Candidati sì, candidati no. Il caos nella campagna elettorale pakistana è galoppante, come lo sono accuse e smentite fra il partito dell’ex premier Imran Khan - Tehreek-e Insaf Party - e gli organismi elettorali e di comunicazione ufficiale di Islamabad. Murtaza Solangi, ministro delle Informazioni ad interim, ha sconfessato le dichiarazioni di parecchi giornalisti locali che denunciavano l’ingerenza con cui esponenti delle Forze Armate li ‘invitavano’ a non offrire copertura mediatica ai candidati di quel partito. I cronisti affermano d’essere sottoposti a pressanti richieste di evitare di parlare, intervistare o semplicemente indicare come appartenenti al Pti questi candidati, così da disorientare gli elettori. Si vuol far passare come indipendenti i nuovi politici del partito di Khan cosicché non ottengano il quorum per l’entrata in Parlamento. Stavolta non è il ‘vittimismo’ dell’ex campione di cricket a denunciare i fatti, lui da circa due anni lancia accuse di complotto internazionale e di persecuzione personale. Ora sono i reporter a mostrare i WhatsApp ricevuti, di cui il governo in carica sostiene la falsità. Chi ha ragione? L’elettore medio, chiamato alle urne il prossimo 8 febbraio, è confuso. Il caos, sostengono gli analisti pakistani, potrebbe avvantaggiare la Lega Musulmana N, il partito degli Sharif, uno dei clan familiari che da decenni condizionano la “democrazia parlamentare” pakistana. Che ha visto il fratello minore Shehbaz guidare l’esecutivo, dopo la rimozione di Khan (attualmente è incaricato un premier ad interim) e il maggiore Nawaz rientrare dall’esilio londinese, dov’era riparato dopo le condanne per corruzione. Se non s’infileranno nella tenzone elettorale, i due fratelli certamente agiranno dietro le quinte. Sebbene le eminenze grigie dello Stato restino generali e agenti dell’Inter-Services Intelligence, in molti casi provenienti dall’esercito.
La presunta censura del Movimento per la Giustizia di Khan e lo scompiglio dell’elettorato, soprattutto quello del proprio bacino elettorale, hanno conosciuto passi concreti. Come la cancellazione del simbolo (una mazza da cricket) non più presente sul logo del Pti sulla scheda elettorale. “C’è chi crede che il partito non sia più lo stesso. E’ un tranello simile all’impedimento alla candidatura subìto da Imran” dichiarano esponenti Tehreek. A detta di Human Rights Watch preoccupa il generalizzato clima repressivo che si respira nel Paese. Al di là delle tensioni di confine con l’India e le recenti con l’Iran, oltre la presunta lotta al terrorismo internazionale e al fondamentalismo interno, verso cui le Istituzioni oscillano fra sanguinari blitz e tolleranza, c’è sempre più la tendenza ad attaccare gli operatori dell’informazione. Si registrano parecchi fermi di giornalisti senza reali motivazioni, con arresti che oscillano da giorni a mesi. Ai loro avvocati vengono offerti vaghi sospetti di “sedizione”. Nelle ultime settimane, a ridosso delle elezioni, si sono verificate continue interruzioni Internet. Ne risultano penalizzati i cronisti che dalla rete ricevono informazioni e le trasmettono, ma ne sono colpiti gli stessi cittadini. Proprio i potenziali elettori più giovani, abituati a fruire dei contatti sul web, hanno manifestato i disagi per l’impossibilità di connessione. L’isolamento è funzionale alla conservazione dello status quo, rappresenta una specie di controllo indiretto della popolazione, soprattutto la più giovane, attiva e motivata. Ma i blocchi informatici, che per il governo rispondono solo a ragioni tecniche, hanno riportato alla mente l’avvìo delle anomalìe sin dai primi giorni di maggio. Allora gli attivisti del Pti attaccarono i reparti antisommossa per contestare le accuse al proprio leader, che è finito agli arresti nell’agosto scorso. Negli scontri ci furono morti e feriti. Da quel momento la disputa fra il suo partito e pezzi dello Stato pakistano non ha escluso ogni genere di colpi.