martedì 26 settembre 2023

Dal Nagorno Karabakh all’Armenia, il viaggio dell’addio

 


In coda a recuperare benzina e viaggiare verso ovest, riparando nella madrepatria, rinunciando all’accordo che la stessa Armenia ha stipulato con l’Azerbaijan dopo il lampo armato dello scorso 19 settembre. In coda alcune famiglie armene del Nagorno sono finite in un rogo scoppiato presso un magazzino dove si distribuiva carburante: venti vittime, centinaia di feriti. Le autorità azere dell’area, da loro chiamata Khankendi, hanno disposto il ricovero in ospedale degli ustionati, ma la maggior parte ha rifiutato. Non si fidano, davanti a una realtà difficile che per nove mesi ha toccato il fondo col blocco di cibo e medicinali da parte dei soldati di Baku, cui la politica di Erevan ha risposto con l’accusa d’una pulizia etnica nella regione. Di fatto la pulizia la sta creando l’abbandono del Nagorno compiuta da profughi volontari: 4.000 sono già entrati in Armenia, altri 14.000 sono in fila alla frontiera. Partono perché non vedono futuro nell’autonomia regionale, dopo che per trent’anni hanno vissuto nell’illusione d’un proprio Stato, la Repubblica dell’Artsakh, nata e congelata dai conflitti del 1992 e del 2020. L’Armenia continua a lamentarsi sulla sorte dei fratelli del Nagorno, ma nessuno se ne prende cura. Certamente non l’antico protettore Putin né il recente amico Biden, impegnati a scontrarsi sul fronte ucraino.  La restante diplomazia - franco-tedesca - che tiene i contatti coi contendenti, li incontra oggi a Bruxelles per preparare un ulteriore colloquio da tenere a Granada. In realtà i contatti fra governi armeno e azero non mancano, i due fronti hanno anche deciso il controllo azero sulla regione, dove la cittadinanza armena può vivere e godere dei propri diritti, a cominciare dalla sicurezza. Eppure i rappresentanti karabaki osteggiano tale soluzione, buona parte della popolazione nutre timori e un 10% sta prendendo la via dell’esilio forzato.

 

Chi si è mosso nella vetrina internazionale è il solito Erdoğan, che in verità fino a questo momento aveva tenuto un basso profilo. Ha incontrato nell’exclave di Naxçıvan l’omologo azero Aliyev per discutere di rapporti bilaterali e delle questioni regionali ovviamente legate all’ultima crisi del Nagorno. Durante la visita nella regione, Erdoğan ha inaugurato un nuovo gasdotto, la cui costruzione era stata concordata nel 2020 da Turchia e Azerbaijan nell'ambito d’un memorandum d'intesa. Il gasdotto lungo 85 chilometri si estenderà dalla turca Iğdır all’azera Sederek e avrà una capacità annua di 500 milioni di metri cubi. Il progetto è uno sforzo congiunto della società di commercio di petrolio greggio e gas naturale BOTAŞ e della compagnia petrolifera statale SOCAR. I due leader hanno anche discusso l'apertura del corridoio Zangezur verso l'Azerbaijan, che mira a collegare Naxçıvan con la terraferma, attraverso l’utilizzo delle reti ferroviarie e autostradali turche. Il governo di Baku ha pianificato di mettere in funzione la sezione azera del corridoio entro l’anno prossimo. Da parte sua l'Armenia s’è impegnata a garantire la sicurezza dei collegamenti di trasporto fra le regioni occidentali dell'Azerbaijan e Naxçıvan così da facilitare la circolazione di cittadini, veicoli e merci in entrambe le direzioni. Erevan resta, però, contraria al lancio del corridoio e non ha preso misure concrete per ripristinare il tratto di passaggio verso l’exclave che le compete. Di fatto, comunque, il realismo politico si pone davanti a una ricerca di comprensione e collaborazione, infiammare il Caucaso non interessa a nessuno. E probabilmente anche chi si sta misurando con le armi sul suolo ucraino, vuol tenere l’area di petrolio e gas del Caspio fuori da confronti armati, e far scorrere gli idrocarburi per i rifornimenti invernali. In Europa e altrove.

giovedì 21 settembre 2023

Francia-Egitto, lo sporco gioco dei Servizi e l’intimidazione dell’informazione

 


Non potendo prendersela coi suggeritori occulti - la fonte dei cosiddetti Egypt papers, ultimo, penultimo o terz’ultimo capitolo delle notizie segretissime desegretate per mano di ‘informatori’ - gli agenti della Direzione generali dei servizi interni francesi hanno assediato Arianne Lavrilleux, la giornalista che aveva firmato un lavoro collettivo d’inchiesta pubblicato dalla testata investigativa Disclose.  Un’inchiesta ‘vecchia’ di due anni che aveva svelato e denunciato i contorni oscuri dell’operazione Sirli, intreccio affaristico d’Intelligence fra Egitto e Francia con presunte finalità antiterroristiche avvenuta nel 2016.

( vedi inchiesta  https://egypt-papers.disclose.ngo/en/ )

Così Lavrilleux s’è ritrovata l’abitazione di Marsiglia stipata di agenti che l’hanno bloccata e interrogata un giorno intero chiedendole quel che un cronista deontologicamente non può fare: rivelare la fonte della documentazione ottenuta. Tutto avviene con estremo ritardo, come detto l’inchiesta è del 2021, e non crediamo proprio che la reazione poliziesca sia stata rallentata da questioni di pandemia. Dunque? Se non si tratta d’un anticipato volatone securitario a favore di un’opinione pubblica sempre più conservatrice affacciata alle europee, visto che le presidenziali di Francia sono lontane un quadriennio sebbene i sondaggi sorridano a Marie Le Pen, l’aria coercitiva mossa dal presidente Macron è il comune denominatore con cui moderati centristi ed estrema destra s’inseguano, in vari casi col contributo dei sedicenti progressisti. Accade in tutto il vecchio continente.  

 


Dunque è l’aria coercitiva che gira su se stessa e tende a orientare l’opinione pubblica con alibi giustificativi ipernazionali: barriera al terrorismo, sicurezza patria, difesa d’identità e valori col reale intento di limitare e bloccare la controinformazione Quella che dribbla le verità ufficiali cercando altre verità tenute nascoste per ragion di Stato. Proprio quest’ultima ha accompagnato l’operazione poliziesca contro la collaboratrice di Disclose, rea di avere raccolto, selezionato, riassunto centinaia di documenti ottenuti dalla presidenza dell’Eliseo (all’epoca retto dal socialista Hollande), dal Ministero della Difesa e dalla Communauté française de renseignement. Quei documenti evidenziano che la collaborazione fra l’Egitto del generale Al-Sisi e la Francia repubblicana, oltre alla già nota fornitura più o meno miliardaria di aerei da caccia e fregate d’assalto, consisteva in operazioni segrete da effettuarsi nel Sahel contro le formazioni jihadiste locali. Però Il Cairo spostò sui confini libici almeno una ventina di questi attacchi, indirizzandoli contro i commerci più o meno leciti compiuti da carovane beduine, colpendo insomma gente comune. 

Gli “Egypt papers” dicono anche altro: il sistema repressivo di Al Sisi, quello che in contemporanea, siamo nel 2016, si sfuriò anche sul corpo di Giulio Regeni, non era organizzato tutto in proprio. Grazie al partenariato con Agenzie amiche dei Paesi del vecchio continente, i mukhabarat del Cairo potevano spiare i connazionali all’estero e in casa. E dunque, il governo del socialista Hollande aiutò le smanie repressive del generale-presidente, gli fornì suggerimenti e supporti tecnici per l’ampliamento del lager-carcerario, che vede tuttora detenuti sessantamila cittadini e scomparsi quasi una decina di migliaia, per piazzare i propri Rafale sulle piste del grande Paese arabo. Alla faccia de la liberté, che il successore all’Eliseo, ormai inquilino dal 2017, ama a suo modo, sicuramente non a favore dell’informazione alternativa all’ufficialità di ministeri e Servizi. Se in quei Palazzi normalmente si trama (pensiamo alla strage di Ustica del 1980), ma si trama pure a sfavore di chi governa la nazione – la manina che ha dispensato le carte a Disclose non è quella di Arianne Lavrilleux che al più le ha raccolte, selezionate, divulgate -  qual è lo scopo dell’accanimento contro chi mette il proprio lavoro al servizio dei cittadini?

mercoledì 20 settembre 2023

Nagorno Karabakh si rispara

 


Forse per risvegliarla hanno atteso che la diplomazia mondiale, con in prima fila i leader occidentali che la orientano, avviasse l’assise annuale al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite per far brillare mine e spararsi addosso granate nel “giardino nero montuoso“ chiamato Artsakh dagli armeni, Qarabag dagli azeri, al secolo Nagorno-Karabakh. L’area assegnata all’Azerbaijan, con una maggioranza di popolazione armena autorganizzata in Repubblica autonoma e non riconosciuta quasi da nessun Paese, dove ci si fronteggia e si guerreggia ormai da trent’anni. I due conflitti, consumati nel 1992 e nel 2020 - fra gli eserciti armeno e autonomista karabako schierati su un fronte e azero organizzato sull’altro - hanno solo sommato morti, feriti, profughi senza accontentare nessuno. La diplomazia mondiale che siede all’Onu poco o nulla s’è interessata alla diatriba, lasciando che i ‘tutori’ locali, la Russia a favore degli armeni, la Turchia a sostegno degli azeri, gestissero la situazione di pace armata. Non è stato così. Soprattutto le truppe di Mosca che dovevano frapporsi ai contendenti e proporsi ‘portatori di pace’ hanno disatteso il ruolo, anche perché il fronte ucraino ha attirato le loro attenzioni, forze e munizioni. L’esempio eclatante del disinteresse russo, ma pure internazionale, si chiama corridoio di Laçin. E’ una lingua di territorio su cui si srotola una manciata di chilometri di autostrada ed era, sino al conflitto del 2020, il cordone ombelicale fra l’Armenia e l’autoproclamata Repubblica di Artsackh. Su quel passaggio dovevano vigilare i soldati russi che dal dicembre 2022 se ne sono andati. Così, senza colpo ferire, le truppe azere si sono impossessate del check-point dal quale passa tutta la merce che viaggia verso il Nagorno: alimenti, vestiario, medicine, possibili armamenti. Gli azeri sostengono di voler impedire il passaggio di quest’ultime, di fatto da nove mesi impediscono il transito d’ogni cosa tanto da ridurre alla fame la cittadinanza karabaka.

 

A luglio la diplomazia, stavolta europea, aveva messo di fronte i leader delle nazioni in contrasto, l’azero Aliyev e l’armeno Pashinyan, che obtorto collo trovavano una via d’uscita, consistente nel riconoscere l’integrità territoriale dell’Azerbaijan, compresa la lingua di Laçin, in cambio della riapertura del traffico stradale. Invece le autorità karabake hanno smentito i propri mentori, dicendo no a qualsiasi trattativa. A Erevan ci sono fazioni che contestano la gestione dell’attuale premier (ieri si sono registrati scontri fra manifestanti e polizia) e c’è anche chi propone la ricostituzione di quei gruppi paramilitari, già attivi tre anni or sono. Insomma il timore del precipitare della drammatica situazione in una crisi addirittura armata esisteva da settimane. Le deflagrazioni dell’inizio settimana con quattro poliziotti azeri uccisi e il bombardamento di ieri, che ha fatto ventisette vittime fra i civili karabaki, sembrano la materializzazione della crisi. Dopo le esplosioni si risvegliano tutti: la Russia (udite) che chiede un repentino cessate il fuoco, Stati Uniti e Francia anch’esse accusatrici di Baku dell’ennesima destabilizzazione dell’area, il pacioso segretario generale Onu Guterres che invita a una descalation e al più rigoroso rispetto del cessate il fuoco 2020 e dei princìpi del diritto umanitario internazionale (sic). Ordinaria amministrazione della burocrazia diplomatica, perché del territorio in questione non interessa né al mondo, né ai suoi rappresentanti. Le parti in causa fanno della regione una ragione di bandiera, ma sopra e sotto il ‘giardino montuoso’ non ci sono tesori, gli abitanti sono poco più di centomila e sfollano sempre più. La loro sfortuna è quella di non rientrare fra le comunità per le quali la diplomazia che conta trova soluzioni, come accadde con l’invenzione del Kosovo-nazione, in quel caso funzionale agli interessi Nato nell’area balcanica.     

venerdì 15 settembre 2023

L’induismo che svezza l’odio

 


"Svegliare" il popolo indiano, dicono nel loro programma, col sostegno del governo e il sorriso del premier Modi, indaffarato nella mega geopolitica, per quanto questa sia lo specchio di quanto ha già fatto e quanto vuol fare in India e dell’India, anzi del Bharat. Sono i ragazzotti, le forze nuove dell’induismo militante, fanatico, razzista, fascista riunito nelle file del Bajrang Dal, ala giovanile del Vishva Hindu Parishad, uno dei vari raggruppamenti hindu che alla fondazione, quasi sessant’anni fa, non si mostrava fra i più esasperati. Il partito diceva di voler consolidare la tradizione hindu fra feste, celebrazioni e ricette culinarie (sic), ma gli intenti si rivelarono diversi. La struttura giovanile di Vhp, sorta nel 1984, immediatamente ha subìto il fascino delle anime nere dell’hindutva, la teoria razzista di Vinayak Damodar Savarkar in voga nei primi anni del Novecento e sopravvissuta allo stesso creatore. Dunque s’è spinta a organizzare campi d’addestramento e parate militanti più che liturgie. Solo quando queste esaltavano il culto hindu in contrapposizione ad altri esistenti, magari non primigeni ma radicati secolarmente nella cultura del Paese, gli attivisti di casa Bajrang Dal si sentivano a proprio agio. Sfilavano ruotando mazze e bastoni non solo a scopo dimostrativo. Non era trascorso un decennio dalla nascita che l’ala giovanile venne messa fuorilegge per aver partecipato, assieme a gruppi paramilitari hindu del Rashtriya Swayamsevak Sang, alla distruzione del Babri Masjid nella municipalità Ayodhya nell’Uttar Pradesh. Fu questa una delle azioni eclatanti d’un fondamentalismo che in trent’anni è cresciuto anche per la tendenza a ‘lasciar correre’ messa in atto dagli organi di prevenzione e giustizia. Nel 1993, un anno dopo quella distruzione che costò la vita a duemila musulmani indiani, Bajrang Dal si rivedeva ammesso nell’agone politico, che il gruppo intendeva con funzioni crescentemente pugnaci. 

 

In alcune aree, come il Gujurat (non a caso lo Stato dove Modi è esploso politicamente), che costituiscono una roccaforte del gruppo, gli attivisti di Bajrang Dal autorganizzati in una sorta di “polizia territoriale” lanciano iniziative illegali costellate di azioni violente: assalti ad abitazioni musulmane, distruzioni delle loro rivendite, divieto di commercio di cibo halal, fino a espliciti crimini con sequestri e uccisioni di nemici di fede, islamici e cattolici. Negli ultimi tempi la stampa internazionale s’era occupata della persecuzione rivolta alle coppie che si baciano in strada o manifestano pubblicamente il reciproco affetto. In base alla teoria che “simili gesti sono in contrasto con la cultura indiana” chi lo fa viene aggredito dai controllori Bajrang Dal e denudato. La Corte Suprema s’è pronunciata, sentenziando che: baciare in pubblico non è un reato penale. Però i moralizzatori hindu proseguono indisturbati le ronde. La diffusione di operazioni discriminatorie, come il Citizenship amendament act in vigore dal dicembre 2019, con cui l’India impedisce solo a migranti di religione musulmana una possibilità d’accoglienza, costituisce un’istituzionalizzazione della persecuzione su base ideologico-confessionale. E mentre nulla o quasi viene fatto nei confronti di video e programmi televisivi che invitano all’uso delle armi per difendersi dal Jihad che può insidiare la quotidianità, gli obiettivi mostrati non sono gruppi fondamentalisti islamici, che pure esistono, ma direttamente la cittadinanza pacifica della porta accanto che prega Allah o quei bambini che condividono la classe coi propri figli. Più d’un pedagogo si mostra profondamente preoccupato per la diffusione delle armi fra i ragazzi, finora prevalentemente armi improprie o spade, ma l’escalation di violenze parla di armi da fuoco. Accanto a simili convinzioni a ricorrere alle armi, c’è da parte d’un numero crescente di genitori e insegnanti la tendenza a odiare anziché accettare, confrontarsi, comprendere chi è diverso ed esprime altri pensieri. Un noto professore universitario di Delhi lancia il grido d’allarme: ”una generazione di bambini hindu viene trasformata in criminali inconsapevoli”. 

lunedì 11 settembre 2023

India contro Bharat

 

Si chiama India, acronimo di Indian National Developmental Inclusive Alliance, e potrebbe diventare l’incubo di Narendra Modi e del Bharatiya Janata Party alle prossime elezioni politiche di primavera. E’ un’alleanza, ampia, anche troppo ampia, che riunisce da quest’estate ventisei gruppi d’opposizione, intenzionati a scalzare lo strapotere del Bjp sulle urne e sulla nazione che il partito hindu vuole chiamare Bharat. Il cartello s’è riunito per la fondazione a Patna, nel Bihar, nello scorso giugno. Un secondo appuntamento c’è stato nel Karnakta, sotto la supervisione di Sonja Gandhi, e ha deciso la formazione ufficiale. Quindi pochi giorni fa, mentre a Delhi fervevano i preparativi per il G20, i rappresentanti di India s’incontravano a Mumbai, ancora con Sonja e Raoul Gandhi, più il presidente di Shiv Sena, Uddahav Trackeray. Stilavano i punti base per coordinare una comune campagna elettorale comune, su cui c’è ancora tanto da capire. L’idea dell’unione è dirompente, visto che i contendenti s’accingono a confrontarsi con un peso massimo (nella consultazione del 2019 il Bjp superò di 100 milioni di voti il Partito del Congresso giunto secondo). Ma l’antica idea che l’unione fa la forza, deve fare i conti con la possibilità che la ‘macchina da guerra’ predisposta regga all’impatto, visto che l’eterogeneità e la varietà dei gruppi è amplissima. Il partito dei Gandhi ha avuto, anche in anni recenti, un’ampia emorragia di consensi per il modo untuoso e affaristico con cui il clan familiare gestiva il potere. Il bagno di folla compiuto nei mesi scorsi da Raoul con la marcia attraverso gli Stati della Federazione indiana (Bharat Jodo Yatra) ha rappresentato un tentativo di avvicinamento a umori, afrori, passioni, bisogni, desideri del popolo minuto e delle caste. Comunque la volontà sociale del ceto politico del Congresso, non può essere la visione propugnata da taluni partiti comunisti che aderiscono al cartello. Ce n’è più d’uno. Taluni governano o hanno governato degli Stati, come nel Kerala lo storico Communist Party of India, che ha quasi un secolo di vita.

 

Inoltre formazioni che hanno poco più d’un decennio di vita, come Aam Aadmi Party di Arvind Kejriwal tuttora primo ministro nel governo locale di Delhi, sono frutto delle massicce manifestazioni anti-corruzione del 2011, rivolte contro quel ceto dirigente cui la famiglia Gandhi appartiene (magari non direttamente Raoul ma mamma Sonia sì). Ecco l’ennesima contraddizione. Insomma i nodi sono vari e per poter convincere l’elettorato della bontà d’una coalizione che vuole (vorrebbe) ricondurre i rapporti interni sui binari di quella convivenza azzerata dall’esasperazione fondamentalista di settori del partito di governo, gli oppositori dovranno mediare e tollerarsi a vicenda. La scommessa è riuscire a farlo. Perché avvicinare il socialisteggiante Ashish Yadav di Samawadi Party al sulfureo esponente di Shiv Sena, Sanjay Raut, che non diversamente da tanti estremisti hindu lancia frecciate, non solo verbali, sui cittadini islamici chiedendone l’esclusione dal voto (sic) “I musulmani vengono usati come banche di voto, per questo è giusto che quel diritto venga allontanata” (sic) non si sarà impresa improba. Magari Raut si sarà ravveduto, magari no. In realtà il suo partito si sostiene sul pilastro ideologico della razzistica hindutva, né più né meno che il Bharatiya Janata Party, con cui peraltro ha cooperato per un periodo, prima d’un divorzio politico dettato da interessi di potere, non da divergenze ideologiche. E aderire al listone d’opposizione da parte di Uddhav Thackeray, figlio di Bal Keshav il fondatore cinquant’anni fa di Shiv Sena, può essere finalizzato a uscire dall’isolamento al quale la politica del Bjp ha costretto voci minoritarie dell’induismo organizzato. A chi osserva dall’esterno appare strano che un’elezione, per quanto strategica sia, faccia avvicinare le strategie anticomuniste di Shiv Sena con gli attuali progetti del Partito Comunista dell’India. Gli annali raccontano che decenni addietro nell’area di Mumbai Shiv Sena scippò ai comunisti il controllo dei sindacati dell’industria tessile presente sul territorio. Ma le giravolte del clan Thackeray (anche costoro in fondo hanno stabilito un controllo familiare sul partito) sono state varie, e da rivali di comunisti e del Congresso oggi si propongono sodali. Come fanno quest’ultimi ad accettarne la compagnìa è il mistero che, forse, si spiega solo con l’anti “modismo”. 




domenica 10 settembre 2023

G20 - Modi dal trionfo del Bharat all’incognita elettorale

 


Impegnato a fondo come padrone di casa per la riuscita d’un G20 diventato G18 per l’assenza di due pesi massimi della geopolitica: Putin, su cui pende un mandato di cattura della Corte Penale dell’Aja, e Xi Jinping, confinante riottoso verso la grande India, il padrone di casa Narendra Modi può ritenersi soddisfatto. La passerella globale organizzata a Delhi s’è svolta senza intoppi. Il Paese che vuol giganteggiare ha lucidato tutto il possibile, ha celato l’impossibile, ha brillato nell’accoglienza, meno per il valore del summit che appariva claudicante alla notizia dall’assenza dei due leader del fronte opposto all’Occidente. A conclusione del vertice sono proprio gli assenti a valutare con un mezzo sorriso il documento finale, che non condanna la Russia per l’aggressione all’Ucraina, cosa che fa imbestialire il ministro degli Esteri di Kiev, per il quale, differentemente da un anno fa, non è stato previsto neppure uno strapuntino. Kuleba, e il suo capo Zelensky, saranno accontentati incamerando ulteriori armamenti: a breve gli Stati Uniti gli recapiteranno nuovi missili con una gittata di 300 km per rilanciare la spinta offensiva nella possibile riconquista del Donbass. Mah… Modi, che ha sorriso e stretto le mani di tutti i presenti, grandi e presunti tali, era di fatto concentrato su un altro fronte, tutto interno, nazionale e nazionalista: dare l’abbrivio alle elezioni che fra meno di un anno attendono il suo Paese e lui stesso che ambisce al terzo mandato da premier. Il richiamo agli elettori l’ha esplicitato dando fondo all’ennesimo segnale identitario. Ha ufficializzato anche ai membri ospitati e alla stampa internazionale il ‘nuovo’ antico nome della casa-madre:  non chiamateci più India, denominazione coloniale, ma Bharat in lingua hindi o Bharata, secondo la dicitura in sanscrito. Un particolare non tanto etimologico, bensì di sostanza politica, quella che il partito di maggioranza (Bharatiya Janata Party) rivolge al miliardo di hindu con l’orgoglio di chi da tempo si batte per un’identificazione incentrata sulla fede. Eppure c’è chi sta facendo le pulci ai santoni del Bjp, e dice: la carta hindu perde colpi o meglio comincia a non funzionare più l’equazione Bjp-partito degli hindu. 

 

Nonostante tutti gli sforzi compiuti da ministri del governo centrale, presidenti di quelli locali ed esponenti del partito arancione che hanno lanciato campagne identitarie, anche violente, contro le religioni minoritarie, per un’India, pardon per Bharat, nazione esclusiva di hindi e hindu. Quando nel 2014 Modi assumeva il primo incarico da premier, accaparrando 336 seggi nella Lok Sabha, la linea identitaria hindu che lui e il suo partito propugnavano riguardava la conquista di benefici economici per il Paese e per i singoli cittadini. Un riscatto collettivo, per una salita nella scala delle potenze mondiali. La propaganda e la retorica colpivano quelle certezze dell’occidentalismo che nella memoria interna facevano rima con colonialismo. Accadeva un decennio fa, non all’epoca di Gandhi, e l’India ovviamente seguiva da tempo la via capitalistica dei mercati.  Ma l’onda di voler distinguersi da chi, come il Partito del Congresso, aveva governato a lungo con logiche spesso subordinate a potenze straniere, faceva affacciare la nazione-continente all’alleanza dei Brics, cui tiene tuttora.  Modi era apprezzato per origini umili, spirito di sacrificio, altruismo, attenzione alla gente, valori che non ha disperso totalmente; però ha inquinato la scena pubblica intossicandola o accettando che la linea del partito, di per sé conservatrice, s’intossicasse con l’hindutva, che nel Bharat cova l’origine dell’odio. Eccolo, senza maschera, il passaggio razzista, fascista, violento che nel suo secondo quinquennio di governo ha rilanciato lo scontro confessional-fondamentalista con frange islamiste. Un dejà-vu già sviluppatosi in altre epoche quando il Bjp non esisteva o era ancora minoritario. Ma gli attivisti arancioni hanno imitato la foga paramilitare delle squadracce del Rashtriya Swayamsevak Sangh, e protetti dalle forze dell’ordine hanno esaltato la propria identità bruciando le chiese dove i cattolici pregano e le case dove abitano. Perciò, sostengono alcuni politologi indiani, fra fasce di fedeli hindu che vogliono vivere e lavorare in pace c’è un ripensamento. Costoro continueranno a credere nell’identità hindu, ma potranno fare a meno di Modi, se serve del Bjp.


 

martedì 29 agosto 2023

Pakistan, la vita politica sospesa

 



Rinviata, contestata, battagliata, ambiguamente sospesa e definitivamente lanciata venti giorni fa dal presidente Alvi, la corsa elettorale pakistana, che porta alle urne uno dei Paesi dove alberga l’islamismo fondamentalista globale, potrebbe veder correre anche l’ex presidente Imran Khan. Lui è attualmente in stato di fermo, ma da ieri la condanna che lo esclude per tre anni dalla vita politica è sospesa e i suoi sostenitori ne attendono la liberazione. Accanto a quel che appare come un ribaltone senza esclusione di colpi legali, cui partecipano severi pubblici ministeri per l’accusa e lucrosi avvocati in sua difesa, il leader dei Tehreek-e Insaf Pakistan va a riproporre un braccio di ferro politico già conosciuto. Una campagna anti casta che fa leva sui ceti meno abbienti contro i due blocchi storici dei partiti familiari: il Partito Popolare dei Bhutto e la Lega Musulmana-N degli Sharif, attualmente al governo con Shehbaz. Certo, nei quattro anni da premier Khan ha parzialmente offuscato l’immagine da contestatore della vecchia politica nazionale.  Le accuse rivoltegli di mancanza di trasparenza attorno ai regali non dichiarati in qualità di premier sembrano un cavillo, eppure per il popolino diventano la cartina al tornasole di chi predica bene e razzola male. Però l’accanimento con cui giudici, polizia, finanche agenti speciali hanno in varie occasioni attentato alla libertà dell’ex premier con arresti anche illegali, hanno sviluppato nei suoi confronti una solidarietà militante pari solo a quella che contorna Erdoğan oppure Trump. Toccare Khan può scatenare battaglie di piazza senza esclusione di colpi. Eppure il sistema statale pakistano non fa sconti a nessuno, in passato figure insospettabili del calibro di Benazir Bhutto e Nawaz Sharif sono incappate nella dura legge in un Paese dove tensioni e conflitti d’ogni genere sono di casa.  C’è da capire come in alcune province reagiranno gli strati popolari marginali che nel 2018 avevano riversato il voto sul Pti, un consenso strappato pure a coloro che prestano ascolto all’antistato di formazioni come il Movimento Muttahida Qaumi che da decenni raccoglie nella provincia Sindh i cosiddetti muhajir, i musulmani di lingua urdu d’origine indiana.  

 

Quest’organizzazione ha conosciuto alti e bassi, scissioni interne, la durissima repressione proprio d’un decennio fa nota come “operazione Karachi” nella quale il Movimento fu attaccato e perseguitato per quasi due anni dal raggruppamento paramilitare dei ‘Rangers’ che serviva il governo della Lega Musulmana-N. Testimonianze mediatiche dell’epoca raccontavano di “mezze fritture” o “fritture complete” con cui venivano indicati in gergo ferimenti o esecuzioni sommarie di attivisti nella megalopoli meridionale. Altre formazioni islamiste: Jamiat-e Islami, Jamiat Ulema-e-Pakistan, Tehreek-e-Labbaik Pakistan, Tehreek-e Taliban Pakistan tuttora fanno convivere progetti di ribellione socio-politica, inseguendo il sogno dell’Emirato pakistano, e interlocuzione coi governi che si succedono. Alla cui guida ci sono stati Nawaz Sharif, persecutore e interlocutore di più d’un gruppo fondamentalista, e lo stesso Khan, finora solo dialogante, a tal punto d’essersi speso per il rilascio d’un rissoso galeotto come Hussain Rizvi, capo dei Tehreek-e Labbaik. In realtà, al di là di mosse estemporanee e populiste incarnate dai due ex premier, i veri registi d’ogni apertura o chiusura all’islam fondamentalista sono i vertici delle onnipresenti Forze Armate. Così fu per l’operazione Karachi fortemente voluta dai generali Rizwan Akhtar e Bilal Akbar, le cui carriere si conclusero alla guida dell’Inter-Services Intelligences per il primo, mentre il secondo divenne direttore generale dei temibili ‘Rangers’. Chiaramente il fanatismo religioso deobandi, che ispira più d’uno dei gruppi islamisti citati, risponde per le rime: a ogni azione subìta ne segue una contraria e altrettanto sanguinaria. Al cosiddetto colpo tagliente ‘Zarb-e Azb’ del giugno 2014 (migliaia di vittime anche fra la popolazione civile nell’area del Waziristan, una delle aree ad alta presenza talebana) voluto da un altro generale, omonimo ma non parente di Sharif, sei mesi dopo succedeva la strage della scuola militare di Peshawar (145 figli di alti ufficiali massacrati dai guerriglieri TTP). Semplicemente, occhio per occhio. Ora, in attesa delle elezioni, seppure l’intera politica pakistana sostenga che il terrore fondamentalista sia stato piegato, sotto la cenere delle contraddizioni cova il fuoco. Dalle proteste alle bombe. 

mercoledì 23 agosto 2023

Brics e contorni

 


Nei quasi quindici anni di vita, che non son molti ma per gli intrecci internazionali sono stati intensissimi, l’acronimo Bric, diventato nel 2010 Brics, s’è circondato di aspettative e dubbi. Stava e sta per Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica, ex imperi, giganti in espansione, colonie in rilancio. Tutto condito da cifre da capogiro: 42% della popolazione mondiale, 27% dell’economia globale, un quinto del commercio terracqueo. Eppure, dopo un quinquennio di speranze, nelle aree mondiali dove queste nazioni interagiscono, accanto a contraddittori scenari interni, le intenzioni devono fare i conti con realtà in evoluzione. Che non sono rosee per nessuno. Ma qual era l’intenzione primaria del gruppo? Non è stato mai un segreto: difendersi dallo strapotere statunitense e contrattaccarlo, dalla sfera economica a quella geopolitica, quest’ultima direttamente correlata alla strategia militare. Qui la strada s’è presentata subito in salita, visto il corpaccione degli armamenti americani che tuttora non ha pari al mondo per tecnologia e finanziamenti (860 miliardi di dollari nel 2023, più d’un terzo dell’investimento globale). Non secondaria, poi, la linea delle alleanze che, con la storica North Atlantic Treaty Organization sorta nel 1949, riunisce attualmente gli eserciti di 31 Stati membri, per una spesa di trentamila milioni di euro nell’anno in corso, cifra capogiro per la stessa Cina, figurarsi per il Sudafrica. Ma i Brics non puntano a far la guerra al colosso americano, almeno con le armi. La strategia è l’aggiramento, anzi la corrosione proprio delle vicinanze mercantili, di partenariato economico-finanziario, e di quello geopolitico. Certo, nulla a che vedere col terzomondismo degli anni Cinquanta, quando fra i due blocchi da Guerra Fredda, veniva lanciata la terza via dei “non allineati” attorno a figure che si smarcavano a est e a ovest (Tito, Nasser, Nehru). Del resto il tempo corre, l’India dell’indipendenza di Nehru e Gandhi contava 328 milioni di concittadini, l’attuale di Modi ha superato 1.400 milioni d’individui, quintuplicandosi in ottant’anni. Nell’anno  corrente dovrebbe strappare alla Cina il non esaltante primato di Paese più popoloso del globo, su un pianeta che stenta a tirare avanti proprio per sovrappopolazione e conseguente inquinamento per sostenere un modello di vita ormai standardizzato e per nulla garante della stessa biosfera. Questo disastro operato in un paio di secoli di sedicente sviluppo, tutto a trazione occidentale, ha ora responsabilità dirette fra i componenti dei Brics, che però, come il blocco avverso, non se ne curano. 

 

In realtà l’ultimo aggregato della sigla, il Sudafrica attualmente guidato dal presidente Ramaphosa, pensa per il proprio  continente a un riscatto dai percorsi stilati da vecchi e nuovi padroni. Ma fra quest’ultimi può trovare l’omologo Xi Jinping, suo ospite in queste ore a Johannesburg, con cui pensare addirittura di predisporre un sistema monetario alternativo al dollaro (idea considerata irrealistica da monetaristi ed esperti finanziari), difficilmente potrà dissuaderlo dalla mole di affari con cui le aziende di Pechino asfaltano la loro via della seta nel continente che ha nutrito per tutto l’Otto e il Novecento il colonialismo europeo. Eccole, dunque, le incongruenze del raggruppamento, sbeffeggiato dai detrattori come un happening geopolitico incapace di formulare piani per l’orientamento internazionale di questioni cogenti riguardo a economia, finanza, investimenti, relazioni. In realtà, queste vengono finora affrontate dai leader dei Brics ciascuno per la propria strada, che per India e Brasile non è certo di conflitto e rottura con Washington e il blocco europeo. Eppure proprio perché, come ha affermato il presidente sudafricano: ”Gran parte delle decisioni mondiali vengono prese nell’interesse dei Paesi occidentali, c’è un vuoto che può interessare nazioni in via di sviluppo”. Una verità che non fa una grinza e porta quaranta Stati a guardare e sperare nello sviluppo strategico dei Brics e ventitré a chiederne l’adesione. Fra costoro Arabia Saudita ed Egitto, che hanno garantito un assetto politico favorevole agli Usa anche nei recenti anni della disattenzione di più d’un presidente americano in Medioriente. Comunque le contraddizioni internazionali del chi è amico di chi - ben oltre appartenenze e accordi, basti pensare al comportamento del membro Nato turco in Siria, Libia e in vari “avamposti” africani da Mogadiscio a Dakar - potrebbero lanciare avvicinamenti tattici fra attori regionali finora contrapposti, ancora i sauditi e gli iraniani, e fra quest’ultimi e altri colpiti come loro dagli embarghi (la Russia putiniana). Con un benestare ben più ampio fra gli appartenenti ai Brics e i pretendenti a trovarvi posto:  Algeria, Egitto, Nigeria, Congo, Etiopia in Africa; Argentina, Venezuela, Bolivia in Sudamerica; Indonesia, Vietnam, Myanmar in Asia; le citate Arabia Saudita, Iran, Kazakistan in Medioriente. Molte nazioni hanno più da chiedere che da dare, ma nel mondo che si muove le compagnìe di strada possono risultare più vantaggiose delle parentele di lungo corso. 




mercoledì 16 agosto 2023

Emirato afghano: non è un Paese per donne

 


Zabihullah Mujahid - il turbante che nella prima conferenza stampa dell’Emirato, il 17 agosto di due anni fa, rispondeva alle domande degli ultimi giornalisti stranieri rimasti ancora a Kabul - è la voce narrante e la presenza vivente d’un documentario curato da Najibullah Quraishi e Mike Healy apparso su Al Jazeera:

https://www.aljazeera.com/news/2023/8/15/taliban-marks-two-years-since-return-to-power-in-afghanistan

Viene proposto nel secondo anniversario dell’ingresso trionfale dei militanti islamici nella capitale afghana. Mujahid, che continua a ricoprire il ruolo di portavoce ufficiale dell’Emirato è un comunicatore all’apparenza mite, nel filmato viene mostrato sotto i monti che dominano Kandahar, il cuore pulsante dell’ex movimento guerrigliero diventato amministratore del potere. L’uomo, scortato da un paio di miliziani armati, incede fra l’immancabile polvere e i tanti sassi sino a raggiungere una collinetta sotto cui s’intravede un lago. E parla. Rammenta le sofferenze della gente e degli stessi combattenti che da vincitori devono trasformarsi in gestori del bene comune. E’ la nuova sfida cui sono chiamati i resistenti di ieri: nel luogo mostrato, l’area di Aino Mina, dovrà sorgere una diga che permetterà di rifornire d’acqua la città. Mujahid non dice entro quanto tempo.  Del periodo di guerriglia ricordo quasi la spensieratezza perché non avevamo responsabilità di governo… Durante l’occupazione straniera non avevamo neppure un posto piacevole dove riparare… Non potevamo girare liberamente nelle città… Oggi siamo felici… Abbiamo problemi economici, abbiamo fatto passi positivi, ma non abbastanza… La gente vive ancora fra crimini e sequestri… C’era un’epoca in cui gli aerei volavano sulle nostre teste, erano aerei statunitensi, ci mettevano paura… Abbiamo un emiro come leader, in accordo con la Shari’a l’emiro ha tutto il potere, se non ci fosse un leader il Paese potrebbe cadere perché ci sono sempre conflitti…”

 


Lo scenario cambia: Mujahid prende un volo per la capitale, deve raggiungere il Palazzo governativo dov’è il suo ufficio. Lì, fra le altre, riceve anche delegazioni di cittadini, imprenditori, mercanti. Giardini curati, edifici ben tenuti per un’immagine di decoro che assimili una Kabul ‘pacificata’ ai luoghi di rappresentanza delle nazioni che non vogliono concedere all’Emirato l’ufficialità agognata. “Ecco la bandiera dello Stato Islamico, bianca, simbolo del Jihad contro la corruzione americana… Il simbolo della libertà…”. Nel Palazzo lavorano mille dipendenti, nessuna donna. “Non abbiamo ostilità nei confronti delle donne, col tempo lavoreranno e studieranno… Negli uffici per i media incontro giornalisti, ma non solo… Il popolo non ha nulla, né cibo né salute… Ci sono problemi economici e depressione, occorre pregare Dio per risolverli…” Ed ecco la visita d’un gruppo di cittadini, clima informale e diretto: “Caro signore, in questo momento i container vengono fermati alla dogana che ha la facoltà di svuotarli. Quando giungono a Jalalabad il ministero delle Finanze sostiene che occorre pagare 10 dollari anziché uno… La tassa è cambiata, noi non possiamo pagare 9 dollari in più… Se la tassa sale aumentano anche i prezzi delle merci al dettaglio… Il Paese ha sofferto a lungo, è debole. Noi non veniamo qui con l’intenzione di danneggiare il governo… Noi vi sosteniamo, ma questo sostegno non alleggerisce le nostre finanze, non potete darci meno e invitarci a sostenervi…” Nel filmato, che illustra una mattinata del portavoce talebano, c’è spazio per due appuntamenti che toccano due nodi scorsoi della gestione talebana: la questione delle minoranze religiose, ovviamente islamiche nella fattispecie gli sciiti di etnìa hazara, i diritti femminili. Agli hazara, che continuano a costituire l’obiettivo di attentati con attacchi suicidi da parte del fondamentalismo soprattutto dell’Isis Khorasan, Mujahid dopo averli abbracciati e chiamati fratelli riserva un paragone: “La popolazione afghana è mescolata come l’acqua che non può separarsi se non costruendo una barriera. Quando rimuoviamo gli ostacoli, l’acqua si riunisce…” Il gruppo potrà considerarsi felice dell’accoglienza, non sicuro. 

 

L’unica donna incontrata nella “giornata particolare” di mister Zabihullah è l’ormai anziana attivista Mahbouba Seraj (75 anni). Rientrata in Afghanistan nel 2003, dopo un lungo autoesilio negli Stati Uniti, Seraj aveva conosciuto la galera nel suo Paese dominato dalle faziose fazioni del partito comunista di fine anni Settanta. Nel periodo dell’occupazione Nato Mahbouba, che è anche una giornalista, ha lanciato il programma radiofonico “Il nostro caro Afghanistan”. Contemporaneamente sosteneva il network non profit Afghan Women impegnato nella difesa della salute di donne, madri e figli. Dopo l’avvìo del secondo Emirato Seraj è rimasta a Kabul, rifiutandosi di lasciare il Paese, una scelta che altre attiviste dei diritti non hanno potuto o voluto fare. I maligni sostengono che la discendenza reale di Mahbouba (è nipote del sovrano progressista del secolo scorso Amanullah Khan) l’abbia aiutata nella scelta. Certo, la sua notorietà internazionale anche in seno alle Nazioni Unite, le creano se non proprio una protezione un’aurea carismatica. Ma lei ci mette del suo, non vuole lasciare sguarnito un presidio durato vent’anni, sa che l’esempio, soprattutto delle attiviste più conosciute, non dev’essere sguarnito. Così denuncia l’apartheid creato dal nuovo regime, che mutila la vita femminile, impedendo ormai tutto. Istruzione sopra i 13 anni, lavoro, uscita di casa, ultimamente anche la possibilità di recarsi da una parrucchiera. E non importa che tante donne povere non possono comunque permetterselo, anche quest’impostura costituisce una gabbia e un’umiliazione di genere. Lei entra nell’ufficio di Mujahid quasi senza bussare “Non è possibile avere una generazione di ragazze che non vanno a scuola, tutto il mondo sarà contro di voi… E mentre l’interlocutore rammenta che c’è una parte di giovani e studenti oppositori del governo, facendo quasi intendere che l’esclusione deriva da questo, Seraj afferma perentoria: “Puoi prendere il potere con la forza, non puoi tenerlo con la forza…” Sembra un monito, diventa un messaggio nell’anno secondo del secondo Emirato.  

martedì 8 agosto 2023

Storie di premier e candidati “fuorilegge”

 


Mettere fuorilegge un avversario ingombrante sembra una pratica galoppante nella realtà politica di parecchi Paesi. Sta nuovamente accadendo al tanto discusso ex premier pakistano Khan, i cui detrattori più che sul fronte avverso della Lega Musulmana-N, attualmente al governo, aleggiano fra la casta militare che vigila sui partiti e influenza l’azione della magistratura. Sorte simile in India per Rahul Gandhi, escluso dal Parlamento, ora appena riammesso ma sempre sul filo del rasoio per poter partecipare alle elezioni del prossimo anno. E poi nella Turchia di Erdoğan, recente vincitore delle presidenziali turche contro il leader repubblicano Kılıçdaroğlu, visto che l’emergente sindaco di Istanbul İmamoğlu, sempre in quota al Chp, era stato fermato dai giudici per aver pronunciato frasi che mettevano “in pericolo la sicurezza dello Stato”. Chi ha messo in pericolo quella sicurezza – secondo il Partito Democratico americano – è Donald Trump, i cui adepti assaltarono Capitol Hill nel gennaio 2021, non accettando il risultato elettorale che aveva sconfitto l’esponente repubblicano. Ogni caso è a sé, soprattutto la vicenda di Trump è oggettivamente la più inquietante sebbene gli assalitori del Campidoglio apparissero più comparse d’una commedia di fantapolitica che reali golpisti. Invece lì dove un golpe è stato tentato, in Turchia nel 2016, gli strascichi della stretta repressiva oltre alla durezza dell’epurazione contro i presunti complottatori (i seguaci di Fethullah Gülen) s’è riversata su altre componenti ed è rivolta al libero pensiero e alla critica dell’apparato del partito di regime: l’Akp di Erdoğan. Agisce come una piovra che stritola chi s’oppone all’induizzazione della società un’altra formazione di regime, il Bharatiya Janata Party mossa dal guru Narendra Modi che punterà al terzo mandato alle prossime politiche indiane del maggio 2024. La cui elefantìaca macchina elettorale, che conta circa un miliardo di potenziali elettori, ha iniziato a muoversi. E visto che il numero di chi s’affaccia alle urne per la prima volta è in esponenziale crescita, il partito di maggioranza pensa a orientare il voto dei più giovani reclutando a suo vantaggio influencer con milioni di seguaci sulle piattaforme social. 

 

Egualmente non demorde nel tentativo di ostacolare un candidato (Gandhi) che, sebbene porti un cognome appesantito da storie di clan familiari che per decenni recenti hanno oscurato l’origine quasi mistica del Mahatma, viene considerato una speranza dell’India democratica, multietnica e multireligiosa. Quell’India contraria alle imposizioni del fanatismo dell’hindutva, un radicalismo razzista sdoganato e ormai cavalcato dal partito di governo. Proprio ieri Rahul è stato riammesso alla Camera indiana, poiché la Corte Suprema ha sospeso la condanna per diffamazione del premier Modi. Aleggia però una riserva del Tribunale che potrebbe rimetterlo fuorigioco al momento opportuno: le settimane precedenti le politiche di maggio. Attualmente chi resta fuori da una possibile corsa parlamentare è l’ex campione di cricket ed ex premier pakistano Khan, che ha vissuto un anno pericoloso assai. A seguito della protesta, partecipatissima, lanciata nella primavera dello scorso anno contro quello che definiva un complotto contro la sua persona e il Tehereek-e Insaf Party di cui è capo, un complotto a suo dire internazionale manovrato dalla Casa Bianca, riceve una serie di avvertimenti da avversari diventati sempre più numerosi. Ad agosto 2022 gli viene vietato di partecipare alla marcia e a registrare arringhe politiche, a ottobre la Commissione elettorale lo accusa di pratiche corruttive, espellendolo dal Parlamento. Lui subito dopo rilancia un’ennesima manifestazione, a novembre durante un comizio viene ferito a una gamba in un attentato. Eppure non demorde e ordina lo scioglimento delle Assemblee rappresentative controllate dal suo partito nelle popolose province del Punjab e del Khyber Pakhtunkhwa. Nel marzo scorso un raid poliziesco gli circonda la villa di Lahore: vogliono arrestarlo, ma devono fermarsi. Appresa la notizia dell’operazione i militanti del Pti attaccano la polizia, ne seguono scontri con morti e feriti. Però l’arresto è solo rimandato. Nel maggio scorso, mentre Khan si reca in Tribunale per difendersi dall’accusa di avere ricevuto regali durante il suo mandato da premier senza denunciarli, viene prelevato da agenti speciali dell’Intelligence e condotto in carcere. Successivamente liberato viene in questi giorni privato della possibilità di partecipare alle elezioni fissate per il prossimo novembre. L’accusa è la medesima: corruzione. Lo scontro della carta bollata e dei tribunali è real politik e travalica quello delle urne e pure delle piazze.