martedì 23 aprile 2019

Turchia, dai buoni propositi ai pugni


Son durate un batter di ciglia le buone intenzioni che lenivano le polemiche del dopo voto in Turchia. Per due settimane i rappresentanti dell’Akp, sconfitti, soprattutto a Istanbul e Ankara avevano ripetuto il mantra di necessari riconteggi dei voti, di ricorsi peraltro inoltrati dal partito alla Commissione elettorale. Poi d’incanto il 20 aprile era giunto un discorso conciliatore di Erdoğan: “… E’ tempo di pensare al futuro della nazione, di raffreddare i bollori elettorali, di stringerci le mani e collaborare sui temi dell’economia e sicurezza” dichiarava il presidentissimo. “Abbiamo completato una maratona elettorale, le consultazioni si sono svolte nello spirito della democrazia e della legge. Ci sono state discussioni politiche, ma queste non gettano ombre sul funzionamento democratico”. Pur riferendosi ai ricorsi, evidenziava la necessità di rimettersi alle decisioni supreme, come a voler parlare all’intera classe politica volta agli interessi del popolo rispetto a quelli di parte. Faceva intendere che l’intero establishment ha di fronte quattro anni sino alla prossima scadenza elettorale, dovrà utilizzarli per la stabilità nazionale. Il fulcro della ricetta dettata è esplicito: per eliminare il terrorismo e rilanciare una crescita economica servono i segmenti di tutta la società, perciò gli addetti ai lavori devono occuparsi degli 82 milioni di turchi, superando le  differenze pur esistenti. “Vista la campagna della stampa occidentale contro la nostra economia, qualunque siano i titoli dei giornali noi continueremo il nostro percorso”. In coda all’intervento attaccava il Financial Times, reo di giudicare l’economia turca collassata. “Hey, sei a conoscenza che la Turchia ospita quattro milioni di siriani?” chiedeva alla prestigiosa testata con la spocchia di chi si sente al sicuro. Questo il recentissimo Erdoğan-pensiero. Ai vertici del Chp non pareva vero. Sostenitori, come si dichiarano, del bisogno di accantonare polemiche e soprattutto vincitori delle amministrative erano lieti della distensione.

Non avevano fatto i conti con la base dura e pura dell’Akp. Così  quando il 21 aprile il leader Kılıçdaroğlu s’è recato in un momento  caldo, in una zona ancora più calda (Çubuk nel distretto della capitale), è stato preso a pugni da un gruppo di uomini. Erano i  partecipanti al funerale d’un soldato morto nei giorni precedenti sul confine iracheno, durante un conflitto a fuoco con guerriglieri del Pkk. Il leader repubblicano scosso è stato portato via dalle guardie del corpo che l’hanno tenuto in una casa nelle vicinanze, dove comunque la folla s’è radunata minacciosa. Per sbrogliare la situazione sono giunti reparti di polizia e squadre speciali. Il ministro dell’Interno dell’attuale governo (Akp più Mhp) Soylu e anche altri esponenti della maggioranza si sono immediatamente attivati per tamponare e giustificare il buco della sicurezza che riportava alla mente le scazzottate istituzionali avvenute nell’aula parlamentare durante le accesissime sedute per l’approvazione della riforma costituzionale che ha trasformato la Turchia in Repubblica presidenziale, con gli attuali superpoteri al presidente. Allora a darsele erano focosi onorevoli (dell’Akp e del Chp). Stavolta il mite Kılıçdaroğlu risulta bersaglio, mentre fra gli aggressori, inizialmente indicati quali familiari e amici della vittima, c’è un leader locale dell’Akp. La faccenda ha messo imbarazzo al partito di governo che ha repentinamente riunito i probiviri annunciando l’espulsione di quell’elemento, visto che lo statuto Akp bandisce ogni violenza pubblica e privata. Ma è bastata la giornata di ieri a rinfocolare accese dichiarazioni dei vertici dei due partiti. Il segretario repubblicano afferma: l’aggressione non è stata casuale, bensì pianificata. Il ministro dell’Interno rinfaccia a Kılıçdaroğlu un intento provocatorio: in campagna elettorale in varie località aveva accettato sostegno e voto degli attivisti del Partito democratico dei popoli, considerati dal governo fiancheggiatore del Pkk. Dunque, in cinque giorni, il Paese si ritrova a fronteggiarsi e la volontà di collaborare appare già archiviata.

venerdì 19 aprile 2019

I talebani ribadiscono: nessuna intesa con Ghani


Incontro saltato in Qatar e incertezze sul futuro dei colloqui di pace per l’Afghanistan. Così rispondono i talebani alla forzatura della mega delegazione (250 rappresentanti, fra cui una cinquantina di donne) proposta da Ghani al suo seguito. Alle sollecitazioni del sultano Barakat, del Centro studi qatarino per il conflitto, inizialmente i taliban non avevano eccepito nulla per poi dare forfeit. Intanto il tempo scorre, visto che le delegazioni avevano iniziato ufficialmente gli incontri nello scorso settembre e, guidate dall’inviato di Washington Zalmay Khalilzad, si davano 10-12 mesi per raggiungere un accordo. La tempistica appariva agli osservatori eccessivamente ottimistica sulla base di quanto mostrato dai precedenti tentativi del 2010 e dei periodi seguenti. Eppure nelle varie sedute dei mesi scorsi, le stesse rappresentative dei turbanti avanzavano fiducia nella possibilità di risolvere alcune controversie. Certo, hanno sempre ribadito di non voler trattare con l’attuale governo e questo nodo, che il gruppo di Ghani ovviamente non considera tale, rischia di saltare l’intero tavolo, che pure mostra ulteriori criticità come la questione delle basi statunitensi sparse in varie province. Forse la soluzione praticabile ruota attorno alla figura del presidente, un suo sacrificio a favore di altri del proprio entourage potrebbe diventare un compromesso. I funzionari americani di Cia e Pentagono che seguono gli eventi farebbero capire che si può fare, ma elementi politici afghani, fra cui anche signori della guerra imbarcati nella gestione Ghani (Abdullah, Dostum) non vogliono perdere terreno rispetto ai guerriglieri che vogliono sistemarsi nei posti di comando. Ne consegue il logorante braccio di ferro a distanza che rischia di bloccare le trattative su questioni centrali. Dunque si rimanda ancora, mentre i taliban, tanto per far offrire ulteriori dimostrazioni della propria determinazione, annunciano con le armi l’ennesima offensiva di primavera, anche se in realtà gli attacchi non hanno più stagione: gli studenti coranici quando vogliono colpiscono e si ritirano. In ogni luogo, in ogni periodo.

mercoledì 17 aprile 2019

Egitto, Sisi imita Erdoğan


Come Erdoğan e più di lui, Abdel Fattah al-Sisi il generale-presidente d’Egitto che cela dietro la grandezza d’un regime basato sul terrore la sua minuzia di dittatore piccolo piccolo, adotta la linea della riforma costituzionale per poter conservare il potere per un altro decennio. Il decreto che rende possibile tale prolungamento è stato approvato ieri da un Parlamento addomesticato, espressione del voto neppure della metà degli egiziani. Infatti sin dal golpe del 2013 l’opposizione perseguitata della Fratellanza Musulmana non è più presente sulla scena politica, e oltre a registrare morte, sparizione e prigionia dei propri attivisti, vede il suo elettorato sbandato e astensionista a qualsiasi confronto elettorale proposto negli ultimi anni. Le stesse elezioni che hanno ratificato la presidenza di Sisi nel 2014 e 2018, vinte con maggioranze bulgare, hanno avuto un’affluenza ufficiale del 40%, che a detta di vari osservatori internazionali risulta gonfiata di parecchi punti. Col 97% di consensi alla sua persona e il pieno di voti nella Camera dei Rappresentanti che lo sostiene senza rivali, il generale ha infarcito l’Istituzione di 596 yes men che ne avallano ogni desiderio. Il più esplicito: restare al potere e così sarà fino al 2030. A rendere “democratica” una decisione già presa il referendum consultivo previsto dal 22 al 24 aprile, con cui una consolidata minoranza di egiziani dirà l’ennesimo sì alla volontà del proprio uomo forte.
“Partecipa, dì sì agli emendamenti costituzionali” recitano manifesti giganteschi disposti in ogni angolo della capitale, compresa la piazza un tempo ribelle di Tahrir, ormai normalizzata a spartitraffico. Passare di lì con un semplice cartello di protesta assicura fermo e arresto, più eventuali accuse di terrorismo. E’ attorno al fine di combattere il terrorismo che Sisi reclama un mandato presidenziale più lungo (sei anni invece degli attuali quattro) e a suo dire il terrorismo è ovunque, specie in chi si oppone alla satrapìa personale in linea con la lobby che l’ha espresso, quella delle Forze Armate, anima nera sospesa sul grande Paese arabo che i militari dicono di proteggere. In realtà quest’Egitto è ben in linea col piano che ridisegna il Medio Oriente attorno a un asse reazionario centrato sull’Arabia Saudita,  la potenza regionale più funzionale agli interessi dell’imperialismo economico occidentale - statunitense, britannico o francese che sia - e vede signorotti della guerra come l’Haftar libico abbracciati e vezzeggiati da regimi autoritari, appunto l’Egitto di Sisi. In questo rimpasto mediorientale a perdere sono i ceti deboli di ciascun Paese, soggiogati o schiacciati da conflitti oppure ridotti all’esilio, come accade da anni a milioni di siriani oppressi dall’interno e da destabilizzazione esterne. Poiché, esplicitato da sistemi di governo a vita o mascherato da pseudo democrazie, il sogno di libertà di quei popoli continua a rimanere un sogno.

giovedì 11 aprile 2019

La Turchia del dopovoto e lo spettro della crisi


A dieci giorni dallo scossone elettorale rifilato dalla Turchia metropolitana al partito di governo è in corso fra quest’ultimo e l’alleanza fra repubblicani e İYİ Party un polemico scambio di battute sui ricorsi presentati al Consiglio Elettorale Supremo. L’Akp - che ha perduto la guida delle maggiori città: Istanbul, Ankara, Izmir, Adana, Antalya - sostiene la tesi di errori di calcolo in svariati seggi di quelle stesse località e accusa alcune commissioni per non aver vigilato a dovere nei seggi. In merito Meral Akşener, ex esponente del partito nazionalista staccatasi dal Mhp e creatrice dell’alleanza col secondo partito turco (Chp), ricorda polemicamente come fino allo scorso anno gli uomini di Erdoğan non avevano nulla da eccepire sulla macchina di controllo elettorale. Ora che si vedono sconfitti insinuano brogli e mancata vigilanza. Si tratta di accuse boomerang: il governo deve comunque rispondere della selezione operata sul personale che presiede le operazioni di voto. Così la contestazione viene rimandata al mittente. Anche il leader del partito repubblicano Kılıçdaroğlu sottolinea la pretestuosità delle proteste dell’Akp che dovrebbe cercare le cause della sconfitta nella claudicante linea economica dell’esecutivo.

Indice rivolto al ministro delle Finanze Berat Albayrak, genero di Erdoğan, e che da un ampio spettro politico comprendente anche attivisti islamici è considerato un parvenu politico, nonostante il curriculum di studi. Formato nella School of Business Administration dell’Università di Istanbul, il figlio del giornalista Sadik (amicissimo di Recep Tayyip tanto da essere membro del Partito del Benessere, predecessore dell’Akp) entrò a far parte della “Çalık Holding” appena ventunenne e dopo un triennio venne nominato direttore nazionale della multinazionale negli Stati Uniti. Per la cronaca la Çalık, fondata negli anni Ottanta dall’imprenditore Ahmet attivo nel settore tessile e divenuto uno dei Paperoni della Turchia liberista, ha cavalcato l’onda del boom economico del Paese. Il rapporto con gli ambienti politici è servito al tycoon, naturalmente dotato di buon fiuto imprenditoriale, ad ampliare i settori d’intervento e i mercati stessi. Quindi minerario, costruzioni, energetico, finanziario sono diventati i settori in cui il gruppo si cimenta mentre negli anni Novanta l’indipendenza dei Paesi dell’ex Urss spalancò le porte per nuovi affari. Cui s’aggiunse la telefonia, oltreché la creazione di settori bancari per quelle invenzioni politiche dell’Unione Europea su volere statunitense qual è stato il Kosovo.

Il giovane Berat, che aveva sposato Esra Erdoğan, quale amministratore delegato della Holding ne seguì l’attività sino al 2013 poi rientrò in patria. Nelle travagliate elezioni del novembre 2015 fu nominato ministro dell’Energia e quella gestione venne  additata come prologo della crisi turca esplosa lo scorso anno. Le società elettriche accumularono miliardi di dollari di debito, prendendo in prestito denaro per attività di espansione non sempre brillanti e in varie occasioni speculative. Albayrak era finito anche nello scoop del quotidiano The Indipendent che tramite email “hackerate” evidenziava un rapporto fra il Berat, manager e non ancora ministro, e la compagnìa turca “Powertrans” che riceveva dal governo il monopolio del trasporto petrolifero in Anatolia dai pozzi del Kurdistan iracheno. Cui, però, s’aggiungeva anche il petrolio estratto dall’Isis nei territori definiti del Daesh. A posteriori un dispaccio della Cia definì quelle accuse infondate, ma gli esperti lo giudicarono un favore al presidentissimo Erdoğan riapertosi all’Occidente. Di fatto quando nel luglio 2018 Albayrak s’è ritrovato su nomina presidenziale ministro delle Finanze, la Borsa ha registrato turbolenze, e gli analisti economici sottolineavano il disagio degli investitori verso una figura controversa e giudicata priva di competenze.

Ora proprio da fonte governativa s’apprende che il ministero in questione amplierà i propri obiettivi (che comprendono anche il Tesoro) diventando ancora più potente. La decisione rientra nelle riforme previste ed è stata annunciata dal ministro stesso che in queste ore evidenzia la scelta di rafforzare il capitale degli istituti statali (sono previsti cinque miliardi di dollari) come primo passo compiuto dall’esecutivo per rendere robusti i bilanci della banca centrale. La stampa turca non certo d’opposizione (Hürriyet) afferma che Albayrak sta ricercando, anche col supporto di associazioni bancarie, un sostegno di istituti privati. Mentre viene studiato un nuovo sistema pensionistico basato sul reddito dei cittadini che, a detta degli esperti del dicastero, accumulerà fondi superiori al 10% del prodotto interno lordo. Il ministro sorprende gli analisti economici quando afferma che la Turchia sta facendo i passi giusti per garantire un buon funzionamento del settore finanziario. E’ solo propaganda per lenire il colpo elettorale che in ogni caso ha incrinato il rapporto con l’elettorato urbano o c’è di più? Intanto il presidente parla d’altro: tornando sul tema della sicurezza durante la festa della polizia ha ricordato la pulizia interna al corpo che ha incarcerato oltre 30.000 aderenti alla struttura Fetö e ne ha licenziati 31.000.  

giovedì 4 aprile 2019

Turchia, i segnali del voto


Analisti e politici turchi, quest’ultimi vincenti e perdenti, si chiedono se il risultato del voto amministrativo di domenica prospetti un cambiamento che disegna un Paese diverso da quello conosciuto negli ultimi diciassette anni. La valutazione, pur potendo seguire percorsi analitici articolati, non evidenzia grandi novità. Temi centrali delle elezioni erano: sicurezza ed economia.  Attorno a essi s’è sviluppato l’esito della consultazione. La sicurezza, costante di un quadriennio vissuto pericolosamente, è diventato da tempo il leit-motiv della politica erdoğaniana. Ma sembra non fare più presa come nel luglio del tentato golpe. Allora erano state le piazze urbane proprio di Istanbul e Ankara a salvare Erdoğan che rischiava di finire nelle mani dei militari ribelli. I cittadini che lo difesero, affrontando i carri armati, pensavano di sostenere un sistema Paese in cui si riconoscevano. Forse, però, difendevano soprattutto quella condizione economica che ne aveva sollevato vita e portafoglio, producendo una spinta addirittura maggiore della modernizzazione liberista lanciata dopo la dittatura degli anni Ottanta. Parliamo della cittadinanza elettrice, non di chi s’era trasformato in attivista del partito che della Giustizia e del Progresso fa tuttora  un’icona.
Pensiamo che costoro siano ancora fedeli al grande capo, in città come in campagna. Ma nei grandi centri urbani, ben cinque: Istanbul, Ankara, Izmir, Adana, Antalya, circa 30 milioni di turchi sugli 82 che oggi conta il Paese, dicono d’esser stanchi dell’aggressione verbale ad avversari trattati come nemici e cercano un’esistenza pacifica. Ovviamente con un’inflazione al 20% e una disoccupazione anch’essa a due cifre, c’è poco da tranquillizzare l’animo, pur votando per il partito repubblicano che al di là della moderazione dei toni non mostra grandi idee. Però il segnale è lanciato. Un segnale chiarissimo ai governanti: non saranno le moschee in costruzione a placare l’ansia della gente, che va pure a pregare, ma chiede stabilità. Economica oltre che civile. Dunque, il voto del ceto medio urbano all’Akp non era un’adesione per fede politica e religiosa, bensì per prospettive di miglioramento sociale. Tutto sommato più ideologico resta il consenso anatolico, dove per tradizione l’Islam tiene tuttora unita la Ümmet. Eppure questo collante può non esser sufficiente a un governo che non presta orecchio alle preoccupazioni popolari.
Se il trend economico negativo dovesse proseguire, le elezioni anticipate - rispetto alla data prevista del 2023 - diventerebbero inevitabili perché sospinte dal malcontento sociale. Cui il sistema  deve scegliere se rispondere con la stessa dura mano repressiva utilizzata negli ultimi anni contro i nemici della nazione e della popolazione turca, additati come “terroristi”: i fetüllaçi di Gülen, i kurdi d’ogni sponda, dal Pkk all’Hdp, l’ultrasinistra in genere. I politici vicini al presidente hanno cercato di rintuzzare discorsivamente le considerazioni dell’opposizione vincitrice che insinua l’idea d’una prossima spallata al regime, una mossa giudicata ormai possibile. Gli erdoğaniani ricordano come il partito col 44% dei consensi conservi saldamente la prima posizione fra gli elettori e che l’alleanza col Mhp conferisce al modello presidenzialista la maggioranza assoluta. Però chi guarda avanti non può nascondersi dietro certezze pregresse, vivendo di ricordi pur se clamorosamente vincenti. Nell’Akp c’è chi reclama spazi meritocratici al posto di carriere frutto di schieramenti e familismi, un riferimento diretto al ministro delle Finanze, quel Berat Albayrak genero di Erdoğan. E sono attesi rimpasti ministeriali. 


mercoledì 3 aprile 2019

L’Algeria della speranza festeggia il futuro


Canta e gioisce ‘Algeri la bianca’ che esce dall’incubo Bouteflika per andar dove non è ancora chiaro. I cittadini giovani e navigati si godono un successo scaturito da proteste di massa, lievitate settimana dopo settimana. Già giorni addietro il generale Salah aveva accettato il volere della piazza, archiviando l’ipotesi di rilanciare il presidente malato dietro il quale lui e altri del clan di potere si muovevano da anni. Ma questo gruppo non si ritira assieme all’ex presidente, il manipolo dei figuri che manipola la vita pubblica algerina cercherà nuovi appigli per continuare a gestire interessi di casta. Quella militare con lo stesso Salah, oppure di apparati col capo dell’Intelligence Mediène, più quelli privati che negli anni scorsi hanno visto all’opera Bouteflika junior, Said, nella veste di gran cerimoniere negli affari con quell’Occidente amico dei tiranni mediorientali. Poiché della Francia - repubblicana sì, ma colonialista e neocolonialista oltre il tempo delle colonie - il Bouteflika pimpante degli anni Sessanta e Settanta che da ministro degli Esteri s’interfacciava a De Gaulle, Pompidou, Giscard, Mitterand quindi da presidente a Chirac fino a Holland, è stato un gancio importante e, da un certo punto, non l’unico. Con lui agiva il clan, una fotocopia d’altri sistemi di raìs sdoganati ad arte fra Maghreb e Mashreq da quell’Europa precedente al marchio Ue e anche successiva.

La contropartita era basata sugli scambi d’interesse e favori ai capitali transnazionali transitati in quei lidi in cambio di materie prime e sudditanza economica. Il tutto sulla pelle delle popolazioni scippate dell’autodeterminazione. Che i giovani, intervistati in queste ore da canali televisivi internazionali come Al Jazeera e Bbc palesino tutta la gioia e l’eccitazione possibili per un momento che resta storico, è sicuramente una bella immagine. Altra storia è la fattibilità d’una transizione verso una democrazia popolare che lo stesso movimento di liberazione nazionale nel 1962, non riuscì a innescare proprio grazie ai tradimenti di sedicenti innovatori come Abdelaziz Bouteflika e chi prima di lui (Boumédiène) aveva personalizzato la guida della nazione, abbandonando a se stesso il sogno panafricano. Eppure quest’aria di primavera, che per scaramanzia con quelle del 2011 non è bene definire ‘primavera algerina’, frizza di desiderio di trasformazione, un periodo di seconda indipendenza. Perché ciò accada realmente servono cambiamenti strutturali, contro la corruzione degli amministratori e dei faccendieri sponsorizzati dal colonialismo di ritorno, coloro che impediscono una reale  emancipazione economica e una redistribuzione della ricchezza. Il gabinetto guidato da Bedoui non ci rappresenta, dichiara la piazza. Prossimi passi: il presidente del Consiglio assume l'incarico a interim per 90 giorni, durante i quali va eletto un presidente della Repubblica, poiché la carica di passaggio non consente alcun potere effettivo. La partita è aperta, incerta ma va giocata.

lunedì 1 aprile 2019

Ankara e Istanbul voltano le spalle a Erdoğan


Ciò che gli osservatori avevano posto al centro dell’attenzione per le amministrative turche: quella crisi economica che attanaglia il Paese, facendo segnare un’inflazione al 20% e una disoccupazione al 13% tanto da costituire un fattore di rischio per il governo-regime dell’Akp, ha confermato i timori. Il Partito della Giustizia e dello Sviluppo perde la capitale e, al momento della stesura di queste note anche la metropoli simbolo tanto cara a Erdoğan: l’Istanbul che l’ha visto calciatore e sindaco, leader e premier, ammaliatore e fustigatore, benefattore per chi aderiva al suo sogno di diventare un presidente onnipotente. In realtà nella metropoli sul Bosforo i candidati sindaco İmamoğlu (opposizione) e Yıldırım (governo) si sono entrambi dichiarati vincitori di stretta misura: per 28.000 e 4.000 preferenze quando sono state scrutinate il 99% delle sezioni. Ma l’agenzia Anadolu dà il successo al primo col 48.6% contro il 47.7%. Trattasi, per ora, d’un lancio d’agenzia ufficioso poiché sono in corso controlli su schede contestate e i  candidati s’inseguono a filo, ma ormai il dato viene confermato anche da altre agenzie internazionali. Più definita la sconfitta dell’uomo con cui il presidente aveva cercato di tamponare il malcontento circolante: Mehmet Özhaseki ha ottenuto il 47.2% dei consensi, mentre il volto dell’opposizione Mansur Yavaş ha superato la metà dei votanti e col 50.9% e assume la guida dell’altra città simbolo, quella del potere effettivo, dove sono il Meclis e il sontuoso palazzo presidenziale. Una beffa doppia perché com’era stato previsto dai sondaggi Yavaş, forte di una propaganda vivacemente nazionalista, s’è fatto lupo fra i ‘Lupi grigi’ e ha raccolto parecchi voti su quella sponda.

La scossa, dunque, c’è stata. La piccola borghesia urbana - di cui il partito di governo dal 2002 raccoglie il consenso, preoccupata da una crisi di cui negli anni addietro aveva solo sentito parlare - reagisce voltando le spalle all’osannato fautore di quell’impulso, lanciato dal primario liberismo di Özal e orientato verso un sistema di consenso dall’ideologizzazione erdoğaniana. Ancor più clamoroso è lo schiaffo repubblicano nella terza città turca, Izmir, dove Mustafa Tunc Soyer col 58% sopravanza nettamente l’uomo del blocco islamico, Nihat Zeybekci fermo a un 38.5%. Consola solo parzialmente il risultato generale che offre il successo all’Alleanza del popolo (Akp più i nazionalisti del Mhp) con 51.7%, mentre l’opposizione, pur vincente nelle citate città, non va oltre il 37.6%. Non solo i sondaggisti, gli stessi consiglieri economici del sultano avevano dipinto un quadro a tinte fosche, seppure oggi ciascuno guarda al proprio bicchiere mezzo pieno. Erdoğan da giocatore incallito, ma anche da lottatore indomito, fa capire d’avere in mano la formula per la ripresa: le sognate riforme. E conferma che la strategia per la cura ricostituente dell’economia interna prevede una conservazione delle regole del libero mercato, mentre maledisce gli speculatori finanziari che si sono accaniti sulle debolezze turche, come se quello non fosse il princìpio vitale dei meccanismi borsistici globali.

Nei dati pervenuti l’opposizione kurda, che non mostrava accordi con altre componenti d’opposizione (i più democratici risultano i repubblicani), ha una percentuale del 4,22% parecchio al di sotto dei lusinghieri risultati degli anni precedenti. Bisogna considerare il peso della repressione degli ultimi tre anni che ha mietuto vittime civili e condotto in prigione migliaia non solo di attivisti, ma di sindaci e pubblici ufficiali, ben 90 municipi sono stati sciolti con la forza da polizia, esercito, magistratura. Il Partito Democratico dei Popoli conserva il suo primato nel sud-est a Mardin, Diyarbakır, Batman, Siirt, Van, Hakkari, e a nord-est a Kars, Iğdır. Invece anche in province (Ağri, Şırnak) da tempo apertamente schierate con questa formazione, l’Akp ottiene la maggioranza utile a lenire lo smacco della perdita delle tre maggiori città del Paese. E’ la solita Anatolia rurale a contenere una flessione che vede il partito-regime attestato sul 44%, certo ampiamente superiore al 30% dei repubblicani, l’unica forza d’opposizione in grado d’impensierirlo. Da questo confronto che, se non ci saranno terremoti socio-economici, terrà lontano dalle urne gli elettori sino al 2023, escono due novità. S’apre una grossa crepa sull’invincibile compattezza dell’Akp che, finora aveva superato anche contrasti e defezioni interne di leader noti. Perdere d’un colpo città-simbolo come Istanbul e Ankara ridimensione il carisma presidenziale, lanciando il messaggio che un rovesciamento di chi ha monopolizzato costituzionalmente il potere può diventare possibile. Viene ribadito, anche a favore dell’opposizione, il quadro che in un Paese polarizzato le alleanze risultano vitali. Fattore che finora aveva legato le sorti di islamisti e nazionalisti parafascisti e che per ora ha avvicinato repubblicani e i nazionalisti Iyi Parti, cui i turchi danno 3 milioni e mezzo di voti, più della formazione di Bahçeli.