C’è
un motivo per il quale alle presidenziali turche Recep Tayyip
Erdoğan ha più possibilità di farcela rispetto a Kılıçdaroğlu, il
candidato del ‘Tavolo dei sei’, com’è denominata la cordata dei suoi oppositori.
La risposta sta nella scapestrata incoerenza della sua politica fatta di colpi
a effetto, retromarce, rilanci, giri di valzer, trasformismi che impongono
sussulti e mal di testa anche ai più fedeli seguaci. Eppure quel che risulta
apparentemente folle appartiene ai comportamenti storici di certi cosiddetti
cavalli di razza della politica. Nel caso di Erdoğan, che di azzardi è campione
mondiale, da un ventennio i fatti gli han dato ragione. Certo, si tratta della
ragione del potere, della sua conservazione che è per antonomasia difficile in
un mondo che corre veloce, ma proprio i cambi di marcia, di registro, di
schieramento sembrano cementare questo percorso a ostacoli. Il leader d’un modello
che è stato definito ‘islam moderato’ sviluppatosi in una fase in cui l’islamismo
iniziava a preoccupare seriamente l’Occidente - sia quando assumeva i connotati
della scalata parlamentare nell’Algeria anni Novanta, poi con le piazze delle primavere
tunisina ed egiziana, ancor più nella fase montante del sanguinario Califfato
dello Stato Islamico più preoccupante del terrorismo di Qaeda – pensato come mediatore
capace d’intervenire sulla contrapposizione fra sistemi, costituiva un
tranquillizzante per le fibrillazioni dell’ex colonialismo europeo incapace di
trovare soluzioni geopolitiche fuori dalle strettoie militariste della Nato
conosciute in Libia e Iraq. Avere nell’Alleanza Atlantica la Turchia e il suo
uomo forte sedava le ansie anche quando lui tuonava su questioni mediorientali (sostegno
ai palestinesi, governi della Fratellanza Musulmana). Nello sfascio siriano la
linea di Erdoğan è passata dal supporto, malamente celato, alle fazioni del
fondamentalismo anti Asad, a stabilire con lui un accordo contro l’autonomia
del Rojava kurdo che entrambi vedono come fumo negli occhi del proprio potere. Quindi
verso i profughi siriani, che undici anni di conflitto fanno ammontare a sette
milioni, la metà se l’è presa in casa, pur affittando quella permanenza a una
compiacente Unione Europea.
Si può proseguire su un terreno di scelte interne ed estere variegate e contraddittorie dalle quali linea e personaggio escono indenni, continuando a restare al centro della geopolitica mondiale. Il capo del partito repubblicano, che il 14 maggio lo sfida per la presidenza, sarebbe riuscito a fare altrettanto? Nessuno può dirlo, perché le congetture esulano dalla politica reale. Però il laicismo appartenente alla tradizione kemalista, gli avrebbe consentito minori rapporti e scarse relazioni con l’arabismo islamico con cui negli ultimi tempi il leader dell’Akp s’è conciliato dopo gli screzi passati. Opportunisticamente o furbescamente ha lasciato cadere la polemica sulla sanguinaria eliminazione di Khashoggi che lo opponeva a bin Salman, ha riallacciato un’intesa con l’emiro bin Zayed dopo quasi un decennio di critiche alla sua politica ostile alle rivendicazioni nelle società arabe. Sia per la difficile fase finanziaria turca, sia per la vicenda della ricostruzione post terremoto i buoni uffici e i petrodollari dei potentissimi dignitari dei due Paesi del Golfo possono tornare utili alla Turchia e a Erdoğan che vuol continuare a guidarla. Al cospetto dell’altro solventissimo emiro del Qatar, bin Hamad al-Thani, nel ruolo di arbitro il presidente turco ha compiuto il gesto che s’era negato sino al 2019. Diceva: "Mi rifiuto d’incontrare una persona antidemocratica come al Sisi che ha condannato Morsi e i suoi amici in prigione”. Invece il tempo fa i suoi percorsi e la politica pure, così in occasione dei Mondiali di calcio dello scorso novembre a Doha, l’incontro è avvenuto con tanto di strette di mano, sorrisi e possibilità di nuovi scenari nel Mediterraneo orientale che tanto interessa alla nazione turca. Lì l’Egitto di al Sisi nell’ultimi triennio ha favorito gli interessi di Grecia e Cipro riguardo alle Zone Economiche Esclusive, sulle quali insiste l’affare dello sfruttamento dei giacimenti di gas. Per tacere della situazione libica dove il Cairo ha appoggiato le mire russe a sostegno del generale Haftar, mentre Ankara si rapportava al pur claudicante Governo di Accordo Nazionale. Ultimamente i ministri degli Esteri Cavusoglu e Shoukry si sono incontrati nella capitale egiziana, impostando un dialogo che potrebbe mutare posizioni sul fronte delle questioni citate. E questo rientra pienamente nella campagna elettorale del presidente uscente.
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