giovedì 30 marzo 2023

Adani, il tycoon pro Modi

 


Il tonfo col quale un presunto campione di economia e finanza come Gautam Adani, giudicato nel novembre 2022 dalla rivista Forbes il terzo imprenditore più ricco al mondo con 144 miliardi di dollari di patrimonio, perdeva dopo solo due mesi oltre 90 miliardi di quella fortuna, può forse essere spiegato da vicende come quella che in questi giorni fanno fibrillare la politica del Bangladesh. Per la cronaca il 23 gennaio di quest’anno le azioni delle società del tycoon indiano subivano un crollo verticale sulle Borse indiana e asiatica a seguito di accuse di manipolazione e frode lanciategli da Hindenburg Research, una società di ricerca americana sugli investimenti speculativi. La fonte delle accuse è privata, la reazione di Adani Group è stata immediata: “si tratta d’un attacco calcolato, basato sulla menzogna”, ma la finanza ha regole fumose e nessuna morale, chi ci sguazza ha peli su cuore e coltello fra i denti e i titoli Adani Enterprises sono precipitati. Sempre dai lidi delle Borse, s’è saputo che gli aiuti per risollevare le sorti del magnate del Gujurat non sono mancati: nella settimana seguente International Holding di Abu Dhabi ha investito centinaia di milioni di dollari su quelle azioni, però lo schianto s’era verificato, lo staff del riccone che non perde mai il sorriso dovrà impegnarsi a recuperare i capitali bruciati. Ma non è un problema. Nelle varie attività di Adani (Adani Power, Adani Transmission, Adani Green Energy, Adani Total Gas, Adani Wilmar e NDTV) che coinvolgono energia, produzione chimica, metallurgica, tessile, agricoltura, commercio, infrastrutture, media esistono contratti internazionali favoriti dalla politica che l’odierno sessantunenne tycoon ha sempre curato. Ancor più dall’ascesa al vertice del Paese di Narendra Modi, il compaesano primo ministro che proviene da un paesino (Vadnagar), un centinaio di chilometri più a nord della collocazione del clan Adani insediato nella metropoli di Ahmedabad. Gautam avrebbe potuto seguire le orme del padre mercante di tessuti, ma aveva mire più alte e già adolescente iniziava a lavorare come selezionatore di diamanti a Mumbai. Dopo il diploma s’iscrisse alla facoltà di Economia che lasciò presto, perché l’intento di maneggiar denaro era più forte delle teorizzazioni monetarie. 

 

Ventenne era accanto a un fratello maggiore a produrre e vendere polimeri. Intuito e desiderio viaggiavano affiancati nella testa del Gautam imprenditore che si gettò a capofitto nel mare delle liberalizzazioni volute dai governi indiani. Fra appalti locali (la gestione del porto di Mundra nella regione d’origine), iniziative nazionali ed estere sempre più ampie gli investimenti targati Adani crescono e si diversificano. I rapporti con la politica risultano nient’affatto casuali e servono a suggellare vantaggi non indifferenti. L’ultimo chiama in causa la maggiore società elettrica indiana (avrete capito che è la sua, Adani Power Ldt) che fornisce energia al vicino Bangladesh. Risulta però che il governo di Dacca pagherà un prezzo molto più elevato quell’energia ottenuta bruciando carbone di scarsa qualità ricavato da forniture australiane di proprietà sempre di Adani, spedite via mare da trasporti navali afferenti ad Adani che attraccano in un porto gestito dalla sua holding. Un commercio capace di moltiplicare per quattro le entrate del magnate. Del resto tutto ciò è in piedi da anni grazie agli accordi fra Modi e la sua omologa nel Bangladesh Sheikh Hasina Wazed, la donna premier più longeva al mondo in carica ininterrottamente dal 2009 (è al quarto mandato). Figlia dello sceicco bengalese Mujibur Rahman, Hasina è di religione musulmana, ma resta nelle grazie politiche del puro hinduista Modi per ragioni di Stato non certo di fede. Il leader indiano ha già calda la frontiera occidentale col Pakistan e non pensa d’inimicarsi sul confine orientale un’altra nazione a maggioranza islamica. Sebbene il Bangladesh, territorio dei grandi fiumi e con un notevole dislivello marino che gli studiosi monitorano per le frequenti alluvioni foriere di migrazioni forzate, abbia una cospicua minoranza hindu (17 milioni su 166 milioni di abitanti). Motivo d’ulteriore diplomazia più che fra partiti diversi (l’indiano Bharatiya Janata Party è di destra, mentre la  bengalese Awami League risulta di sinistra), fra leader assetati di potere, fortemente autoritari, che dicono di governare per il popolo, ma ne affossano i diritti a favore degli imprenditori pigliatutto alla Adani. Che può anche permettersi di perdere miliardi in Borsa poiché appalti regàli o regali d’appalto non gli mancheranno.

 

martedì 28 marzo 2023

Erdoğan, la forza della contraddizione

 


C’è un motivo per il quale alle presidenziali turche Recep Tayyip Erdoğan ha più possibilità di farcela rispetto a Kılıçdaroğlu, il candidato del ‘Tavolo dei sei’, com’è denominata la cordata dei suoi oppositori. La risposta sta nella scapestrata incoerenza della sua politica fatta di colpi a effetto, retromarce, rilanci, giri di valzer, trasformismi che impongono sussulti e mal di testa anche ai più fedeli seguaci. Eppure quel che risulta apparentemente folle appartiene ai comportamenti storici di certi cosiddetti cavalli di razza della politica. Nel caso di Erdoğan, che di azzardi è campione mondiale, da un ventennio i fatti gli han dato ragione. Certo, si tratta della ragione del potere, della sua conservazione che è per antonomasia difficile in un mondo che corre veloce, ma proprio i cambi di marcia, di registro, di schieramento sembrano cementare questo percorso a ostacoli. Il leader d’un modello che è stato definito ‘islam moderato’ sviluppatosi in una fase in cui l’islamismo iniziava a preoccupare seriamente l’Occidente - sia quando assumeva i connotati della scalata parlamentare nell’Algeria anni Novanta, poi con le piazze delle primavere tunisina ed egiziana, ancor più nella fase montante del sanguinario Califfato dello Stato Islamico più preoccupante del terrorismo di Qaeda – pensato come mediatore capace d’intervenire sulla contrapposizione fra sistemi, costituiva un tranquillizzante per le fibrillazioni dell’ex colonialismo europeo incapace di trovare soluzioni geopolitiche fuori dalle strettoie militariste della Nato conosciute in Libia e Iraq. Avere nell’Alleanza Atlantica la Turchia e il suo uomo forte sedava le ansie anche quando lui tuonava su questioni mediorientali (sostegno ai palestinesi, governi della Fratellanza Musulmana). Nello sfascio siriano la linea di Erdoğan è passata dal supporto, malamente celato, alle fazioni del fondamentalismo anti Asad, a stabilire con lui un accordo contro l’autonomia del Rojava kurdo che entrambi vedono come fumo negli occhi del proprio potere. Quindi verso i profughi siriani, che undici anni di conflitto fanno ammontare a sette milioni, la metà se l’è presa in casa, pur affittando quella permanenza a una compiacente Unione Europea. 

Si può proseguire su un terreno di scelte interne ed estere variegate e contraddittorie dalle quali linea e personaggio escono indenni, continuando a restare al centro della geopolitica mondiale. Il capo del partito repubblicano, che il 14 maggio lo sfida per la presidenza, sarebbe riuscito a fare altrettanto? Nessuno può dirlo, perché le congetture esulano dalla politica reale. Però il laicismo appartenente alla tradizione kemalista, gli avrebbe consentito minori rapporti e scarse relazioni con l’arabismo islamico con cui negli ultimi tempi il leader dell’Akp s’è conciliato dopo gli screzi passati. Opportunisticamente o furbescamente ha lasciato cadere la polemica sulla sanguinaria eliminazione di Khashoggi che lo opponeva a bin Salman, ha riallacciato un’intesa con l’emiro bin Zayed dopo quasi un decennio di critiche alla sua politica ostile alle rivendicazioni nelle società arabe. Sia per la difficile fase finanziaria turca, sia per la vicenda della ricostruzione post terremoto i buoni uffici e i petrodollari dei potentissimi dignitari dei due Paesi del Golfo possono tornare utili alla Turchia e a Erdoğan che vuol continuare a guidarla. Al cospetto dell’altro solventissimo emiro del Qatar, bin Hamad al-Thani, nel ruolo di arbitro il presidente turco ha compiuto il gesto che s’era negato sino al 2019. Diceva: "Mi rifiuto d’incontrare una persona antidemocratica come al Sisi che ha condannato Morsi e i suoi amici in prigione”. Invece il tempo fa i suoi percorsi e la politica pure, così in occasione dei Mondiali di calcio dello scorso novembre a Doha, l’incontro è avvenuto con tanto di strette di mano, sorrisi e possibilità di nuovi scenari nel Mediterraneo orientale che tanto interessa alla nazione turca. Lì l’Egitto di al Sisi nell’ultimi triennio ha favorito gli interessi di Grecia e Cipro riguardo alle Zone Economiche Esclusive, sulle quali insiste l’affare dello sfruttamento dei giacimenti di gas. Per tacere della situazione libica dove il Cairo ha appoggiato le mire russe a sostegno del generale Haftar, mentre Ankara si rapportava al pur claudicante Governo di Accordo Nazionale. Ultimamente i ministri degli Esteri Cavusoglu e Shoukry si sono incontrati nella capitale egiziana, impostando un dialogo che potrebbe mutare posizioni sul fronte delle questioni citate. E questo rientra pienamente nella campagna elettorale del presidente uscente.

venerdì 24 marzo 2023

India, Gandhi sospeso dal Parlamento

 


Più dell’urna può la legge e quella sulla diffamazione, vera o presunta, pone ostacoli seri a politici di varie sponde. In India Rahul Gandhi, il candidato che può impensierire il primo ministro Modi alle elezioni del 2024, si ritrova da ieri sospeso dal ruolo di parlamentare e di politico per una condanna ricevuta. Galeotta è stata una sua frase pronunciata nel 2019: “Perché da noi tanti ladri hanno il cognome Modi?”. Uscita un po’ infelice per i tanti signori Modi e indiretta stoccata al premier in carica, che ora la Corte del Gujarat giudica offensiva con conseguente reprimenda dai pesanti risvolti: due anni di reclusione e interdizione dalla politica attiva. I legali del nipote di Indira hanno già inoltrato la domanda di sospensione della misura, ma la legge indiana peraltro antica - la ‘Representation of the People Act’ è del 1951 - impone la squalifica di ogni politico "condannato per qualsiasi reato e condannato alla reclusione per non meno di due anni". Gandhi junior avrebbe dovuto conoscere, o farsi raccontare, quanto era capitato a nonna Indira, rimossa nel 1977 dalla carica di primo ministro per iniziativa d’un Tribunale, sebbene quella diatriba durò un tempo brevissimo. Il caso di Rahul sembra una fotocopia di ciò che è accaduto al sindaco di Istanbul, il repubblicano İmamoğlu. Questi, nella prossima scadenza elettorale turca del 14 maggio, avrebbe potuto incarnare un’alternativa presidenziale a Erdoğan molto più del collega di partito Kılıçdaroğlu. Invece s’è ritrovato escluso per una condanna, anch’egli a due anni di detenzione, comminatagli lo scorso dicembre. Il motivo: insulti a funzionari pubblici durante le amministrative del 2019. 

 

Anno fatale quello che ha preceduto la pandemia per i politici citati, ma al di là della scaramanzia c’è il fatto che alcuni leader dal piglio autoritario capaci d’influenzare la magistratura o contornati da giudici compiacenti, riescono a orientare la condizione di avversari per loro “pericolosi” che ne potrebbero pregiudicare la gestione del potere. Frattanto il Congress Party, al quale Gandhi appartiene come deputato del collegio di Waynad nello Stato federale del Kerala, è sul piede di guerra: "Il governo non si rende conto che Rahul Gandhi nel Lok Sabha (il Parlamento, ndr) poteva non essere così pericoloso come lo diventeranno le strade dell'India se la condanna non verrà cancellata. La gente è con noi". Se fra i commentatori c’è chi parla di “giornata nera per la democrazia indiana”, diversi analisti hanno valutato l’iniziativa della Corte del Gujarat un palese favore a un governo che non accetta critiche, neppure di carattere politico. Poi c’è chi avanza l’ipotesi della battuta scherzosa da parte di Gandhi, il suo sarebbe stato un paradosso che non voleva offendere i Modi di strada e di governo. Tesi azzardata, poiché il politico deve saper misurare parole ed esempi. Però, c’è un però. A più d’un seguace dell’hindutva (la linea razzista del fondamentalismo hindu) aderente anche al partito di governo sono sfuggiti di bocca inviti “a sterminare i musulmani” o frasi d’odio che incitano a “sparare agli islamici” e se in qualche circostanza un magistrato ha aperto un’inchiesta la posizione del Bharatiya Janata Party è stata la seguente: si trattava di celie, scherzi camerateschi senza importanza, anche se poi i morti per via ci sono stati davvero. Contro il doppio binario della giustizia si pronunciava Gandhi medesimo, ma da oggi si vede azzittito e rischia di veder soffocata la voglia di battersi all’ultimo voto contro Narendra Modi.

L’Afghanistan di Muttaqi

 


S’appoggia ad Al Jazeera Amir Khan Muttaqi, ministro degli Esteri dell’Emirato afghano. L’emittente qatariota è fra le poche al mondo a offrire un’informazione a 360 gradi, con un’attenzione specifica per il vicino e lontano Medio Oriente. Magari lo fa per l’intento di grandezza che l’editore emiro Al Thani mostra in questo e altri settori d’investimento. Eppure in sua assenza noi stessi non avremmo modo di avvicinare il pensiero di politici sgraditi al ‘blocco Occidentale’ che invece l’emittente di Doha accoglie ai suoi  microfoni. La voce di Muttaqi, che alla stregua del diplomatico Baradar appartiene alla componente colloquiale dei talebani d’Afghanistan, segue logiche proprie. Non solo propone un punto di vista soggettivo, ma non lesina uscite propagandistiche sul Buongoverno dei turbanti. Un esempio: “Il nostro governo ha adottato misure per districarci dalla dipendenza paralizzante di aiuti stranieri, stiamo "afghanizzando" tutti i settori, rendendoli più responsabili delle esigenze della popolazione, ci concentriamo sulla capacità di sviluppo e sostenibilità. Allo stesso tempo comprendiamo che la natura globalizzata delle relazioni moderne significa che ciascuno deve imparare a vivere in armonia e pace con gli altri. Tali  relazioni dovrebbero fondarsi sui princìpi immutabili di uguaglianza, rispetto reciproco e cooperazione attraverso il perseguimento di interessi condivisi”. Muttaqi sottolinea lo sforzo, almeno teorico, per un riavvicinamento tra l'Afghanistan e il mondo. Dichiara: “A livello nazionale l'unità e la coesione della società sono più forti che mai. Celebriamo e siamo orgogliosi della nostra diversità e della nostra ricca storia. Non vogliamo imporre la volontà della maggioranza a una minoranza. Ogni cittadino del Paese è una parte inseparabile del tutto collettivo”. Un impianto umanitario che ribadisce aspetti positivi sul piano della sicurezza interna, a suo dire ampiamente migliorata per la cessazione del conflitto interno. Nulla però dice sull’incidenza delle azioni armate e degli attentati dell’Isis Khorasan. E quando Muttaqi fa riferimento a un proprio governo “indipendente e potente”, dribbla sui rapporti fra fazioni come quella Haqqani, vicina ai Tehreek-e Taliban pakistani nient’affatto pacifici col proprio Stato ed elemento d’instabilità regionale.

 

Gran parte delle affermazioni del ministro degli Esteri s’incentrano sul bisogno di futuro, possibile se ci si scrolla di dosso le negatività accumulate in un trentennio diviso fra  conflitti dei Signori della guerra e occupazione Nato. Da cui sono derivati corruzione, assistenzialismo, impossibilità di sviluppare un’economia autoctona, diffusione della produzione del papavero da oppio, che i taliban dicono d’aver impedito con la nuova salita al potere. Un fattore centrale perché a Kabul e nelle province si torni a respirare è anche ricevere i fondi bloccati nelle banche statunitensi, i famosi 9.5 miliardi di dollari di cui si discute dal settembre 2021. E poi “Occorre eliminare tutti gli ostacoli al commercio transnazionale, all'estrazione delle risorse naturali e all'attuazione dei mega progetti nazionali. Da parte nostra rimaniamo impegnati a garantire un ambiente favorevole e a lavorare con tutti gli Stati sulla base degli interessi comuni. Un Afghanistan autosufficiente è nell'interesse di tutti, un Afghanistan fallito mette a repentaglio ogni cosa del presente e del futuro”. Per Muttaqi il governo dell’Emirato ha facilitato il movimento degli afghani che desiderano viaggiare all'interno o all'estero. Forse lo fa non ostacolando le fughe della speranza nella migrazione clandestina… “Abbiamo anche mantenuto circa 500.000 membri della precedente amministrazione, aumentando le dimensioni del settore pubblico” così riferisce. Il ministro, che ha anche curato l’Informazione e la Cultura e nel quinquennio 1996-2001 ha rivestito l’incarico di responsabile dell’Istruzione, nulla dice sulle coercizioni per le donne, sull’impedimento dell’istruzione superiore e pure universitaria per le studentesse, sulle restrizioni alla libertà di lavoro e di circolazione femminili. Nel discorso non affronta mai il tema dei diritti. Invece ammonisce: “la sensibilità religiosa e culturale della nostra società richiedono un approccio cauto. Quei governi che non hanno mantenuto il giusto equilibrio su tali sensibilità hanno affrontato difficoltà”. “Noi crediamo nel dialogo e nello scambio d’idee, in un'atmosfera libera da pressioni politiche o economiche, volta a trovare soluzioni pratiche e a dissipare incomprensioni” però non c’è traccia di proprie aperture. Per ora il bel gesto resta un proclama, un richiamo affinché all’estero comprendano il volere talebano.

giovedì 23 marzo 2023

Kurdi, l’ago della bilancia elettorale turca

 


Saranno i kurdi l’incognita delle elezioni presidenziali e politiche del centenario della nazione turca che mai li ha amati. La scelta di rinunciare a un proprio candidato espressa dal Partito democratico dei popoli (Hdp), che otto anni fa alle urne toccava il 13%, è una mossa che potrebbe sfavorire chi a queste elezioni tiene come alla sua vita: Recep Tayyip Erdoğan. Il politico più in vista del Paese, d’un gran pezzo di Medio Oriente e della geopolitica internazionale. Amato e odiato, ma certamente più popolare dello sfidante principale, il leader repubblicano Kılıçdaroğlu.  Nella scelta operata dall’Hdp c’è realismo politico: un proprio candidato, peraltro non di nome visto che i maggiori leader sono incarcerati dal novembre 2016, non avrebbe avuto chance e avrebbe tolto voti al cosiddetto “Tavolo dei sei”, l’alleanza anti Erdoğan. Però non è detto che il gruppo filo kurdo divenga a tutti gli effetti la settima gamba di quel tavolo. La propaganda del partito di maggioranza (Akp) tale lo considera, e il presidente in persona negli interventi pubblici che iniziano a rincorrersi così ha definito l’Hdp: “E’ il settimo partner di quel tavolo”. La svolta era stata preceduta da una visita di Kılıçdaroğlu al quartier generale kurdo, che ha fatto da anticamera all’intento di sostenere il percorso presidenziale del capo repubblicano. Fra le parti sono stati intrapresi solo incontri cordiali, non c’è nulla di scritto, né il “Tavolo dei sei” ha mosso un dito per sostenere il diritto di parlamentari detenuti, come il co-presidente dell’Hdp Demirtaş, di partecipare alle elezioni. Perciò la scelta del vertice kurdo appare più un gesto tattico che una relazione in divenire. E bisognerà vedere se il suo elettorato più numeroso,  concentrato nelle province orientali, se la sentirà di appoggiare un uomo di per sé poco carismatico, chiuso nei due dogmi del proprio percorso politico ed esistenziale: essere un fervente kemalista (non a caso in famiglia l’hanno chiamato come Atatürk); appartenere alla comunità alevita, se non una setta, certamente una minoranza privilegiata rispetto ai bistrattati kurdi. Che proprio il partito repubblicano nell’ultimo quarantennio abbia perseguitato più d’ogni altro gruppo di potere turco la comunità kurda, è una memoria che si tramanda in ogni famiglia che ha avallato la repressione e l’ha subìta. 

 

Certo, nei suoi interventi pre-elettorali nient’affatto diplomatici Erdoğan dice: “L’Hdp è uguale ai terroristi del Pkk”, ma c’è una parte dell’etnìa che storicamente gli offre appoggio. In talune elezioni i voti kurdi per l’Akp sono ammontati a sei milioni. Gli analisti valutano se la frammentazione creatasi negli ultimi anni con la nascita di partiti animati da ex ministri di fiducia del presidente (Davutoğlu e Babacan) e quello della combattiva nazionalista Meral Akşener - ora appassionatamente riuniti in lega contro Erdoğan - possano ripetere l’effetto tsunami delle amministrative 2019. Allora il “sultano” dovette ingoiare lo scippo delle maggiori municipalità del Paese, fra cui la capitale e la metropoli simbolo sul Bosforo. Ma quel successo repubblicano ruotava attorno a figure alternative al vecchio capo del Chp, era motivato, ad esempio a Istanbul, dalla rivolta degli stessi elettori dell’Akp alla linea dell’accoglienza verso gli ottocentomila siriani alloggiati in città. Si trattò quasi d’una resa di conti interna. Che potrebbe ripetersi anche ora con un quadro economico seriamente compromesso, un’inflazione che si mangia il potere d’acquisto per lavoratori, ceti medi e gli stessi imprenditori a caccia di materie prime. Per tacere della sciagura del sisma che, con le cinquantamile vittime, il milione di sfollati, le tre o quattrocentomila abitazioni da ricostruire, ha messo il dito nella piaga delle carenze e delle responsabilità di edificatori senza scrupoli e di politici, in genere dell’Akp, che li hanno favoriti. Dopo il disastro sono giunte le reprimende con arresti anche copiosi, però fra i costruttori, mentre i corrotti amministratori non sembrano entrare nell’occhio del ciclone giudiziario. Eppure sulle promesse da cento miliardi di dollari necessari per la riedificazione, con contributi esteri non indifferenti, Erdoğan può rigiocarsi l’elezione che lo renderebbe immortale, più di Atatürk. A calamitare i finanziamenti delle petromonarchie per ragioni politiche, quelli europei per interessi finanziari, quelli statunitensi per tattiche militari può essere solo la sua persona. Questo pensa l’elettore che s’arrabatta se consegnargli ancora la nazione oppure toglierla dalle sue mani il fatidico 14 maggio.

lunedì 20 marzo 2023

Presidenziali turche, dialogo fra repubblicani e partito kurdo

 


Si sono incontrati, il leader repubblicano del Chp Kemal Kılıçdaroğlu candidato alla presidenza turca per  l'Alleanza Nazionale e i copresidenti del partito filo kurdo Hdp, Pervin Buldan e Mithat Sancar. Un’ora fitta di dialogo su temi definiti da entrambi i gruppi importanti. Nel relazionare ai giornalisti accorsi per ricevere impressioni il capo del Chp ha evidenziato la convergenza sull’idea di sistema giudiziario indipendente e imparziale, come a dire: la magistratura, che dopo il tentativo di golpe del 2016 ha subìto l’epurazione anti-gülenista, non garantisce un ruolo super partes. “Non accettiamo l'uso della magistratura come un bastone sulla politica” ha ribadito il politico alevita che vuole scalzare Erdoğan. E ancora: due ferite aperte nel Paese riguardano lo stato di diritto e quello sociale, il primo inficiato dall’autoritarismo del regime, l’altro messo in ginocchio dallo squilibrio della redistribuzione del reddito fra ceti sociali che la crisi economica e l’inflazione impoveriscono sempre più. Convergenze sul cambiamento climatico e nel predisporre un più cogente programma per combattere la violenza di genere “la violenza contro le donne deve finire, esse sono l’elemento più importante della società” ha sottolineato Kılıçdaroğlu. Ovviamente tutti d’accordo sul programma emergenziale di recupero rispetto al disastro del sisma, per ragioni di coscienza umana e umanitarie prima che per gestire un tassello politico presente inevitabilmente nei piani del governo uscente, che caratterizzerà la breve e intensissima campagna elettorale. Della specificità kurda il candidato repubblicano vuole investire il Parlamento: “Come tredicesimo presidente turco (Kılıçdaroğlu è ottimista per il risultato del 14 maggio, ndr) porrò fine al conflitto nel nostro Paese”.  

 

Anche Buldan e Sancar annuiscono alle dichiarazioni dell’interlocutore: “Abbiamo parlato delle aspettative della società turca e del popolo turco nei nostri confronti” e con questo rimarcano la faglia sempre presente della questione etnica che ha risvolti culturali oltre che politici. “Il motivo per cui abbiamo ospitato nella nostra sede il signor presidente consisteva  nel  dimostrare che siamo favorevoli alla soluzione democratica della questione kurda sotto l’egida del Parlamento”.Il nostro partito (Hdp, ndr) ritiene necessario un urgente programma rivolto ai settori sociali e alle strutture che hanno subito gravi danni dal terremoto. Occorre un programma immediato di riparazione. Il nuovo inizio in Turchia sarà possibile solo creando una vita e un sistema basati sulla democrazia, i diritti umani, la giustizia e la libertà”. Il giorno precedente a quest’incontro, parlando a Izmir, Kılıçdaroğlu aveva annunciato la strategia dei quattro pilastri: "Il primo pilastro è una democrazia forte, il secondo è la produzione, il terzo è una forte comprensione dello stato sociale, l'ultimo pilastro è la sostenibilità". E poi da padre della patria: "Dobbiamo creare un sistema che, indipendentemente da chi sale al potere, garantirà alla Turchia riparo da simili crisi". Crisi ed emergenze attualmente sono anche il pane distribuito dai discorsi di Erdoğan, anch’egli mobilitato, con la forza offertagli dai media di Stato e l’autorità della presidenza in corso. Ecco l’ultimo sunto: la distruzione del terremoto ammonta a oltre 100 miliardi di dollari ("non è possibile per nessun Paese combattere da solo contro un tale disastro” ha chiosato ma ha pure ringraziato l’Unione Europea e la comunità internazionale per il sostegno finora offerto e quello futuro), il numero di edifici crollati, immediatamente distrutti, gravemente danneggiati o inabitabili ha raggiunto i 300.000 edifici, e il numero di unità indipendenti è salita a 876.000 in undici province. Quindi la promessa: “Nel primo anno, prevediamo di consegnare 319.000 case su un totale di 650.000”. In contemporanea il governo continua a installare tendopoli, creare città-container e prefabbricati, dove collocare mezzo milione di persone. Per quanto tempo non viene detto. Per ora prevale l’offerta: un voto per un tetto.  

venerdì 17 marzo 2023

India, uno scontro elettorale lungo un anno

 


Si erano scrutati da vicino Rahul e Narendra, in occasione dei trascorsi insuccessi di Gandhi, corrosivi per la sua carriera politica tutta interna alle logiche familiari. Una famiglia che è di per sé una casta. Invece Modi si faceva forte di un’autopromozione scaturita dal basso: se non proprio un dalit, è un figlio della classe lavoratrice col padre micro commerciante di thè e lui che s’è fatto da sé. Eppure nella volatona elettorale partita con ampio anticipo (in India si voterà nel maggio 2024) il nuovo Rahul avrebbe pretese di rilancio sostenute dalla speranza guadagnata passo dopo passo coi quattromila chilometri di marcia dei mesi scorsi, un viaggio socio-antropologico nella pancia del Paese dal profondo sud al lontano settentrione. Se fosse ancora quello che era fino alla bruciante sconfitta del 2019 il figlio di Sonia e Rajiv non attirerebbe la vis polemica del partito di Modi, che invece interessandosi a lui mostra qualche nervo scoperto. Ultimamente il ministro della Difesa Singh, ha chiesto le scuse di Rahul per una presunta calunnia rivolta allo Stato indiano tramite i colloqui pubblici con accademici e giornalisti durante un recente viaggio nel Regno Unito. La tesi del partito al potere (Bharatiya Janata Party) è che Gandhi parlando di pericolo per “la democrazia indiana” stia subdolamente cercando un intervento straniero nella nazione-continente. Secondo alcuni commentatori internazionali il caso sembra montato ad arte per attaccare l’uomo politico in recupero di consensi interni. Gandhi ha ripetuto un concetto che sostiene da tempo: il pericolo per la democrazia indiana deriva dalla linea razzista  dell’attuale governo di Delhi e costituisce un allarme per la comunità internazionale e la democrazia mondiale. Un passo del suo intervento all’Indian Journalists Association di Londra è esplicito: “Come reagireste se la democrazia scomparisse improvvisamente in Europa? Sareste scioccati... Come reagireste se una struttura grande tre volte e mezzo l'Europa improvvisamente diventasse non democratica. Sta già accadendo. Non è qualcosa che accadrà in futuro. È già successo”. 

 

Una vera stilettata alle ambizioni del premier, al suo desiderio di triplicare il mandato e di lanciarsi nell’ultima fase della sua vita politica - Modi ha settantatré primavere - nell’empireo della leadership mondiale, in virtù anche del gigante nazionale che rappresenta. In un altro intervento il combattente Rahul ha paragonato lo schieramento paramilitare dove Modi ha militato da giovane (Rashtriya Swayamsevak Sangh) e che costituisce un alleato ideologico del Bjp, un gruppo “fascista e fondamentalista simile alla Fratellanza Musulmana”. Probabilmente quel che ferisce l’induista Modi è il secondo termine di paragone, non il primo. Ma oltre al tema delle libertà di appartenenza etnica, culto, organizzazione i temi che risulteranno cogenti nel confronto dei prossimi mesi riguardano questioni palpabili relative all’economia e le conseguenze per occupazione e inflazione reale. Prendiamo le stime offerte lo scorso anno dal governo sulla produzione di cereali (il Paese poggia sull’agricoltura ancora per il 45% del Pil): erano più che ottimistiche. Prevedevano la quota di 111 milioni di tonnellate di grano, due milioni in più rispetto al biennio terribile (2020-21) segnato da lotte contadine e pandemia, nei fatti la quota è scesa a 105 milioni di tonnellate per i picchi di calore che hanno bruciato parte dei raccolti. Per l’anno in corso le ipotesi ricalcano le precedenti, quelle reali non più le presunte. E questo vuol dire che si esporterà meno e il Pil ne risentirà. Sul fronte energetico l’India, che produce e consuma tanto carbone, circa 800 milioni di tonnellate, cercherà di aumentare la quota di 100-150 milioni di ulteriori tonnellate, con un’invasività inquinante senza pari. Su questo la maggioranza tace, seguita spesso anche dagli altri partiti, intenti come tutti a promettere lavoro, più che aria pulita. I mesi a venire mostreranno i vari piani della battaglia. Per ora ci si concentra sull’attacco alla democrazia denunciato dal Congress Party, cui la destra hindu risponde seminando la paura dell’attacco all’India.   

mercoledì 15 marzo 2023

Pakistan, Khan assediato in casa

 


"Se mi accade qualcosa, se m’imprigionano oppure mi uccidono, devi dimostrare che lotterai senza Imran Khan e non accetterai la schiavitù imposta da questi ladri". E’ il teatrale e catastrofico l’appello lanciato ieri via Twitter dall’ex primo ministro pakistano che vedeva la sua lussuosa residenza di Lahore circondata da poliziotti giunti sin lì per arrestarlo. Un ennesimo mandato per una vicenda (definita caso Toshakhana) che lo vede accusato d’aver rivenduto doni ricevuti durante il mandato di primo ministro. La vendita gli avrebbe fruttato 36 milioni di dollari. Il regolamento statale prevede che il ricevente doni può mantenerli solo dopo aver lasciato in deposito un certo importo. Khan non ha fatto nulla di tutto questo. E chi come lui ha costruito il successo elettorale denunciando la corruzione del tradizionale ceto politico interno, la condotta appare stonata. Ma l’inciampo può essere il classico pretesto – questo affermano i suoi sostenitori – per sbarazzarsi d’un premier ampiamente scomodo. Rimosso nell’aprile scorso perché sfiduciato dai  propri alleati e sostituito con un nuovo esecutivo da un esponente della Lega Musulmana-N: Shahbaz Nawaz. Da lì è partito il braccio di ferro giuridico con la magistratura che ha indagato Khan per le reiterate critiche alla nuova maggioranza passibili di censura e per attentare alla sicurezza nazionale, chiedendo ai seguaci di manifestare nelle piazze. La contrapposizione è andata avanti per mesi finché a novembre alcuni colpi di pistola feriscono Khan. E’ un attentato dal sapore d’avvertimento: più che all’eliminazione si puntava a placarne i bollenti spiriti, e più d’un analista pensa che ad armare la mano dello sparatore ci siano quei vertici militari in precedenza lusingati e a lui favorevoli, quindi accusati d’interessi personali e diventatigli ostili. Ristabilitosi da ferite non così gravi l’ex premier non ha mollato, rilanciando nuove proteste, dette pacifiche, e diventate incandescenti a seguito dell’escalation giudiziaria. Così ieri il Pakistan Tehreek-e Insaf  ha chiamato alla mobilitazione gli attivisti mentre era in corso l’operazione di polizia volta a prelevare Khan. Ne è scaturito un putiferio. I militanti sono scesi in piazza in molte località. A Lahore c’è stata guerriglia con sassaiole, lancio di lacrimogeni e cannonate d’acqua a sfinimento fino a sera, quando dal ministero dell’Interno giungeva l’ordine di ritirata con l’arresto rimandato di ventiquattr’ore. Dopo la conta di cinquantanove feriti, diciotto fra le forze di polizia, la giornata odierna s’è conclusa con una petizione dell’Alta Corte di Islamabad volta alla cancellazione del mandato d’arresto per il caso Toshakhana. E’ un passo di allentamento della tensione che però resta altissima e fa temere riprese ben più violente. 


 

martedì 14 marzo 2023

Crosetto, la guerra ibrida del Wagner Group

 


Crosetto è un cazzaro (mudak in russo), dice Prighozhin il famigerato cuoco-guerriero di Vladimir Putin, che del ministro della Difesa italiano è quasi una controfigura per pelata, età (Crosetto è più giovane d’un paio d’anni), passione per le armi, imbracciate dal pietroburghese e collocate sui mercati dal cuneese. Dunque affarismo di ritorno, tuttora in atto per il manager del ‘Gruppo Wagner’ mentre il ministro - già senior advisor per Leonardo e presidente della Federazione aziende per l’aerospazio e pure in afflato coi familiari azionista di società di consulenza per difesa e sicurezza - ha mollato ogni precedente ruolo per fiancheggiare la sua pupilla politica, diventata inquilina di Palazzo Chigi. Lo scambio di attenzioni è conseguenza dell’accusa di Crosetto a Prighozhin, che impegna da mesi i propri reparti sul fronte ucraino ma che è ben insediato anche in talune aree di crisi africana. Come il Mali, sguarnito dalla missione francese Barkhane, durata otto anni con risultati inesistenti contro i jihadisti e indigesti alla stessa giunta militare locale tanto da riportare i parà a Parigi. I ‘wagneriani’, che già scorrazzavano in Libia, li hanno rimpiazzati perché dove c’è guerra c’è speranza. E affari. E Prighozhin è un manager pragmatico e spietato. 

 

L’accusa rivoltagli dal dicastero italiano della Difesa prende le mosse dal suo spirito mercenario e dall’intento di creare crepe d’ogni sorta verso i fronti nemici, nella fattispecie lanciare dai territori africani controllati con le armi, l’arma della migrazione sull’Europa antirussa. La questione riguarderebbe i flussi dalla Libia. Ipotesi non peregrina, e Crosetto cita dossier preparati dall’Intelligence nazionale che suppongono cifre considerevoli: settecentomila disperati intenti ad assediare le coste dell’avamposto della Fortezza Europa, che sono poi i lidi italiani. Quelli dove i migranti naufragano e muoiono. Che tutto ciò accada per un disegno predisposto dall’uomo di Putin è da verificare, i report che l’Aise fornisce al governo dovrebbero risultare più concreti. I nostri 007 dovrebbero aver constatato in questi anni l’operato africano dei miliziani Wagner, in Cirenaica innanzitutto. Gli intenti risultano quelli di crearsi basi operative, prevalentemente militari, e perseguire il controllo di giacimenti petroliferi e di materie prime. Al limite rispetto alla sponda dello schieramento di riferimento (Dbeibeh o Haftar) rischiano i pozzi controllati dall’Eni. Finora non ci sono testimonianze d’un coinvolgimento del cinico uomo del presidente russo nei flussi migratori, che pur nell’affarismo della tratta coinvolgono mafie, entità e soggetti vari. Del resto le recenti trasmigrazioni nord africane hanno una provenienza maggiore dal territorio tunisino rispetto a quello libico, e sia le cause sia le tipologie di migranti sono diversi: sub sahariane e tunisine da Sfax o da località limitrofe, egiziane e mediorientali dalla Cirenaica. Gli affari di mister Prighozhin al servizio del proprio zar, non paiono rivolti al business e alla geopolitica della migrazione, ma Crosetto crede fermamente nella guerra ibrida.

giovedì 9 marzo 2023

Netanyahu, faccia di bronzo

 

Ci vuole la faccia di bronzo che sfoggia da decenni, facendo prima il playboy da strapazzo in osservanza a un compiaciuto machismo che continua a ostentare fino e oltre la sua salita in vetta a Israele per plasmarlo con un volto razzista sempre  più senza fondo. Benjamin Netanyahu, premier della sedicente unica democrazia mediorientale è ospite nell’intervista di uno dei direttori più filosionisti del panorama giornalistico italiano: Maurizio Molinari di quella Repubblica che fu di Eugenio Scalfari. Intervista d’apertura odierna, giustificata, diranno a Via Cristoforo Colombo, dall’imminente visita che Bibi s’appresta fare in Italia. Due paginone fitte con tante foto, compresa quella recente d’un compunto nostalgico Ignazio La Russa, ora seconda carica del nostro Stato, assorto con kippah d’ordinanza davanti al Muro del Pianto. Il governo della destra post-fascista attento alla cosmesi e pronto a rifarsi il trucco per ampliare i suoi favori vaga da Orbán a Morawiecki e Rutte, cercando sponde fra Al Sisi e bin Rashid e giungendo, di reazione in reazione, allo strafottente Netanyahu. Questione di feeling… Lui non si cura delle proteste che gli stessi concittadini ebrei, per cui tanto si batte producendo apartheid antiarabo, stanno inscenando da settimane temendo regressioni pericolose per la prevista “riforma” di una giustizia, che a suo dire non può essere Onnipotente. Guidando l’esecutivo più reazionario della storia d’Israele, puntellato dal voto dei Ben Gvir e Smotrich, è contestato per il mancato rispetto delle minoranze, il riferimento è la comunità Lgbtq, i palestinesi non sono affatto contemplati nelle manifestazioni di piazza. Ma tant’è. Chiunque, se vorrà potrà leggere le risposte offerte da Netanyahu, qui ci concentriamo su un concetto e un’amenità presenti nell’intervista.

 

Il primo riguarda uno degli scopi del viaggio a Roma, accanto alla joint venture sull’acquisto del gas del giacimento Leviathan che negli ultimi anni Israele s’è trovata in fondo al Mediterraneo. Si tratta del riconoscimento di Gerusalemme quale capitale del proprio Stato. Un passo compiuto da Donald Trump in faccia a tutte le dichiarazioni Onu che hanno condannato l’occupazione della città dall’epoca della ‘guerra dei sei giorni’. Una richiesta irricevibile per i membri delle Nazioni Unite che hanno votato compatti contro la proposta (favorevoli solo Guatemala, Honduras, Togo, Micronesia, Narau, Palau, Isole Marshall), convinti di respingere i reiterati crimini e le vessazioni con cui l’esercito di Tel Aviv uccide persone, espropria e distrugge case a Gerusalemme est, dove la popolazione palestinese è vissuta da generazioni, un secolo via l’altro. Per tacere degli insediamenti illegali dei coloni, aumentati a dismisura soprattutto nel corso dei vari governi Netanyahu in quell’area orientale della Città Santa, da Ma’ale Adumim a Pisgat Ze’ev. Lo sproloquio del primo Ministro ci riserva anche la citata amenità: il presunto garibaldinismo del padre del sionismo Teodoro Herzl che “vide nel Risorgimento e in Garibaldi un esempio a cui ispirarsi per l’unificazione e la liberazione di un popolo intero”. A Caprera ci sarà stato sicuramente un sommovimento tellurico: va bene che di usurpatori di sue gesta e pensieri l’eroe  dei due Mondi ne ha conosciuti parecchi durante il secolo vissuto e nel Novecento, ma questa poi. Certo Herzl s’era infiammato per l’affare Dreyfus e speso per cercare soluzioni territoriali per una nazione ebraica, dal Sudamerica all’Uganda. Che stravedesse per Garibaldi i nostri studi storici non l’avevano mai scoperto. Chissà quale documentazione Netanyahu fornirà, se la fornirà, alla patriota Giorgia per convincerla della bontà di questa tesi. Magari prossimamente il sagace Molinari ne scriverà su La Repubblica e impareremo qualcosa di nuovo su Risorgimento e Sionismo.

mercoledì 8 marzo 2023

Kabul, vita da talebano

 


Nei mesi scorsi Sabawoon Samim, studente della provincia di Zabul, ha avvicinato alcuni talebani presenti a Kabul raccogliendone le impressioni poi pubblicate dai ricercatori dell’Afghanistan Analysts Network. Ne scaturisce uno spaccato parzialmente inedito poiché anche nella presunta arretratezza dell’Emirato il miliziano cambia ruolo, diventando più impiegato che combattente. Il focoso passato è ancora vivo, ma sedimenta nei ricordi mentre il presente è fatto d’impegno amministrativo al fianco di comandanti trasformati in ministri o peggio in burocrati. Poi: studio di lingue e nozioni informatiche per quel che le attrezzature possono offrire, inurbamento, possibili trasferimenti familiari nella capitale prima temuta quindi accettata, necessità d’ulteriori guadagni sempre in funzione del mantenimento di moglie e figli. E graduale trasformazione estetica con acconciature meno ribelli, barbe più curate, addirittura uso di divise e minore ostentazioni di armi in pubblico (almeno come buon proposito). Omar padre di cinque figli, dal distretto di Paktika, dove torna appena può perché lì ha la famiglia, ha raccontato a Samim d’essere originario del Waziristan (regione pakistana che nel concetto mai morto del Pashtunistan va oltre i confini ‘imperialisti’ di Afghanistan e Pakistan). Ricorda d’avere avuto undici anni nell’ottobre 2001, quando iniziò l’Enduring Freedom statunitense. Furono quei bombardamenti indiscriminati a spingerlo verso la jihad contro gli occupanti. Ha combattuto nelle provincie di Laghman, Nangarhar, Paktia, Paktika, Ghazni prima di diventare rappresentante e poi comandante del suo gruppo. Ora è stanziale a Kabul, con un impegno lavorativo dalle otto alle sedici che non gli lascia spazio per frequentare conoscenti e compagni d’armi d’un tempo. Solo il venerdì, se non torna a casa, c’è il relax a Zazai Park, luogo di svago dei kabulioti, oppure al castello di Paghman, un posto a suo dire impossibile da trovare in tutta la provincia di Paktika. Di Kabul apprezza la relativa pulizia e il modo in cui le strutture sono state modernizzate e migliorate (sic): gli edifici, le strade, l'elettricità, la connessione internet e tanto altro. Si stupisce di trovare taxi anche a mezzanotte, apprezza la fruibilità di ospedali e scuole (magari non per le studentesse, ndr), centri educativi e madrase. Altro pregio della capitale è la sua diversità etnica. Omar incontra uzbeki, pashtun, tajiki che vivono in un edificio e vanno alla stessa moschea. Non cita gli hazara, ma magari non passa per Dasht-e-Barchi… Aggiunge che parecchi hanno un’immagine negativa di Kabul, ma lui ha visto che differentemente dai villaggi, dove molti vanno in moschea per stupire la comunità, la gente di Kabul ci si reca solo per il bene di Allah. 

 

Il più giovane (ventiquattrenne) Huzaifa, originario della provincia sudorientale di Paktia, è sposato e padre di due figli, in guerra ha ricoperto l’incarico di cecchino (…) Frequentava la madrasa dall’età di tredici anni e rivela come la famiglia abbia cercato di fargli lasciare l'Emirato. Ma nella lotta e nel gruppo lui trova amore, sincerità e sete di martirio. Durante la jihad la vita era semplice, dovevano solo pensare ai piani d’attacco e a ritirarsi. Ora è tutto più complesso: chi ha fame li ritiene responsabili dell’aggravamento delle condizioni di vita. Trasferitosi a Kabul, che ha visto per la prima volta due anni or sono, pensava di trovarla colma di malfattori, dopo mesi di permanenza ha cambiato opinione. Certo, in città vivono anche criminali, provenienti da tutto l’Afghanistan, e ha costatato frequenti casi di ferocia contro le donne. Racconta all’intervistatore che quest’ultime si approssimano alla ḥawza (letteralmente la sede della conoscenza, una sorta di seminario) per chiedere lumi sui problemi che le affliggono. Il capo della ḥawza ha insegnato a lui e ad altri mujaheddin che la Shari’a permette di parlare alle donne per orientarle e aiutarle. E’ l’unico interessamento di genere scaturito dai colloqui. Un suo prossimo passo è portare la famiglia in città, dove la gente vive a contatto di gomito ma non interagisce come nei piccoli centri. Una tendenza contraddittoria e positiva al tempo stesso: a differenza del villaggio nessuno s’interessa a ciò che fai, infastidendoti o interferendo nell’altrui vita (Ipse dixit, ndr). Kamran, 27 anni, proveniente dalla provincia di Wardak, è egualmente sposato e due volte padre. Diplomato in una scuola governativa a 19 anni ha abbandonato gli studi “Per il bene della jihad” ed è all’ottavo anno di militanza islamista. Ricorda d’aver partecipato a parecchie battaglie, proprio nella zona d’origine, Sayedabad, dove gli americani lasciavano decine di cadaveri. Negli ultimi tre anni è diventato vicecomandante e responsabile della maggior parte delle attività quotidiane. Fra le paure passate gli si ripresenta il fantasma dei droni che inseguivano il suo manipolo e lo bombardavano. Negli ultimi due anni di guerra precedenti all’estate 2021 i reparti americani e di Ghani erano scomparsi dai campi di battaglia, solo gli attacchi dal cielo potevano colpirli. Si esalta ancora perché non è più braccato, loro (i taliban) possono andare dove vogliono: sono liberi e c'è libertà in tutto il Paese per questo  loda Allah.

martedì 7 marzo 2023

Turchia elettorale, opposizione unita nell’incertezza

 

Se l’opposizione a sei turca partorisce il topolino Kılıçdaroğlu da opporre al sultano Erdoğan, quest’ultimo entra nella campagna elettorale ponendo temi da statista: "Per noi il centro dell’attenzione continua a essere il terremoto e il ripristino dei danni. Non digeriremo una campagna elettorale basata su polemiche politiche quando dieci milioni di concittadini sono tuttora piegati dal terremoto che ha distrutto una parte del Paese" ha dichiarato alla stampa mentre si diffondeva la notizia della candidatura alternativa del segretario del primo partito d’opposizione. L’accordo sul suo nome che tre giorni fa aveva visto il diniego della leader dell’İyi Parti, propensa a una candidatura da scegliere fra i primi cittadini, sempre repubblicani, di Istanbul e Ankara, è giunta per una retromarcia della stessa Akşener. Tornata a dialogare con gli altri cinque alleati del Tavolo, qualora Kılıçdaroğlu venisse eletto, ha spuntato la vicepresidenza della Repubblica per i sindaci İmamoğlu o Yavaş. Gli alleati sorridono soddisfatti, ma l’unità ritrovata avrà bisogno di verifiche perché composta da anime assai diverse. Due partiti (Deva e Future Parti) sono retti da ex strettissimi collaboratori di Erdoğan che non sono ben visti da una buona fetta dell’elettorato kemalista. Per mettere alle strette il partito-regime l’opposizione dovrebbe non solo collaborare, ma aver pianificato un progetto per un Paese esposto a una dura crisi economica. Colpito da una pesantissima inflazione, attualmente una lira turca vale cinque centesimi di euro,  anche i generi di prima necessità diventano meno accessibili per strati sociali che con la disoccupazione sono entrati nella fascia di povertà. Certo, approvvigionamenti alimentari ed energetici non mancano, la Turchia non è l’Egitto né la Tunisia, proprio in virtù del forte peso internazionale raggiunto in base alla pur rischiosa politica estera del Capo di Stato.  

 

Apprezzata non solo da Mosca o Pechino, riavvicinati col ripristino d’una tarda ‘Guerra Fredda’ che le contrapposizioni sulla questione ucraina ha creato con Washington, ma necessaria agli stessi Stati Uniti che, rilanciando la centralità della Nato, non possono rinunciare al maggiore esercito di punta nel Mediterraneo rappresentato appunto dai soldati di Ankara. Per tacere di quanto l’Unione Europea conti su scelte e proposte dell’attuale presidente turco. La questione migrazione, spina nel fianco dell’Unione per le ritrosie e le chiusure dei governi razzisti del blocco di Visegrád, ha trovato nella linea erdoğaniana una soluzione alle proprie contraddizioni. Se a Bruxelles si parla di diritti umani non è detto che in cuor proprio tanti deputati europei sperino che l’unico sisma turco resti quello terrestre, poiché uno sconquasso politico introdurrebbe parecchie incognite. Qualora dovesse prevalere alle urne il “Tavolo dei sei” avrebbe davanti non solo il gigantesco compito della ricostruzione post terremoto (ieri è stato aggiornato il numero delle vittime salito a 46.000), ma dovrebbe ricentrare il suo ruolo geopolitico regionale e nei rapporti con la Ue. All’interno, poi, i diversi orientamenti possono sbizzarrirsi in aperture o chiusure. Le prime, importanti perché coinvolgono un elettorato da 10% o giù di lì, riguarda la minoranza kurda che ha lanciato un apprezzamento non indifferente al neo nominato Kılıçdaroğlu. Il Partito Democratico dei Popoli (Hdp) annuncia di rinunciare a un proprio candidato alle presidenziali e di appoggiare il leader repubblicano se quest’ultimo visiterà la loro sede. Un passo che l’alevita Kılıçdaroğlu farà o forse no. I kemalisti duri e puri che albergano anche nelle sue fila non solo fra i “Lupi grigi” del Mhp, l’alleato governativo dell’Akp, non apprezzerebbero il gesto. E la coperta elettorale per l’opposizione si fa corta. Nonostante le sanguinanti ferite del cataclisma, l’aria pesante continua a circolare nel Paese e non riguarda solo gli stadi. Quanto accaduto in quello di Bursa, dove la tifoseria del Bursapor, terza serie del campionato calcistico, hanno aggredito i giocatori ospiti dell’Amedspor, la squadra kurda di Diyarbakır, è sintomatico d’una spaccatura difficile da ricomporre con le elezioni.