio verso la fede islamica si basa in gran parte sulla sua omologazione a tendenze radicali, che ovviamente esistono, ma non rappresentano l’intera comunità e i suoi fini confessionali. L’equazione è: l’Islam va estirpato perché sanguinario e jihadista. Per farlo si sparge sangue musulmano così da spingere taluni appartenenti alla Umma su posizioni estreme, innescando reazioni e un processo a catena in cui si perdono le coordinate di chi abbia avviato la violenza. Quest’ultima si autoalimenta. Basta produrre nuovi pretesti che vanno dalla clamorosa distruzione di un’antica moschea nella città di Ayodhya, nell’India settentrionale, a cronache che parlano di condanne per vere o presunte uccisioni di vacche - che gli hindu considerano un animale sacro - in alcuni villaggi dove, per l’appunto, vivono cristiani o musulmani. La falsità e la manipolazione di notizie piccole e grandi s’è ampliata nell’ultimo decennio e l’arrivo di Narendra Modi alla carica di primo Ministro ha accentuato il fenomeno, visti i politici di cui si circonda collocati in dicasteri chiave, come il ministro dell’Interno Shah. La discussa norma sulla cittadinanza indiana, concessa a profughi di nazioni contigue che professano un altro credo, e che discrimina gli islamici, è farina del suo sacco. Una semenza avvelenata alla stregua dei discorsi al cianuro pronunciati da alcuni parlamentari della maggioranza che invitano le donne hindu a quadruplicare i parti per porre rimedio alla prolificità delle fedeli islamiche, e gli insulti sempre ai seguaci di Allah minacciando di trasformare le moschee in porcilaie.  
Eppure accanto alle volgarità, alle più aperte provocazioni che ribadiscono il clima rabbioso con cui i paramilitari della Rashtriya Swayam Sevak possono assassinare, peraltro sempre più impunemente, avversari o persone sgradite il governo tramite i ministeri dell’Istruzione e della Cultura punta a una “pulizia storica” e una riscrittura in chiave confessionale, ovviamente hindu, della società indiana. Se ne lamenta un mondo teologico vario, di certo il più discriminato, e purtroppo si registrano anche silenzi e imbarazzanti omissioni da parte di alcune componenti. Atteggiamenti incomprensibili, visto che in troppi casi i non hindu vengono attaccati e definiti “non persone” con evidenti ricadute sui diritti civili e umani. Una tendenza che dovrebbe interessare un’ampia platea geopolitica, spesso omertosa come in tante altre situazioni, perché succube a logiche finanziarie, affaristiche o semplicemente di andamento dell’import-export. L’India, fra le tante contraddizioni tuttora presenti, è diventata un gigante economico e il business internazionale guarda esclusivamente a quest’aspetto, disinteressandosi dell’involuzione dei costumi. Quest’ultima ripropone come “valore” l’arcaico sistema delle caste, la marginalizzazione della donna, oggetto del possesso maschile, incatenata al solo ruolo di moglie sottomessa e madre prolifica. Più l’esaltazione del maschio aggressivo, fanatico, sprezzante verso chiunque non s’identifichi col suo pensiero, col suo credo, con le sue azioni anche le più sciagurate. Una carta identitaria inquietante con cui un miliardo - avete compreso bene - un miliardo d’indiani devono fare i conti. 

prossimamente pubblicato sul mensile "Confronti" di febbraio 2020

lunedì 23 dicembre 2019

Cittadinanza indiana, la versione di Modi


Bugie e paura secondo il premier indiano Modi sarebbero diffuse dalla protesta contro la legge sulla cittadinanza che discrimina i fedeli musulmani provenienti dai Paesi vicini (Pakistan, Bangladesh, Afghanistan). Proteste represse dalle forze dell’ordine nei governatorati di New Delhi e Uttah Pradesh che hanno provocato 27 morti. Modi ha tenuto a ribadirlo davanti alla folla fedele all’hinduismo e al disegno ipernazionalista del Bharatiya Janata Party che si prepara alle elezioni dell’Assemblea legislativa del prossimo febbraio. Ha poi aggiunto che la nuova legge, rivolta a tutti gli indiani (un miliardo e trecento milioni) non avrà ricadute sulla componente musulmana interna (200 milioni di persone) per le quali non cambierà nulla. A suo dire non esistono pregiudizi di fede. Però le nuove norme discriminano gli islamici provenienti da nazioni vicine che si vedono negare la richiesta di residenza che, invece, viene concessa ad altre minoranze accolte. E’ su questa chiusura di persecuzione confessionale, e di fatto razzista, che sono montate le proteste fra gli studenti universitari, specie in alcune strutture dove si raccolgono i musulmani. Il capo dell’Esecutivo li sfida, sostenendo di mostrare al mondo se nel suo operato ci sia qualsivoglia ammiccamento divisivo fra la popolazione della nazione-continente.
L’accusa di Modi va oltre le stesse proteste studentesche. Addita il principale partito d’opposizione, quello del Congresso, di seminare la psicosi autoritaria ed esclusivista, a favore della maggioranza hindu, e tramare contro il governo. Questo comportamento non vedrebbe l’aspetto centrale della nuova norma, un passo definito dal premier “umanitario” per l’accoglienza riservata a profughi di altre religioni, in certi casi, perseguitati da Paesi islamici. La realtà mostra una politica, dentro e fuori i confini indiani, altamente speculativa. Il tema è caldo e ha visto crescere le manifestazioni, nate negli atenei ideologicizzati e trasferite per le strade della capitale, verso aree ad alta presenza musulmana. Le autorità ne sono preoccupate tanto che dopo le prime bastonature, hanno cercato d’isolare in ogni modo quella che sembra diventare una ribellione. Ne sono seguite dure azioni repressive. Da qui le vittime, gli arresti, l’oscuramento del web, la persecuzione anche andando a pescare i contestatori sui social media. Smentisce il vezzo attualmente pacificatorio di Modi, la scelta compiuta nel mese di agosto di revocare l’amministrazione speciale che la regione del Kashmir conservava da tempo. Poi a novembre la Corte federale approvava la proposta di costruire un tempio hindu su un sito dove il fanatismo oltranzista, di cui il gruppo Rashtriya Swayamsevak Sangh è la punta dell’iceberg, aveva distrutto una moschea. Nonostante le chiacchiere il fuoco confessionale avvampa.

giovedì 19 dicembre 2019

Khalalilzad e l’Afghanistan dei boss


Viaggia mister Khalilzad nell’eterna missione di “stabilizzare” l’Afghanistan. I suoi interlocutori taliban avevano appena rivendicato un attacco alla base di Bagram che lui è volato in Pakistan per sondare i vertici dell’inquieto Convitato di pietra degli affari che accadono sul suo confine occidentale.  Quindi s’è fermato a Kabul incontrando tre calibri che i turbanti snobbano: Ghani, Abdullah e l’ex presidente Karzai. Lui dice d’aver discusso coi tre un piano “per ridurre la violenza e pavimentare la via dei negoziati”, dichiarazione utile per l’immagine e le notizie di prammatica, non per la realtà. Comunque ha voluto incontrare egualmente questi simboli di ciò che poco conta per una vera pacificazione, elementi al più utili per la spartizione di affari e contrasti interni. Ne è stato un esempio in questi giorni l’operazione condotta contro un boss legato al potere ufficiale: il capo della polizia di Faryab, Nizzamuddin Qaisari, ex uomo del vicepresidente Abdul Rashid Dostum. Qaisari è stato arrestato a Mazar-e Sharif assieme a 150 uomini, subendo un’azione spettacolare contro la propria abitazione-fortezza, una sorta d’assedio durato venti ore che ha visto l’uso di reparti speciali dell’esercito forniti di elicotteri. Gli studenti coranici sicuramente avranno sorriso davanti a queste lotte intestine, testimonianza delle spaccature dei clan preposti al futuro democratico del Paese.
Una breve biografia di Qaisari fa comprendere meglio lo scenario. Parte come agricoltore e nella provincia di Faryab acquisisce potere ponendo i suoi servigi a uno dei veterani del sopruso verso la gente, il signore della guerra Dostum. Quest’ultimo negli anni è diventato un uomo di governo, addirittura vicepresidente, da quando nel 2014 la diarchia Ghani-Abdullah venne insediata al vertice dalla nazione dal Segretario di Stato americano John Kerry. Qaisari, sostituendo il suo boss nel distretto di Faryab, diventa addirittura capo della polizia, così riesce a coprire le malefatte criminali proprie e quelle attuate per conto del vicepresidente. Le più comuni: impossessarsi di fasce di territorio non solo con un controllo armato del medesimo, operato con milizie ufficiali (di polizia) e ufficiose (paramilitari al suo personale servizio), ma requisendolo ai legittimi proprietari assieme alle attività svolte in loco. Nello scorso settembre, in piena campagna per le presidenziali - che nelle intenzioni del regista Ghani avrebbero dovuto riproporre il sistema collaudato da sei anni, con tanto di spartizione di potere fra lui Abdullah e Dostum - s’è verificato un cambio di rotta di Qaisari. Che voltava le spalle al suo signore appoggiando la candidatura di Rahmatullah Nabil.
Da qui la sua caduta agli inferi con l’arresto dei giorni scorsi, un’azione politica punitiva provocata dal suo voltafaccia, dicono esplicitamente commentatori ma anche membri del Junbish-e Milli, il partito su  cui regna Dostum. Quindi, prima di ritornare a Doha a incrociare sguardi e discorsi coi rappresentanti dei turbanti, il rappresentante statunitense per la scottantissima questione afghana ha raccolto gli umori degli ingombranti vicini e pure degli esclusi: gli afghani dei governi, ormai sicuramente passati. Francamente non saranno costoro a “bloccare le violenze” come auspicano, tutto dipende dai talebani ora carezzati soprattutto dal Pentagono con lo scopo di firmare un accordo. Sarà proprio questa firma e fermare gli attentati, promette il portavoce talebano, ma le condizioni restano quelle già esplicitate da mesi: i turbanti non vogliono spartire dialoghi né tantomeno potere coi boss afghani mascherati da politici. E qui il black out resta. Nell’annuncio talib un’altra staffilata è rivolta alla Casa Bianca, incerta sul da farsi, che tiene i piedi nelle staffe dell’apertura all’ex nemico e nel plateale gesto (a settembre, dopo la morte d’un militare statunitense durante un attacco) di blocco delle trattative. Con l’aggiunta di bombardamenti indiscriminati, com’è accaduto di recente in alcune aree. Fra ‘stop and go’ la partita prosegue. E le vendette interne pure.  

lunedì 16 dicembre 2019

Vola l’India antislamica


Sale, giorno dopo giorno e si è giunti al quinto, la protesta contro la legge che impedisce a cittadini stranieri islamici di ottenere la cittadinanza indiana. Ieri ci sono stati sei morti nella provincia federale di Assam e cento arresti presso le università degli Stati di Delhi e Uttar Pradesh. Il Parlamento di New Delhi dallo scorso 12 dicembre, emendando una legge in vigore dal 1955 e introducendo una nuova norma presentata dal partito di maggioranza (Bharatiya Janata Party), conferisce la cittadinanza alle minoranze religiose (hindu, sikh, buddista, jain, parsi, cristiana) provenienti dagli attigui Paesi del Pakistan, Afghanistan e Bangladesh, ma non ai musulmani. In realtà un primo emendamento alla legge di metà Novecento si era avuto nel 2016 e non poneva limiti alla cittadinanza su base religiosa. Faceva riferimento a sei anni di residenza ufficiale in India, contro i dodici richiesti negli anni Cinquanta. Poi, di recente, la chiusura ai musulmani. Ieri negli atenei Jamia Millia Islamia e Aligarh Muslim University gli studenti che contestavano la discriminatoria scelta governativa sono stati duramente bastonati, con loro hanno subìto violenze anche colleghi impegnati nei corsi e chi studiava in biblioteca. Un’incursione che le autorità accademiche hanno stigmatizzato, mentre il ministero dell’Interno sosteneva servisse alla sicurezza. Ne è nato il caos: i giovani si sono scontrati con le forze dell’ordine, ricevendo nell’area a sud di Delhi anche il sostegno d’una parte della popolazione. L’India conta una cospicua minoranza islamica, circa 200 milioni di fedeli, di cui un quarto d’osservanza sciita, concentrati in alcuni Stati federati (Jammu e Kashmir, Uttar Pradesh, Bengala occidentale ne raccolgono una copiosa parte).

Sono soprattutto costoro a dar vita alle proteste, accusando governo, partito di maggioranza e lo stesso premier Modi di polarizzare la situazione socio-politica facendo montare l’ideologia razzista e anti islamica della maggioranza hindu. Già negli ultimi mesi l’antico raggruppamento ultranazionalista ispirato a un fondamentalismo religioso, Rashtriya Swayamsevak Sangh, rinfocolava l’odio anti islamico senza che Istituzioni e polizia prendessero alcun provvedimento. Anzi. Secondo diversi osservatori una costante della linea del Bjp durante il secondo mandato per Modi è scavare un solco profondo verso la comunità musulmana, discriminandola e perseguitandola. La legge in questione segue tale tendenza. Modi anziché smorzare i toni, non perde occasione pubblica per additare il Partito del Congresso e chiunque s’oppone alla maggioranza di fomentare violenza. Da quest’estate, poi, si susseguono iniziative anti immigrazione sostenute dal ministro dell’Interno Shah, braccio destro del primo ministro. Note le sue catalogazioni dei bangladeshi coi nomignoli di ‘infiltrati’ e ‘termiti’ da estirpare per le sempiterne “ragioni di sicurezza”. Per non parlare dell’ostacolo posto da più di un anno all’arrivo di rifugiati Rohingya, già colpiti da sopraffazione etnica in Myanmar. Insomma, la leadership governativa fa di tutto per accentuare l’opposizione ai musulmani interni ed esterni. La vessazione introdotta dalla nuova norma è in aperto conflitto con l’articolo 14 della Costituzione indiana che garantisce il diritto di eguaglianza. Eppure il coro dei costituzionalisti indiani e internazionali, che parlano apertamente di violazione e ostilità, non trova udienza né nel governo né nel Parlamento. Così il conflitto interno è destinato ad allargarsi, un’eventualità che piace al fanatismo hindu.

venerdì 13 dicembre 2019

Turchia, scende in campo il Gran Visir


In politica, molto più che nella vita, gli ex sodali possono diventare i più acerrimi nemici. Erdoğan lo sa da tempo. Il sistema gülenista, con cui aveva condiviso fortune e ‘infiltrazioni’ nella Turchia kemalista, col tempo s’è trasformato in avversario duro, durissimo, tanto da essere accusato del tentato golpe del luglio 2016 e represso per ogni sorta di nefandezza verso madrepatria. Da ieri un altro antagonista si para davanti al sistema erdoğaniano. E’ la mente sopraffina di tanti progetti comuni, quella del professor Ahmet Davutoğlu, già ministro degli Esteri e premier, nonché teorizzatore di quel potere neo Ottomano che l’ex amico presidente ha interpretato a senso unico: calzando il turbante del Sultano. Davutoğlu sceglie venerdì, il giorno sacro dell’Islam, per annunciare la creazione d’un nuovo partito, lo denomina Futuro (Gelecek Partisi) e nella sibillina presentazione lo colloca nel bisogno nazionale di democrazia, diritti e libertà. Come a far intendere che l’odierna Turchia è orfana di tali virtù. L’affermazione: “L’attuale sistema ha condotto a una grave inefficacia e un problema di fiducia, accanto a un forte calo del livello democratico” se non è una sentenza definitiva, rappresenta una staffilata all’amico del passato.

Al quale contrappone un programma basato sul “liberalismo che rispetta la tradizione, la diversità e il pluralismo, la democrazia parlamentare, la libertà di stampa, il libero mercato, il secolarismo e il pluralismo religioso” finalità un tempo professate dal partito che ha abbandonato. Insomma, lui irrompe sulla scena, proponendo una sorta di rifondazione dei princìpi dell’Akp che fu. Quando pure l’allora presidente Gül, anch’egli transfuga dal partito di maggioranza, era nel nucleo originario. Un gruppo che l’egocentrismo del Sultano ha sfaldato, circondandosi poi di soli adulatori e affaristi. Ora il teorico del tranquillizzante “Zero problema coi vicini”, che stride con la politica voluta da Erdoğan e che comunque lo stesso ex ministro degli Esteri aveva accettato - per fedeltà all’Akp oggi dice -comunica che fra i fondatori del nuovo raggruppamento ci sono islamisti e armeni e aleviti, greci,  assiri, con un 30% (basso, ma non troppo) di presenza femminile nei ranghi di partito. Quindi parlando non di politica, ma di linguaggio ha anche fatto cenno alla compresenza accanto al turco del kurdo. Bisognerà vedere se ci sarà un passo verso le rappresentanze politiche, come il Partito Democratico dei Popoli, da tre anni sotto attacco della repressione di Stato.

Lo scontro diretto fra i due ex, svoltosi pubblicamente e violentemente attorno alla questione dell’università Şehir (cfr. articolo) deve aver segnato una frattura irreparabile. Rumors apparsi sulla stampa turca riferiscono che pochi giorni fa una delegazione dell’Akp abbia avvicinato Davutoğlu per sondarne le intenzioni definitive, ma questi si sia rifiutato di riceverla. Evidentemente la comparsa del neo gruppo preoccupa il Partito della Giustizia e dello Sviluppo, che nelle ultime amministrative ha perso il controllo di tutte le maggiori municipalità. Nella polarizzazione del voto, che ha visto i repubblicani risalire la china, ma che trova l’alleanza fra l’Akp e il Mhp ancora salda nel consenso nazionale, i sondaggisti sono in fibrillazione e provano a capire quale potrebbe essere il seguito del Partito Futuro. Si parla d’un 10-11%, che non è molto, ma che potrebbe alimentare coalizioni anti-Erdoğan. Eppure c’è chi non dà credito alla discesa in campo di Davutoğlu. In Turchia i rilanci successivi a conflitti interni non premiano gli scissionisti. E’ accaduto nel 2016 nel duello fra Bahçeli e la Aksener, che fondò l’Iyi Party ma non privò il i nazionalisti dei consensi ottenuti col patto con l’Akp. Un nodo da sciogliere sarà proprio la politica estera, il terreno su cui il presidente ha rilanciato il sogno di potenza fra tradizione e patriottismo.

L’Algeria del passato elegge Tebboune


Nella sordità dell’establishment algerino verso la protesta di strada inscenata anche davanti ai seggi, comunque iper protetti dalla polizia, i ‘manovratori elettorali’ conservano la coerenza di premiare un anziano uomo della vecchia guardia statale: Abdelmadjid Tebboune, setttantaquattrenne, già premier, seppur per pochi mesi nel 2017. I dati diffusi gli attribuiscono un 58% di consensi che lo fanno presidente al primo turno. Mette in fila Bengrina, beneficiario d’un 17.38% e Benflis col 10.55%. Per la cronaca Mihoubi è quarto (7.2%), Belaid ultimo con 6.6%. Il vuoto di potere, di fronte alla contestazione che continua a denunciare elezioni pilotate, sarebbe stato uno spettro con cui fare i conti. Però la testardaggine della casta militare, nascosta dietro il presunto simulacro di democrazia, può trasformare la disapprovazione popolare in aperta rabbia. Le autorità statali hanno diffuso una percentuale di votanti pari al 40%, minoritaria ma non troppo. La gente, che comprende le mosse truffaldine anche degli organi d’informazione, già stamane era scesa in strada, a dimostrare la sua contrarietà alla presunta svolta di chi non vuole ascoltare. La marea algerina contesta. Continua a contestare, sostenendo che quest’elezione truccata non può celare la continuità e la contiguità col vecchio regime che piace ai militari. Nella capitale l’agenzia Afp ha raccolto notizie di azioni dimostrative fin dentro i seggi, col blocco in qualche caso delle votazioni prima che gli agenti ristabilissero l’ordine, usando al massimo i manganelli. Più violento il boicottaggio operato in zone periferiche (viene citata la regione di Kabilia), dove l’etnìa berbera ha per tradizione il dente avvelenato contro il governo centrale. Lì dove taluni seggi sono stati attaccati da dimostranti contrari alla consultazione, le forze dell’ordine li hanno dispersi con gas lacrimogeni. Qualche analista già scuote la testa e commenta che la tendenza a far finta di nulla, espressa dall’apparato politico ufficiale, non normalizza il Paese e neppure quest’elezione riuscirà a farlo. Il vento dell’Hirak (il movimento di pretesta) proseguirà e diventerà più impetuoso.

giovedì 12 dicembre 2019

Non è ancora finita - Intervista a Malalai Joya

Malalai, del tuo prorompente intervento nella Loya Jirga del 2003 cosa resta nella politica afghana e cosa resta in te?

Credevo - credevamo - di portare certi assassini davanti alla Corte di Giustizia, purtroppo questi elementi son riusciti a prendere ancora maggior potere. Un antico proverbio afghano parla di lupi che si vestono da capre. S’attaglia benissimo alla classe politica che da decenni decide la sorte del Paese e della sua gente.

Le donne, le attiviste, le giovani Malalai oggi come si sentono?

Per fortuna non mancano. Mancano i mezzi, gli appoggi interni e internazionali. I problemi sono tanti, innanzitutto il livello di sicurezza, quindi il sostegno economico. Negli ultimi tempi è apparso anche un attivismo legato ai social media che spesso cade nella trappola dell’individualismo e dell’autoreferenzialità. Costoro, prevalentemente giovani, risentono delle mode, diventano influencer nel senso deteriore del termine, poiché più che svegliare coscienze le sostituiscono e pensano solo alla propria posizione nella società. Viaggiano fra la celebrazione di sé e il piccolo potere da raggiungere. Sono persone che finiscono facilmente a servire il grande potere.

In altre situazioni pur devastate del Medio Oriente la gente si ribella, perché da voi non accade?

Prima delle Primavere arabe, abbiamo avuto anche noi cortei e manifestazioni. E’ finita in massacri. La popolazione, già segnata dai lutti della guerra civile degli anni Novanta, è immediatamente riparata nella nicchia privata. Una nicchia, purtroppo, disperata. La tendenza vista negli ultimi anni è una minore attenzione alla vita politica, ogni famiglia cerca di sopravvivere in un contesto che s’è fatto terribile. La maggioranza delle persone è povera, l’educazione e l’istruzione sono concetti irraggiungibili, perciò non s’interessano di attivismo. Quest’ultimo può rinfocolarsi solo grazie a una maggiore cultura che insegna a uscire da orizzonti minimi e soggettivi, a essere ottimisti, ad agire collettivamente. 

E in un orizzonte bloccato quant’è la speranza e quanta la rassegnazione?

Tenere accesa la speranza è difficile, trasformarla in realtà è complesso. Non abbiamo solo un problema, siamo invasi da cento, mille problemi. Con le superpotenze che ci opprimono, con la politica interna, coi vicini concorrenti, con quelli che puntano all’ingerenza nella vita afghana, con la classe media che serve il potere. I nostri intellettuali cercano padroni, lavorano esclusivamente per loro. Eppure vedo barlumi di speranza. Recentemente ho conosciuto un uomo che quotidianamente, dal villaggio dove vive nelle strade impervie della provincia dove girano anche talebani, s’accolla il rischio di portare con la sua motocicletta le due figlie a studiare in città. Si augura che le ragazze possano diventare medico, così da aiutare anche la sua comunità che è priva di quest’indispensabile figura professionale. Un anno fa è diventata virale sui social l’immagine d’una donna che svolgeva l’esame d’ingresso all’università mentre allattava il proprio neonato. Egualmente aveva lasciato il segno l’attacco terroristico compiuto contro un centro di Kabul che preparava gli studenti per le prove d’ingresso all’università. L’attentato fece secondo il governo cinquanta vittime, noi pensiamo siano state molte di più. Ma ciò che mi apre il cuore è che quel centro, chiuso per alcuni mesi, ha riavviato i corsi ed è pieno di studenti che non si mostrano intimoriti. Questo è l’Afghanistan che resiste allo Stato della paura.

Invece la fuga dei giovani afghani in Occidente è una resa o l’unica salvezza?

Ultimamente il numero dei migranti è cresciuto per la nota mancanza di sicurezza e l’evidente fallimento del modello imposto con l’occupazione militare Nato. In genere si tratta di ragazzi, mediamente istruiti che cercano un domani altrove. Chi non riesce a fuggire e non sa darsi una ragione del nostro nero orizzonte arriva a togliersi la vita: i suicidi sono in aumento, come lo è il consumo di oppiacei, introdotti dai grandi trafficanti anche nel mercato interno a prezzi stracciati. Un fenomeno rivolto non all’economia, ma all’ideologia: un’ideologia della distruzione che va di pari passo con quella del terrore.

E’ una fuga tutta al maschile…

In genere è così. Pesano le tradizioni, la società patriarcale, il pashtunwali.

Nel maschilismo della società afghana quanto incide l’aspetto religioso e quanto altro?

Religione e cultura contribuiscono a conservare quest’idea di società chiusa e arretrata. Però esistono tanti interessi di chi lavora per il potere, dall’intellighenzia della geopolitica internazionale, a quegli intellettuali afghani di cui parlavo che per sopravvivere in casa propria hanno scelto di servire il fondamentalismo oppure il falso modello occidentale che, come abbiamo visto con le amministrazioni di Kharzai e Ghani, preserva  l’estremismo antifemminile. La Storia si ripete. L’Afghanistan del 1920 ebbe in Amanullah un sovrano riformista e illuminato, la Gran Bretagna spinse sui sentimenti più tradizionalisti e retrivi del tribalismo locale per emarginarlo e chiudere quelle aperture. Quella divisione fra progressisti e reazionari (non importa se laici o clericali) s’è protratta nel tempo, dura da un secolo. E chi oggi interviene dall’esterno nel nostro Paese percorre la medesima strada. C’è stata, da parte di taluni pseudo intellettuali, una manipolazione del concetto di secolarismo. L’hanno contrapposto allo spirito religioso in cui molta gente si riconosce, così da dipingerlo come una sorta di blasfemìa e proseguire il controllo sulla mente e l’operato della popolazione, maschile e femminile.

Nei movimenti progressisti afghani che frequenti le donne hanno un ruolo d’avanguardia, con gli attivisti uomini c’è parità di genere?

Abbiamo avuto tanti esempi nel nostro movimento, non solo la fondatrice di Rawa Meena Keshwar Kamal che aveva uno splendido rapporto col compagno e marito. Il mio stesso nome riprende quello d’una figura mitica della resistenza afghana all’invasione inglese, poi penso alle compagne con cui sono cresciuta e a coloro che proseguono questa lotta. Un impegno realizzato al fianco di uomini, nella vita privata e pubblica. Certo, con tutte le difficoltà dell’esistenza in un ambiente dove l’integralismo politico è pressante e aggressivo.

Alcune realtà mediorientali, penso ai kurdi, ritengono vitale questo tema per perseguire trasformazioni politiche e sociali

Sì, è la strada giusta, perché la Rivoluzione con la maiuscola ha bisogno di idee e fatti concreti. Nella società afghana il paternalismo produce la subordinazione femminile all’uomo ed è il frutto del tradizionalismo patriarcale. Ciò che noi indichiamo e mostriamo è una trasformazione dei comportamenti e dei costumi; nelle nostre strutture, nella nostra vita lo teorizziamo e lo applichiamo. Personalmente riesco a vivere, e come me tante attiviste afghane vivono, grazie al contributo dei compagni che ci affiancano nei ruoli più vari. C’è una sola ombra che non nascondo. Ultimamente nel reclutamento di nuovi militanti vedo un aspetto un po’ preoccupante: parecchi giovani uomini ripiegano nel soggettivismo, sfilandosi dall’impegno e rifugiandosi nell’individualismo che è l’anticamera della subalternità. 

Pubblicato su Q code Magazine

Attacco al Rojava. Fine di un'utopia?


Nei sette anni vissuti coraggiosamente l’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord-est, più conosciuta come Rojava che in lingua kurda vuol dire “l’Occidente”, ha inseguito sogni e bruciato tappe, ha perduto vite in luminose spianate e fra le macerie di case sbriciolate dalle granate e guadagnato sostegno che non è necessariamente futuro. Anzi. Colpa di ciò che è accaduto con l’ultima invasione turca beffardamente denominata “Fonte di pace”, e soprattutto con la stretta di mano fra Putin ed Erdoğan.  Il signore del Cremlino nella veste di “protettore” del vicino Medio Oriente ha sdoganato la deportazione di massa della gente kurda dal confine turco, così il confederalismo democratico profumato di ecologia, laicità, femminismo segna uno stop, perlomeno nella veste realizzativa conosciuta nelle difficili fasi di conflitti locali. E’ stata proprio la guerra civile siriana, cui i combattenti delle ‘Unità di difesa del popolo e delle donne’ (Ypg e Ypj) hanno offerto l’attivo contributo per liberare decine e decine di chilometri dalle bandiere nere e dall’oscurantismo dell’Isis, a concimare il fiore del Rojava. Non che gli ideali dei kurdi di Siria fossero bellicisti, però le avanguardie di questa gente pongono parimenti l’organizzazione socio-politica e quella militare, e si son trovati a difendere armi in pugno una terra dove la Storia li ha collocati da un millennio, seppure altre etnìe son vissute in quei luoghi e si son viste allontanate dalle autorità di turno, soprattutto in epoca moderna.

Il sogno del Rojava prendeva corpo nel 2012. Una crescita rapida e radicale pur vissuta nella polvere, nella precarietà, nei rischi della fase iniziale del conflitto civile siriano, diventato gradualmente guerra aperta ad attori esterni. Nei cantoni di Efrin, Kobanê, Cizïrê vivevano fino alla metà dell’ottobre scorso due milioni di kurdi che a guerra aperta son rimasti lì, perché muoversi significava rischiare più di quanto gli prospettavano l’indisponibilità dell’esercito lealista di Asad che, come altri considera costoro ladri di terra. E’ il contrappasso dei kurdi, che pure in certe fasi storiche sono stati irretiti e usati per combattere e scacciare altre etnìe, per poi finire essi stessi vittime. L’inseguimento di speranze e illusioni, oltre ai raggiri predisposti dalle potenze che nel primo dopoguerra ridisegnavano il Mashreq, passarono per il Trattato di Sevrès del 1920 e s’infransero su quello di Losanna di tre anni dopo. Così fra i vasi di coccio che le nazionalità armena e kurda rappresentavano rispetto a quelli di ferro di etnìe maggiormente protette, quella kurda finì penalizzata. Visse la propria diaspora, finendo fra ex imperi (Persie e Turchia) ridimensionati dal tempo e dalle nuove potenze e Stati nascenti (Siria e Iraq) dove la perfidia imperiale britannica voleva proseguire i suoi giochi se non amministrativi sicuramente economici.

La diaspora predisposta dai potentati del nuovo assetto mondiale, che aveva diviso in gruppi più o meno numerosi la popolazione kurda, fu sigillata dall’ideologia di punta dominante fra Ottocento e Novecento: il nazionalismo. Che, comunque, creava figli e figliastri, secondo interessi tangibili e anche retaggi culturali. Da quest’ultimi “il popolo delle montagne”, come venivano definiti i kurdi da chi oltre alla lingua voleva cancellarne anche le radici, furono sempre tenuti a distanza, ritrovandosi isolati oltre che dominati. A poco servivano le periodiche rivolte: a inizio degli anni Venti e a metà dei Trenta sempre nella regione di Dersim, sempre represse nel sangue anche utilizzando altre minoranze come i circassi, uno dei bracci armati della Turchia kemalista. E le depravate scorrerie registrate non solo nelle fasi della recente guerra siriana ma in repressioni comunque del Terzo Millennio, avevano precedenti banditeschi con gente murata viva per non essersi arresa. Comunque l’accanimento anti-kurdo che il factotum dell’Islam politico di Turchia - partito attivista, diventato sindaco di Istanbul, quindi leader anche incarcerato, poi segretario e premier e presidente che propugna e realizza un presidenzialismo da culto della persona, pur avendo praticato un approccio col realismo della Road Map del capo kurdo Öcalan - è una riproposizione di quanto il nazionalismo kemalista più bieco ha compiuto negli anni Ottanta. L’epoca dell’ultima ondata militarista che cercava di sradicare i kurdi con ogni mezzo. Una pratica fallimentare.

Però eguale disamore, se non proprio odio, i kurdi d’oltreconfine in Siria, l’hanno raccolto da altre sponde. Sebbene, nella fase di formazione della moderna Siria sotto il protettorato francese, clan kurdi di proprietari terrieri e contadini meno abbienti vivessero in alcune aree e condividessero coi beduini arabi luoghi, tragitti e transumanze commerciali. Alcuni ufficiali kurdi risultavano fra i protagonisti politici dell’indipendenza del Paese e Shukri al-Qwwatlï venne eletto per due mandati presidente della Repubblica. Eppure un certo nazionalismo arabo lavorava per una loro marginalizzazione dal sistema, nel 1962 una legge tolse la cittadinanza a oltre centomila kurdi, egualmente si comportava la dirigenza del partito Ba’ath che prese il potere con un colpo di Stato.  L’ennesimo golpismo dell’ufficiale Hafiz Asad, diventato presidente nel 1970, compiva verso la comunità kurda giri di valzer per utilizzarli a proprio favore, sfruttandone le doti militari e assimilandoli in corpi speciali assieme ai vari clan alawiti. Fu un passo che costituì una tregua solo parziale verso la collettività. Perché negli anni Novanta molti kurdi pativano privazioni del diritto di voto, di diritti sociali e sanitari, fino all’impossibilità di rinnovare carte d’identità e passaporti, così da diventare cittadini di serie B, incapaci a votare e accedere a lavori pubblici. Nel 2010 questi ‘apolidi’ erano calcolati in oltre trecentomila. E’ la politica della ‘carota e del bastone’ che l’attuale presidente siriano Bashir ha appreso dal padre e che lo conduceva a inizio mandato a incontrare i capi della comunità riempiendoli di promesse, mentre faceva infiltrare da agenti Shabiha i loro già frazionati partiti (Democratico, Democratico Progressista, Unione popolare, Kurdo di sinistra) per poterli controllare.

Per questo motivo una frangia orientata su posizioni di difesa dell’identità per la ricerca d’un futuro da vivere nel presente ha dato vita al Partito dell’Unione Democratica, propulsore della vicinanza ideale col confederalismo democratico prospettato da Abdullah Öcalan. Era l’avvìo del progetto Rojava che, nato con l’autogestione nel cantone di Kobanê, si allargava a una vasta area successivamente oggetto dei tentativi di espansione dello Stato Islamico. Nel frattempo l’esercito siriano, impegnato a difendere i territori attorno alla capitale, concentrava le forze nelle aree centro-occidentali disinteressandosi del controllo sui tre cantoni difesi militarmente (seppure con armi leggere) dalle milizie kurde. Queste, nel corso del conflitto svolto in prima linea contro i jihadisti dell’Isis, sono state sostenute dal materiale bellico procurato dagli Stati Uniti. Quando nel marzo 2016 la conferenza del “Movimento per una società democratica” annunciava la nascita della Federazione del Rojava-Siria del nord, il presidente Bashar manifestò il suo aperto dissenso, sostenendo che l’esercito di Siria avrebbe ripreso il controllo anche di quel lembo di terra che appartiene al governo di Damasco. Cosa turbasse il dittatorello del clan Asad è presto detto: il progetto rivoluzionario del Rojava che offre alla gente alternative al paternalismo autoritario che offusca e opprime il Medio Oriente da sessant’anni. Uno dei motivi della rivolta del marzo 2011 e tema dominante delle ‘primavere arabe’.

Dunque: i kurdi, fra i gruppi che si sono scontrati sul terreno siriano erano fra i più rodati militarmente e indirizzati politicamente verso un piano che i suoi teorici definiscono “Primavera dei popoli”. A partire dalla metà di luglio 2012 hanno attuato la conquista armata dei territori dove vive la propria gente, accanto a Kobanê ci sono Amude, Derik, Tiltemïr e diverse altre cittadine rese tutte autonome, ma le forze delle Ypg e Ypj hanno preso il controllo anche dei quartieri kurdi di Aleppo e  Raqqa, dove agivano gruppi armati jihadisti e in seguito i miliziani neri. La maggiore forza politica kurda, il Pyd, ha rappresentato un polo aggregatore per altre frange politiche che hanno costituito l’Assemblea nazionale dei kurdi di Siria (Enks) e con questo passo la rappresentanza della comunità è entrata in rapporto con la diplomazia internazionale, comprese le potenze che osservano, troppo a lungo passivamente, lo sviluppo d’un conflitto diventato guerra sporca ed eccidio di massa. Evitando una peraltro impossibile cronistoria, estranea allo spirito di queste righe, ricordiamo gli elementi costruttivi e innovativi del progetto kurdo di cui la stampa mainstream ha divulgato prettamente note sulle forze di difesa. Accanto a esse è stato creato anche un corpo di polizia per vigilare sulla sicurezza degli abitanti in luoghi sottoposti allo stress del conflitto dov’è possibile riscontrare anche reati comuni.

Ma quel che brilla nell’utopia che, mese dopo mese, per sette anni ha preso corpo è la pratica della democrazia diretta tramite le assemblee popolari e i comitati chiamati anch’essi del popolo volti a risolvere questioni sociali, giudiziarie oltreché economiche. Certo con la mente e i corpi impegnati nell’autodifesa e a evitare l’embargo economico imposto dal minaccioso confinante turco. Ma anche i micro progetti rivolti alle cooperative in alcune città (fra esse Efrin e Kobanê) sono stati dei micro gioielli sparsi nella polvere, linfa vitale d’un sogno non basato solo su promesse e sentimento bensì su cose tangibili per continuare a costruire quel percorso. Fra le gemme con cui le avanguardie politiche del Pyd puntano alla trasformazione umana e sociale della comunità si pone, come elemento centrale, la questione femminile. Incentrata non solo sulla parità di genere, che nel Rojava ha fatto sorgere reparti armati tutti al femminile, ma nella trasformazione dei rapporti fra sessi nel privato e nel pubblico, nei clan familiari e nelle Istituzione che pure esistono con tanto di ministeri. Una rieducazione del mondo maschile affinché archivi machismo e patriarcato e ricerchi, assieme alle donne, una nuova essenza di sé e del vivere comune. Quella rivoluzione a tutto tondo che per decenni il progressismo mondiale ha provato a impostare con risultati scarsi se non proprio fallimentari.


A sostegno di questa trasformazione radicale che deve compiere un lungo percorso e sedimentare, il rapporto educativo con le nuove generazioni, partendo dall’infanzia, costituisce nel progetto del Rojava un elemento basilare e imprescindibile. Oltre a rilanciare lo studio della lingua, dell’arte e della cultura dell’etnìa, che per decenni e nelle situazioni politiche più diverse (dal mondo post ottomano e coloniale alla repubblica sedicente socialista del Ba’ath) erano state vietate e represse. Così i centri d’arte di Derik, Amude, Aleppo, e ancora Efrin e Kobanê sono stati nei sette anni della paura e della violenza un’àncora di orgoglio per un futuro dalle prospettive diverse. In questo mondo nuovo dove l’energia elettrica c’era e non c’era, e spesso con essa generi di esistenza primari, non generi superflui ma addirittura l’acqua, la spinta al miglioramento e l’affermazione della normalità hanno creato anche un servizio di organi mediatici: una tivù e una radio che trasmettono in quattro città, oltre a giornali per la diffusione di un’informazione alternativa ai canali ufficiali dei regimi turco e siriano. Tutto questo ben di Dio è messo in discussione dal patto sancito a Sochi da Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdoğan il 22 ottobre scorso e accettato da tutti, compresi obtorto collo i non consultati rappresentanti kurdi. Prevede la creazione d’una ‘zona cuscinetto’ della profondità di 30 km e per 120 di lunghezza, da Tal Abyad a Ras al Ain, ingombra di autoblindo con la mezzaluna e di pattuglie russe che pattugliano il territorio da sette anni a giurisdizione kurda. E mette fine, per ora, a quell’esperienza.

Ancora più inquietante è ciò che il laboratorio costituzionale per la Siria, che ha iniziato a riunirsi a Ginevra a fine ottobre, sta preparando per un vago domani. Il fatto che sostituisca un laboratorio di guerra che in otto anni ha prodotto mezzo milione di morti, quasi tre milioni di feriti, sei milioni di rifugiati all’estero e sette milioni di sfollati interni, è sicuramente positivo. Però, mentre a discutere di riforma costituzionale e future elezioni sarà un comitato di 150 membri, in realtà l’avvenire su quella terra che è stato  un  meraviglioso crocevia di civiltà e fedi è nelle mani di potentati grandi e piccoli che della ‘macelleria siriana’ si sono disinteressati come le amministrazioni statunitensi, o da un certo punto l’hanno inserita nei propri interessati orizzonti come ha fatto Mosca del Terzo Millennio che guarda al Mediterraneo di levante e al Medio Oriente. E dell’Erdoğan, a lungo infiammatore del caos siriano e ora invasore, e non ultimo del cinico affossatore di civili sunniti Bashir Asad. Quindi, in cauda venenum, i contendenti a distanza iraniani e sauditi, consiglieri armatori di miliziani in una terra su cui ciascuno vuol stabilire l’influenza. Non si salvano le anime belle dell’Unione europea, in verità più zombi politici che convitati di pietra. E’ il crudele mix del realismo politico, specie quando segue l’ecatombe della pietà oltre che dell’umanità. In questo quadro lo spazio per proseguire l’esperimento di democrazia diretta del Rojava sembra ristretto o inesistente. Chi discute dei prossimi equilibri sembra poco disposto a concessioni verso gli ideali che migliorano l’animo e i corpi di donne e di uomini. Eppure l’utopia è dura a morire. 

Pubblicato sul numero di dicembre del mensile "Confronti"

mercoledì 11 dicembre 2019

Algeria, il voto dell’astensione


Il tam tam che corre sulle labbra dei giovani disoccupati (il 30% di ragazze e ragazzi d’Algeria fra i 18 e i 26 anni) è: oggi a casa, domani in strada. L’oggi è giorno di voto per le presidenziali sostenute con forza dall’uomo della forza, il generale Ahmed Saïd Salah. Domani è giorno di preghiera, come quel 22 febbraio quando iniziò l’Hirak, il movimento di protesta che ha fatto cadere il presidente-raìs Bouteflika e che da mesi scuote un regime che cerca di perpetuarsi. Così gli osservatori s’aspettano una corposa astensione dell’elettorato algerino che, del resto, ha già espresso in passato (20% la percentuale delle ultime elezioni) la sua diaspora dal sistema. E se c’è una frangia di cittadini che in queste settimane ha risposto alle sollecitazioni di militari e Fln, sollecitazioni di vicinanza al voto, la spaccatura fra i due mondi è profonda. Gli elettori pro apparato, che dovranno scegliere fra candidati tutti prossimi al deposto ‘uomo-regime’, si sbracciano nel ricordare come il contestato esercito salvò il Paese dalla follìa jihadista del ‘decennio nero’ (1990-2000). Ma solo chi non c’era può credere a questa versione univoca dei fatti. Tutte le famiglie d’Algeria contano lutti per la passata guerra civile, combattuta senza esclusione di colpi e con massacri indiscriminati da parte del braccio armato del Fronte Islamico di Salvezza e dai reparti speciali delle Forze Armate.
Il voltare pagina, la riconciliazione fu una ricucitura parziale perché due degli elementi di quello scontro non sono stati mai sanati: l’arrivo di una vera democrazia - ignorata dal traghettatore Bouteflika - e l’equità sociale smentite dal familismo del suo clan, dalla conseguente corruzione, dalla repressione mai cessata come sa pure la nuova generazione, nata appunto dopo quel periodo e scesa in strada dalla scorsa primavera per mancanza di lavoro e prospettive d’ogni genere. Questa gioventù, sempre composta, sempre pacifica nei suoi cortei ha pagato con arresti (più di mille) il percorso di protesta. Ora non ripone nessuna speranza nei cinque candidati legati al passato e in nulla operosi per cercare migliorie. I loro curricula parlano chiaro. Abdelaziz Belaïd, il più giovane (56 anni) a proporsi come presidente è l’unico a non aver ricoperto cariche di ministro. E’ però cresciuto in seno al Fronte di Liberazione Nazionale, a lungo partito unico della nazione. Alle presidenziali del 2004 sostenne Ali Benflis, contro Bouteflika. Con le ‘aperture’ del 2012 formò un proprio gruppo il Fronte El Moustakbal e due anni dopo si presentò alle elezioni. La vendetta di Bouteflika consistette nel collocare proprio Benflis nel suo collegio del Nord-est, così Belaïd raccolse solo il 3% dei consensi. Ali Benflis di anni ne ha 75 e per due volte s’è opposto a Bouteflika senza successo. Ora che la sua pecora nera non c’è più, spera. E’ stato ministro della Giustizia prima del ‘decennio nero’. Tornò alla politica con Bouteflika, diventando per un triennio premier (2000-2003). Viene ricordato per l’emanazione d’un decreto che vietava ogni manifestazione dal 2001. Decreto cui più volte i governi algerini si sono richiamati, fino ai giorni nostri.
Albdelkader Bengrina, cinquantasettenne animatore d’un piccolo raggruppamento islamista (Al-Bina Al-Watani) che lo sostiene nella per lui impossibile corsa alla presidenza che i militari non permetterebbero mai. Tale presenza costituisce, però, l’alibi di ‘apertura e democrazia’ della lobby delle stellette che non dimentica come Bengrina nei mesi scorsi non muovesse obiezioni all’ipotesi d’una quinta candidatura presidenziale del vecchio e malato Bouteflika. Azzedine Mihoubi, sessantenne e giornalista assai gradito al regime, iniziò la carriera politica, quand’era ancora accesa la guerra interna, col Rassemblement National Démocretique, un partito che piace ai militari. Ricopriva l’incarico di ministro della Cultura nei giorni in cui la contestazione di febbraio ha preso avvio. Viene considerato un moderato fedele al sistema, e per questo è ben visto dal fronte di continuità col passato. Un altro vecchio perlomeno d’età (74 anni) è Abdelmadjid Tebboune. Fu primo ministro nel 2017 per pochi mesi, venne licenziato per aver colpito un affarista, appaltatore per conto del fratello del presidente Saïd Bouteflika. Eppure durante la crisi della recente contestazione si è espresso anche lui per un quinto mandato “all’eterno algerino”. Per questo panorama la gioventù disoccupata e al più sottopagata, 150-200 euro mensili per impieghi professionali da ottenere con la catena delle raccomandazioni, non vuole né può votare. E con loro migliaia di famiglie che vorrebbero un futuro. Dicono che l’Hirak proseguirà, chiunque sarà il presidente. Un presidente che guarda indietro non può guidare l’Algeria.