lunedì 31 ottobre 2022

A cercar la cieca morte. Il sereno “disastro” quotidiano

 

 

E’ più facile crepare soffocato dalla calca per certe stradine di Seul inseguendo la presunta presenza d’un vip? oppure affogato nel fiume Machhu a Morvi, Gujarat indiano, per il collasso d’un ponte pedonale? Le vittime sono trecento sui due fronti. Pur non trattandosi di vittime di guerra, tali possono considerarsi quei luoghi. Centocinquanta distese sull’asfalto, altrettante ripescate in acqua. Finora. Perché, come per le stragi da ordigni, il numero può sempre aumentare. Sono i cadaveri della festa, della novità, qualcuno dirà del caso tanto per banalizzare quel bene, tutto sommato unico, che è l’esistenza di ciascuno. Ma com’è accaduto? I defunti notoriamente non parlano, perlomeno davanti alle telecamere. Mentre scampati e sopravvissuti, tuttora stupiti per quant’è capitato, non se lo chiedevano mentre s’infilavano stipati come acciughe in salamoia nel vicolo della morte. Oppure quando dondolavano, assecondando il movimento di quella lingua di 232 metri che risaliva al dominio coloniale britannico, però era stata “ristrutturata” e riaperta quattro giorni prima. Già divampa la polemica fra partiti di governo e le opposizioni. Se le indagini indiane seguiranno un percorso probo si potrà appurare la bontà dei lavori di riparazione. O invece scoprire, come accade in tanti appalti pubblici e privati in giro per il mondo, che l’opera non eseguita “a regola d’arte” era viziata da pressappochismo tangentizio. Certamente le immagini che precedono, fermano l’attimo del crollo e lo seguono, rivelano una quantità spropositata di persone sulla passerella sospesa. I cavi, i tiranti e tutto l’armamentario che la teneva a mezz’aria potrebbe non aver retto il carico. Di fatto c’è la responsabilità politica, amministrativa, d’ordine pubblico di chi a Seul non doveva permettere assembramenti di migliaia di giovani infoiati nel celebrare il consumismo sfrenato di Halloween, non i suoi miti Druidi. E di chi a sud-ovest doveva contenere la frenesia dei festival hindu limitando la folla sul ponte rinnovato. 

 

Ma gli uni e gli altri cittadini sono visti come elettori, una categoria che fa gola a chi amministra e commercia. Nel mercato asiatico Sud Corea e India sono due esempi significativi. La prima per quello che è da decenni: il presidio avanzato del mercantilismo asservito alla geopolitica statunitense, e il pachiderma indiano per quanto rappresenta in fatto di tradizione e ambizione di potenza che fa della demografia un pilastro per presente e futuro. In entrambi i Paesi la politica è polarizzata, pur con la sproporzione dei cinquantadue milioni di sud coreani e del miliardo a trecento milioni di indiani (solo i cittadini del Gujarat sono 62 milioni). Lì è una lotta fra conservatori e democratici con differenze solo di facciata; qui la contrapposizione è esacerbata da un disegno a sfondo fondamentalista e razziale diventato l’unico progetto del partito di potere (Bhratiya Janata Party). Nelle recenti elezioni sud coreane, vinte con lo scarto infinitesimale di 0.73% dal conservatore Yoon Suk-Yeol, la popolazione si ritrovava a scegliere fra il cosiddetto ”meno peggio”. Non è detto che l’abbia fatto. Accade anche in molte altre nazioni, ma non è una prospettiva felice. Anzi. E’ quella che spinge adulti e giovani a estraniarsi. A pensare e agire soggettivamente e avidamente, a inseguire carriera, denaro, consumi, svago nell’egotismo più brutale. E non rispettare nulla, neppure la conservazione della vita. Altrove il fanatismo dell’induismo politico non è da meno, prende il peggio della superstizione religiosa, del suprematismo etnico, del cinismo liberista e governa promettendo benessere e identità a cittadini-sudditi. Ma la colpevole correità d’un popolo che non governa se stesso e si fa complice dei promotori di falsi miti con una disinvoltura disarmante, deve far riflettere interpreti e osservatori. Oggi il presidente Yoon Suk-yeol, il premier Modi e il suo rappresentante in Gujarat, Bhupendrabhai Patel sono in prima fila a versare lacrime di coccodrillo, indicendo lutti collettivi più o meno lunghi. Pronti a rasserenare la gente per l’ennesimo “disastro” quotidiano.

venerdì 28 ottobre 2022

Intrigo pakistano, Khan contro tutti

 

C’era un giornalista pakistano che si chiamava come il premier (Sharif) ma non era suo parente, anzi era un suo puntiglioso critico. Qualche giorno fa il cronista e conduttore televisivo di nome Arshad, è rimasto vittima d’un agguato mortale a Nairobi. Cosa ci facesse nella capitale keniota non dato sapere, ma da alcuni mesi s’era già trasferito a Dubai perché, si vocifera, fosse nel mirino dell’Inter-Services Intelligence di Islamabad. Il giornalista, faccione bonario ma intenti taglienti, s’era esposto con articoli al vetriolo contro l’attuale premier Shebbaz Sharif, che nell’aprile scorso ha sostituito Imran Khan alla guida del Paese. Quest’ultimo dopo il defenestramento ha lanciato accuse all’interno e all’esterno, indicando la lobby militare e gli Stati Uniti quali mandanti d’un complotto contro la sua persona e il suo gruppo politico - Tehreek-e Insaf - con cui aveva vinto le elezioni nel 2019. Da lì ha avviato un moto di proteste popolari e marce sulla capitale che hanno prodotto scontri sebbene siano state contenute dalle forze dell’ordine. (cfr.                                                               https://enricocampofreda.blogspot.com/2022/04/pakistan-i-clan-tornano-al-governo.html 

https://enricocampofreda.blogspot.com/2022/04/propaganda-pakistana.html).

Analisti pakistani ammettono che prima della crisi primaverile, con cui alcuni alleati minori toglievano la fiducia a Khan determinandone la caduta, i militari avevano espresso un appoggio incondizionato all’ex campione di cricket, considerandolo una novità da contrapporre al familismo politico nazionale, che fa dell’esecutivo una questione privata fra i clan Bhutto, dignitari del Partito Popolare Pakistano, e Sharif, signori della Lega Musulmana-N. In questi giorni Khan, già scampato all’accusa di costituire un pericolo per la sicurezza nazionale, ha ricevuto dalla Commissione elettorale il divieto di ricandidarsi per un quinquennio. Lui non solo ripropone la personale ‘lunga marcia’ sulla capitale, accusa pure i Servizi di aver ordito l’attentato al giornalista Arshad Sharif che, mestiere o meno, simpatizzava per il suo partito. 

 

Ora fra ipotesi e indagini in corso, pur difficili da tenere nel Paese africano, i vertici dell’Isi si sono sentiti in dovere d’indire una conferenza stampa. In oltre sessant’anni di lavoro onorato e onorevole tendenzialmente per se stessa, l’Intelligence, temuta dal Paese e dai politici  vecchi e nuovi per le trame trascorse e quelle possibili, non si era mai esposta al cospetto della stampa. Stamane il suo Direttore Generale, Babar Iftikhar, davanti a telecamere, microfoni, taccuini ha dichiarato che con la morte del giornalista Sharif sono state mosse accuse infondate alle istituzioni, alla leadership nazionale, al Capo dell’Esercito. Il soggetto di queste ire, neanche a dirlo, è Imran Khan che aveva parlato di “attacco mirato” al giornalista. Il quale “sapeva che la sua vita era in pericolo e riceveva ripetuti avvertimenti, però non si è fermato. Io gli ho detto di tirarsi indietro, lui non era spaventato. Non importa quel che dice la gente, io so che si tratta d’un omicidio mirato”. Insomma l’ex premier è incontenibile e nella sua personale guerra ad avversari politici, ex alleati, generali (come l’ex Capo di Stato Maggiore Baiwa con cui aveva polemizzato durante l’incarico) attacca anche il Gotha dello spionaggio. Che non sta a guardare e con questo storico intervento pubblico lo mette nel suo mirino, cosa che se fossero vere le accuse sulla morte del giornalista dovrebbero mettere i brividi a Khan. Il mantra lanciato anche dall’Isi, come da tutti i rivali del PTI è la sicurezza nazionale poiché “l’instabilità interna è la più grande minaccia per il Pakistan”. Un pezzo della stampa locale, parlando di Khan, rammenta che l’immagine da Don Chisciotte in lotta contro ogni potere, poco gli si addice. Avrebbe dimenticato che proprio militari e Intelligence erano stati non solo i garanti per la sua elezione, ne avrebbero orientato anche il voto. La battaglia sporca delle insinuazioni è solo un velo di superficie, è in corso una guerra senza esclusione di colpi.

giovedì 27 ottobre 2022

Iran, la moschea insanguinata

 

Una moschea. E che moschea, un luogo da sogno. Shah Cerāgh, ovverosia ‘Imperatore della luce’.  E’ qui che all’interno del luogo sacro, mercoledì sera un terzetto ha aperto il fuoco stendendo una cinquantina di fedeli. Quindici sono morti, gli altri riscontrano ferite più o meno gravi. Il luogo è leggendario e travagliato sin dalla creazione, perché due figli (Ahmad e Muhammad) di un imam sciita (Musa al-Kāẓim) vi trovarono rifugio dalla persecuzione della dinastia sunnita Abbaside contro l’altra fede islamica. La loro tomba venne scoperta casualmente in un cimitero, per via della luce che emanava all’esterno un cadavere, ovviamente inumato,  ricoperto da un’armatura. Dall’anello che portava si scoprì che si trattava di Ahmad, figlio di Musa e fratello dell’imam Reza, l’ottavo imam sciita. Da allora (X secolo) diventò meta di pellegrinaggio di fedeli, nel 1130 furono edificati una camera di sepoltura, una cupola, un colonnato. Duecento anni dopo il luogo sacro fu ampliato, ma è nel 1506 che la ristrutturazione gli conferì imponenza. Fu riadattato dopo due distruzioni causate da terremoti nei secoli XVI e XIX. Tutto ciò avveniva a Shiraz, la città dell’amatissimo mistico e poeta Hafez, personaggio la cui fama ha attraversato i secoli grazie alla lirica sull’amore, anche erotico, ripresa dai suoi ghazal. Così la città più aperta e tollerante dello sciismo s’è ritrovata insanguinata da un attentato che sa di Afghanistan, come se la moschea con la cupola che brilla sotto gli specchi fosse a Dasht-e Barchi, il quartiere di Kabul diventato un obitorio di hazara. Eppure è accaduto. Il commando ha fatto scempio del tempio lasciando sui pregiati pavimenti marmorei martiri, e il grido di dolore del ministro degli Esteri Hossein Amirabdollahian appare comunque impotente nella sua dolente potenza. “Non permetteremo che la sicurezza nazionale e gli interessi dell'Iran siano ingannati da terroristi e intrusi stranieri che pretendono di difendere i diritti umani" ha dichiarato nelle ore successive, unendo il gesto terroristico, rivendicato dall’Isis, con le proteste che da oltre un mese riscontrano anch’esse una scia di sangue. 

 

C’è relazione fra queste morti? E se anche questo sangue fosse casalingo, prodotto cioè da iraniani che uccidono altri iraniani, si può escludere o meno una regìa esterna della multinazionale del terrore che da anni usa l’acronimo del Daesh e che cinque anni or sono già ha colpito la Repubblica Islamica con gli attentati al Parlamento e alla tomba di Khomeini? Per quel che s’è visto negli ultimi anni, con gli assassini degli scienziati impegnati sul fronte del nucleare e con la recente esecuzione del colonnello Pasdaran Sayad Khodaei, chi riesce a compiere azioni mortali mirate in terra iraniana, è il Mossad israeliano. Che se ne compiace. Più realisticamente nel grande Paese sciita che supera gli ottanta milioni di abitanti, con province tumultuose dove vivono cospicue minoranze etniche e religiose (i kurdi del nord-ovest, i sunniti del Beluchistan) le questioni, le rivendicazioni, gli interessi possono intersecarsi pur senza intrecciarsi. Chi come il presidente Raisi oppure il ministro dell’Interno Vahidi deve offrire risposte interne e internazionali sulla sicurezza e la tenuta politica della nazione, in una fase di difficoltà esponenziale fra diritti violati e repressione, economia soffocata, inflazione che stritola le certezze di tre quarti della popolazione, cerca rifugio mostrando un quadro fosco - che fosco è davvero - dove ogni vicenda è una concausa di altre. Ma gli stessi vertici statali non ne hanno certezza. Per ora si sa che uno degli attentatori, bloccato e arrestato, non è di nazionalità iraniana. Per il resto le fonti ufficiali, già avare d’informazioni, riparano nelle dichiarazioni di prammatica del chierico di governo: “I nemici dell'Iran, dopo aver fallito nel creare una divisione nelle fila unite della nazione, si vendicano attraverso la violenza e il terrore. Le risposte non mancheranno, la sicurezza e le forze dell'ordine daranno una lezione a coloro che hanno progettato l'attacco". Il resto è attesa. Per la cronaca: nell’aprile scorso, durante il Ramadan, un uzbeko aveva compiuto un attentato in un altro santuario: l’Imam Reza di Mashhad.

venerdì 21 ottobre 2022

Turchia, controllo sulla disinformazione o censura?

 

Se gli strascichi della strage mineraria nella località sul Mar Nero risultano già archiviati nella stessa informazione indipendente che sopravvive in Turchia, non è solo per il minore impatto sull’opinione pubblica del numero delle vittime rispetto al più tragico lutto minerario del Paese, quello di Soma. Certo, i cadaveri fanno sempre effetto e i 41 dei giorni scorsi rispetto ai 301 del 2014, a parità di dolore, fanno piangere meno concittadini. Ma all’epoca a tenere alta l’attenzione, a svelare i risvolti oscuri, le colpe d’imprenditori senza scrupoli, le connivenze governative contribuiva il lavoro di decine di giornalisti estranei alla subalternità e all’acquiescenza col potere, statale e privato. Testate soppresse oppure rese inoffensive dai progressivi interventi del partito di maggioranza e dei suoi esecutivi, due nomi fra tanti - Zaman e Çumhuriyet - per non parlare della politicizzata Özgur Gündem tacciata di terrorismo filo kurdo. A peggiorare la situazione giorni addietro il Meclisi ha approvato la proposta di legge dell’Adalet ve Kalkınma Partisi sulla diffusione di notizie ritenute false, divulgate sui social network e tramite l’informazione online. A poco sono serviti gesti clamorosi come quello del deputato del partito repubblicano Erbay il quale, durante un intervento parlamentare, ha estrapolato dalla borsa un martello con cui ha distrutto il suo smartphone, volendo ribadire l’impossibilità di essere normali e la pretestuosità con cui l’organo legislativo vara una misura più di censura che di lotta alla disinformazione. La maggioranza si rifà alla questione che affligge tutte le democrazie del mondo: il rischio di diffusione di fake news. Per combatterle non s’affida alla professionale verifica delle notizie che ciascun giornalista deve realizzare, né al libero discernimento del cittadino, indica parametri che non possono essere tollerati dallo Stato: la minaccia al benessere pubblico e all’interesse nazionale, la volontà di produrre effetti negativi sulla collettività. 

 

Quindi offre ai giudici la possibilità di agire immediatamente sui potenziali trasgressori con incarcerazione (da uno a tre anni) e sanzioni. Fra le mire subdole della norma dall’ennesimo sapore repressivo, evidenziate da addetti ai lavori e osservatori internazionali, c’è l’induzione all’autocensura. Una sorta di freno che operatori e chiunque voglia esprimersi sui social, dovrà imporsi. Non per seguire i princìpi deontologici che il giornalismo deve sempre darsi e neppure per applicare quel buon senso, buon gusto, buona educazione degni di qualsiasi intervento scritto o parlato, ma solo per il timore di finire triturati da accuse che portano diritto in galera, in faccia a qualsivoglia libertà d’espressione, ovviamente esente da oltraggio, calunnia, diffamazione. A decidere sulla veridicità o falsità dell’affermazione il Parlamento turco delega una magistratura da tempo posta sotto tutela dello stesso esecutivo e dell’onnipresente presidente Erdoğan. Nella migliore delle ipotesi il giornalista rischia d’essere depennato dall’albo professionale e il cittadino sanzionato con ignominia. Ci rimette quella possibilità di conoscenza che, pur non assoluta e garantita ovunque nel mondo, in molti Paesi trova ostacoli d’ogni sorta. La Turchia, che conta oltre 250 cronisti reclusi, ha conosciuto nell’ultimo decennio una considerevole regressione informativa e di libertà d’opinione. Nel ghetto in cui è circoscritta la redazione di Çumhuriyet (il cui ex caporedattore Dündar, condannato a 27 anni per spionaggio, è riparato a Berlino) questo scrive sulla legge: “Ha creato una nuova definizione di reato come "diffondere pubblicamente informazioni ingannevoli al pubblico" e ha introdotto un'area di applicazione in cui le critiche sui social media possono trasformarsi in reati con il pretesto di "disinformazione”… È chiaro che la legge sulla censura spingerà la Repubblica, che ha adottato l'obiettivo della civiltà contemporanea, nel pozzo oscuro della tirannia di Abdülhamit”. Sì, sarà difficile sapere di più sul disastro di Amasra, come è sempre più difficile conoscere molto, molto altro.

lunedì 17 ottobre 2022

Iran, dove va lo scontro

 

Profeta! Ispira i credenti a vincere ogni paura della morte quando combattono, affinché se siete venti di voi che sono pazienti nelle avversità, ne superino duecento; se siete cento, ne superino mille”. E’ questo versetto del Corano, che invita alla pazienza e probabilmente alla perseveranza, a caratterizzare il termine Saberin (coloro che sono pazienti) fonte della denominazione di una delle unità d’élite delle ‘Guardie della Rivoluzione’ in Iran. Assieme alla nota e celebrata Quds Force e alla Sepah Navy Special Force rappresentano gli organismi d’eccellenza della forza militare di Tehran. Dopo la logorante guerra di trincea con l’Iraq di Saddam Hussein, vivo ancora Khomeini, si pensava a creare reparti super preparati e accessoriati. Nell’ultimo ventennio tali organismi si sono forgiati e sono cresciuti nei conflitti, più o meno lunghi sempre in Iraq, e in Libano, Siria, Yemen. Perché parlare di loro? Perché fra gli analisti internazionali, riguardo alla crisi interna che da un mese sconvolge la nazione, c’è chi lancia l’ipotesi che questi iper esperti dello scontro possano entrare in azione sulle strade iraniane, dove i fuochi della rivolta giovanile e femminile non riescono a essere spenti dalla polizia e neppure dagli attrezzati basij. Solo ipotesi, create probabilmente più per alimentare l’idea d’una ‘guerra civile’ per ora inesistente; seppure attenendosi all’attualità si registrano da una parte la volontà indomita di proseguire la protesta anti-velo e anti-Khamenei, dall’altra l’affanno della repressione sia negli interventi ordinari dei reparti antisommossa, attivi a suon lacrimogeni, sia dei motociclisti in nero (basij e agenti speciali) che in più occasioni hanno sparato e ucciso. Le vittime risultano la metà dei morti per le proteste sociali del 2019. Però il tema sui due fronti può diventare quello di difendersi ed elevare lo scontro da una parte, e dall’altra far intervenire elementi di assoluta fedeltà per contenere una situazione che potrebbe ingigantirsi, specie se lo spargimento di sangue dovesse continuare. 

 

Alcune testimonianze filtrate nel corto circuito mediatico con cui vengono offerte informazioni ufficiali hanno evidenziato sia tentennamenti di poliziotti al cospetto di giovani urlanti ma disarmate, sia loro interventi eccessivi per oppressione, abuso, cieca violenza. Tutto ciò mette a rischio il contenimento che il governo sembrerebbe voler dare alle contestazioni, senza aumentare la ferocia. Ma alcune località del Paese, ad esempio a Zahedan, dove si è copiosamente sparato e i corpi hanno sanguinato fino ad estinguersi - a decine fra i manifestanti, ma pure fra alcuni basij - offrono un quadro dell’ordine pubblico cupo per quanto può ulteriormente accadere, oltre che per quant’è accaduto. Le autorità paiono preoccupate dalla diffusione della protesta che investe località piccole e grandi in ogni punto cardinale, più che luoghi simbolo della repressione, o a loro avviso rieducazione, qual è la prigione di Evin nella capitale, sono le agitazioni nei centri petrolchimici (Abadan sul confine iracheno, Asaluyen nel Golfo Persico) ad agitare l’animo del governo Raisi. Ridiventare il bersaglio di contestazioni non solo per questioni di diritti e autoritarismo, ma per i nodi scorsoi di un’economia certamente posta sotto il ricatto dell’embargo occidentale, ma di fatto tagliente per le condizioni di vita di milioni di famiglie, è un pericolo assoluto non solo per il potere di Khamenei e l’istituzione di Guida Suprema. E’ un timore per il sistema delle bonyad che afferiscono al clero, ma anche al cosiddetto ‘partito combattente’ di cui il corpo dei Pasdaran è l’alfiere. Non solo petrolio e gas, bensì chimica, tecnologia aerea (compresi i droni Shahed-136 usati in questa fase dai russi in Ucraina, ultimo 'gioiello' dell’azienda Hesa) e poi materiale edilizio, tessile, generi alimentari, più l’incompiuta del nucleare civile. Prodotti ordinari fra le potenze mondiali, criminalizzate al regime degli ayatollah e dei combattenti della Rivoluzione. Nuovamente contestati da tanta gente che si ribella e che può finire massacrata per via. Puntare sull’esperienza dei professionisti della forza e sulla loro fedeltà ideologica, può garantire l’attuale potere, molto meno il contenimento della morte.  

sabato 15 ottobre 2022

Turchia, nuova strage del carbone

 

Era già accaduto otto anni fa, segnando un terribile record: 301 minatori morti, più di una precedente strage del 1992 con oltre 200 vittime. Quel giorno nerissimo lo viveva la comunità di Soma - area anatolica occidentale, non lontano dal sito archeologico di Pergamo. Durante le concitate fasi seuccessive, di cui riportiamo sotto cronache e note, le autorità promettevano misure, controlli, dicevano “Mai più”, come usano fare politici e imprenditori. Ecco i risultati: stessa strage, si spera solo più contenuta nelle vittime. Ne sono state estratte 41 dalla miniera Müessese Müdürluğü, presso la città di Amasra sul Mar Nero, 350 km est da Istanbul, mentre 58 uomini dai caschi gialli, dai volti neri e tirati si sono salvati da soli o sono stati estratti vivi dai soccorritori. Storditi e disperati, ma vivi quello che non è accaduto ai compagni che loro già piangono, perché erano giovani o bisognosi, costretti a praticare il millenario terribile mestiere che le nuove frontiere energetiche dovrebbe abolire, come lo stesso minerale estratto. Invece la crisi scaturita e congelata dalla guerra in Ucraina, rilancia in ogni latitudine l’uso del carbone e tutto resta invariato. In Turchia paiono invariati anche il contesto, il contorno, le cause, le negligenze. L’odierno ministro dell’Energia, Fatih Dönmez, è imbarazzato nel trattare la questione come lo era il suo collega del 2014, un’unica differenza: la miniera della nuova mattanza a opera di grisou e incendi è di proprietà dello Stato, la Soma Coal Mining Company era un’azienda privata. Guidata dal genere d’imprenditoria del peggior liberismo economico, che dopo il kemalismo aveva trovato protezione e favori nel regime dell’Akp. Lo sosteneva e lo sostiene traendone vantaggi e profitti. Ad Amasra i cadaveri saranno meno numerosi solo perché a scavare nel ventre della terra c’erano 110 minatori, altrimenti il lutto sarebbe risultato più esteso. Le lacrime possono diventare più copiose perché per chi muore sul lavoro non c’è giustizia, ma soprattutto la morte sopraggiunge per mancanza o carenza di prevenzione.

 

Sulla strage mineraria di Soma cfr.:

 

https://enricocampofreda.blogspot.com/2014/05/kemal-sotto-terra-quindici-anni.html

 

https://enricocampofreda.blogspot.com/2014/05/il-consenso-erdoganiano-nel-buio-di.html

 

https://enricocampofreda.blogspot.com/2014/05/yusuf-e-recep-i-picchiatori-del-pensiero.html

 

https://enricocampofreda.blogspot.com/2014/05/soma-la-discolpa-del-potere.html

giovedì 13 ottobre 2022

L’India che lotta per il velo

 

Copriamo la testa non il cervello, “Il velo è un nostro diritto, nessuno ce lo toglierà” dicono i cartelli delle giovani  dello Stato indiano del Karnataka. Sono riunite davanti alla sede della Corte Suprema che ha affrontato la questione del divieto imposto dal partito hindu d’indossare l’hijab a scuola. Il caso era scoppiato nello scorso gennaio, i dirigenti d’istituto, in base alle disposizioni del partito che governa lo Stato, impedirono alle studentesse di entrare in classe velate. Quest’ultime s’acquattarono davanti al cancello della scuola  improvvisando l’autogestione delle lezioni. Nei giorni seguenti frange fondamentaliste hindu organizzarono gruppi di studenti, soprattutto di sesso maschile, che contestavano la protesta delle studentesse. Il clima divenne rovente per la radicata polarizzazione confessionale vissuta dal Paese, senza però degenerare in scontri com’era accaduto in altre occasioni e in aree dove la tolleranza è sottozero. Ora la magistratura, nell’affrontare una vicenda sulla quale la politica riversa un’attenzione ossessiva perché l’intolleranza religiosa è diventata il punto cardine di aggregazione del Bharatiya Janata Party, si è divisa: un giudice ha accettato il ricorso delle ragazze islamiche, un altro l’ha respinto. Il locale ministro dell’Istruzione per il momento mantiene il divieto sul velo, in attesa che il nodo possa essere sciolto da un’autorità superiore, che si spera sia super partes: il presidente della Suprema Corte Indiana. Di recente nomina, dopo aver fatto parte dell’organo in qualità di giudice, Uday Umesh Lalit è il quasi sessantacinquenne investito del prestigioso e delicatissimo ruolo. Viene da una famiglia di avvocati originaria del Maharashtra, suo nonno iniziò a praticare la legge in epoca coloniale britannica. Ma il suo incarico durerà pochissimo. Andrà in pensione fra qualche settimana, al compimento del 65° anno d’età, un termine già contestato dal suo predecessore che lo considerava limitativo. In ogni caso l’età di uscita è rimasta quella. E non è detto che Lalit riuscirà a esprimere un parere vincolante sulla diatriba del velo prima della collocazione a riposo.  L’irrisolutezza peserà sulla convivenza, insidiata non solo nel Karnataka ma in molti Stati della Federazione. A Delhi sono riprese manifestazioni di solidarietà con le studentesse private del velo o della scuola. Le giovani rivendicano la copertura del capo come simbolo identitario, oltre che di fede, un desiderio di riconoscimento di sé e della propria dignità davanti ad apparati e cittadini di altra religione che intendono negargliela. La comunità musulmana sente un apartheid che cresce e soffoca come e più dei raid dei picchiatori dell’hindutva.

Per approfondire:

https://enricocampofreda.blogspot.com/2022/03/lindia-dellesclusione-e-del-livore.html

mercoledì 12 ottobre 2022

Iran, la rieducazione giovanile

 

La capitale, la città dell’arte, quella sacra: Tehran, Eshfan, Mashhad. Ma anche altre località grandi e minute perché le martiri, i martiri, della repressione antivelo abbracciano una cospicua fetta del territorio iraniano, meno conosciuto in Occidente. Notizie non ufficiali hanno indicato un centinaio di vittime, l’opposizione all’estero offre un numero quasi doppio. Il sangue è stato versato a Boukan, 250 km a sud di Tabriz, nella fascia azera, a Urmia, presso l’omonimo lago. E Rasht, Amol, Babol sotto il Mar Caspio. Morti anche un po’ più a sud, a Karaj, non distante dalla capitale. A Kermanshah, a un’ottantina di chilometri dalla frontiera irachena. Mentre Zahedan, a sud-est nel Belucistan verso il confine afghano, pare ne conti a decine. Lo stillicidio delle vittime è una pagina buia del regime che ha usato per giorni la mano pesante, impugnando davanti ai fuochi della ribellione, il fuoco delle armi. Agenzie non ufficiali lanciano note sui fermati, e all’attuale stallo della vicenda degli stranieri bloccati da due settimane per i quali si muovono consolati e ambascerie internazionali, fa da contraltare il caso di elementi incarcerati in precedenza, diversi sono francesi. In queste ore Amirabdollahian e Colonna, ministri degli esteri di Tehran e Parigi, hanno dibattuto sul tema, poiché l’accusa è pesante: attentato alla sicurezza nazionale. Seguendo attività commerciali queste persone entravano e uscivano dai confini iraniani fino a insospettire la Vevak, l’Intelligence interna. Uno di loro è accusato di collaborare col Mossad. La questione, tutta da indagare, ha fornito alla Guida Suprema materia per rilanciare un’accusa che circola da anni nel Paese: le manovre statunitensi per destabilizzare il potere degli ayatollah e il sistema nato dalla Rivoluzione khomeninista. Un piano che ha avuto fasi ormai entrate nella storia e che potrebbe avere un futuro, ma non necessariamente intrecciato a tutto ciò che accade in Iran. 

 

Il governo Raisi ha impresso una linea dura all’insubordinazione della piazza, incentrata sulla libertà delle donne di mostrarsi senza l’hijab. L'obbligo del velo, assieme al velayat-e faqih (il super potere dei giurisperiti), è stato un cavallo di battaglia del Khomeini-pensiero - oltre a una personale interpretazione dell’Islam - utile e proficua all’antico successo nel conflitto per l'egemonia su laicismo e marxismo più o meno organizzati, ma che potrebbe aver fatto il suo tempo. Questa l’idea di giovani non più disposte alla sottomissione rilanciata da un controllo maschile e clericale. Intanto per gli arrestati accusati di ‘sommossa antistatale’ sono stati annunciati una sessantina di processi dalla procura di Tehran e altrettanti nella provincia meridionale di Hormozgan. Ma c’è anche una posizione morbida: l’agenzia Irna cita i casi di minorenni rilasciati in base alla sottoscrizione d’una promessa di non reiterare forme di ribellione. In più s’apprende che gruppi di studenti delle superiori sono passati dal luogo di detenzione a centri per il ‘recupero psicologico’. E’ una prassi finora sconosciuta, pare volta ad agire sui comportamenti dei giovani, definiti antisociali. Una sorta di ‘riformatorio’ di cui non si conoscono i metodi, ma che secondo le dichiarazioni ministeriali punterebbe al reindirizzo anziché alla coercizione. Almeno nelle intenzioni. Il governo deve tener conto anche di alcuni apparti scontenti, il più noto è Nirouy-e moqavemat-e basij, mitizzato all’epoca del martirio nella guerra contro Saddam e divenuto nel tempo strumento di controllo socio-politico e braccio armato dello Stato. In questi giorni i duri e puri della Rivoluzione piangono una ventina di perdite. Fra i cento o duecento morti ci sono aderenti al gruppo freddati negli scontri coi ribelli di varie città. I più cruenti a Sanandaj, località d’origine di Amini, area dov’è concentrata la minoranza kurda, altri nel Beluchistan. 

martedì 11 ottobre 2022

New Cairo fra sperperi e paura

 

Cammina, ma non corre il megaprogetto con cui da anni Sisi abbaglia i suoi sostenitori, ormai prevalentemente militari e famigli, nemmeno più coloro che mangiano,  sarebbe meglio dire mangiavano, grazie alla filiera economica gestita dalle Forze Armate, messa in difficoltà dalle sue spese pazze. La New Cairo, capitale galattica nel deserto, è un’idrovora che prosciuga fondi, forse serviranno più dei 60 miliardi di dollari previsti per la creazione. Il tempo va e diversi lavori strutturali restano arretrati, comprese le autostrade a otto corsie, neanche si trattasse d’una New Los Angeles. Gli amici americani, con più d’un presidente, si sono tenuti alla larga dalle smargiassate del presidente-golpista. Magari lo lusingano, perché da un decennio è funzionale alla restaurazione del grande Paese arabo, rimesso in riga dai furori di Tahrir. Però, nessun finanziamento diretto ai sogni faraonici del generale viene da Washington. Altri aiuti sì, con gli onnipresenti armamenti e tre tranche elargite dal Fondo Monetario Internazionale per un totale di 20 miliardi di dollari, oggettivamente scialati per servizi che non servono alla popolazione, ammassata nelle periferie delle megalopoli di cui Cairo è la quintessenza. Alla storiella che la nuova Cairo, smaltirà caos e sovrappopolazione della vecchia capitale, intesa non solo come el-Khalili o Muqattam, ma la stessa area di Heliopolis e i suburbi di Giza e Nasr, non crede nessuno. “Città d’élite, per affaristi e ricconi” commentano gli edili che ci lavorano, sottopagati, da ditte saudite e pure cinesi. 

Intanto i cairoti che restano, e resteranno al Cairo, hanno conosciuto l’aumento del prezzo del pane, non solo per la speculazione delle multinazionali dei cereali, bensì per la cancellazione governativa del sostegno sociale a quello e ad altri generi alimentari di prima necessità. Di fatto la coperta finanziaria è corta, ma continua a essere tirata sulla località del sud-est, per drogare un sogno che materializza i 1.293 piedi dell’Iconic Tower, l’edificio più elevato d’Africa, circondato da tranvie e viali verdeggianti in uno spazio di decine di chilometri quadrati. Tutto ciò nonostante il Nilo scarseggi d’acqua, tutto ciò per far lievitare il debito nazionale e quadruplicarlo. Già la precedente mega opera presentata come “rinascita del Paese” - il raddoppio del Canale di Suez - non ha prodotto i guadagni preventivati: sono entrati 6.3 miliardi di dollari rispetto ai 13 miliardi attesi. Un flop che sancisce le inadeguatezze manageriali dello staff voluto da Sisi. Ma l’egiziano medio può solo bofonchiare, sottovoce, prestando attenzione a non farsi sentire dai mukhabarat, facilmente identificabili, e dalla più infida giungla di spioni di strada pronti a vendere pure amici e parenti per denaro o favori. La cittadinanza non si ribella, non può farlo, rischia galera e persecuzioni ad libitum. Subisce. Sebbene nell’ultima campagna elettorale Sisi promettesse milioni di posti di lavoro che sarebbero scaturiti proprio dal progetto New Cairo, nessuno s’aspetta più nulla. Lui stesso, che con ritocchi normativi s’è garantito un potere fino al 2030 anche prolungabile, non ha bisogno di esaltare il suo regno con una propaganda ammaliatrice: ordina e riscuote obbedienza. E’ l’ossequio del terrore.       

giovedì 6 ottobre 2022

India, l’intolleranza pop

 



‘L’India è per gli hindu, i musulmani vadano in Pakistan’ canta con aria accorata e un sottofondo musicale d’impianto neomelodico Laxmi Dubey, ex giornalista diventata folk singer. E ancora: ‘Se tu musulmano vivi in India impara a dire vande mataram (lode all’India) e resta nel tuo spazio’.  Non si fa mancare nulla l’hindutva - l’ideologia razzista e fascista che strumentalizza la fede hindu - e accompagna i facinorosi raduni dei suoi miliziani che agitano bastoni, armi bianche e armi da fuoco. Ora anche al ritmo di musiche diffuse su canali sempre più ampi. Il web è un terreno battutissimo, basta digitare “hindutva pop” su Youtube e s’apre un mondo: (https://www.youtube.com/watch?v=7HK_0WGcC-E). Fra i politologi c’è chi sostiene che tali brani, diventati popolarissimi nel Paese, siano un messaggio d’intolleranza, apartheid e violenza. Ce n’è un uso frequente nei raduni del fondamentalismo hindu per agitare animi già esaltati. Con un secolo di vita, teorizzata da Vinayak Domodar Savarkar, l’hindutva imperversa nella federazione indiana grazie non solo ai gruppi paramilitari che la sostengono da sempre, come il Rashtriya Swayamsevak Sangh, ma per la tolleranza, l’ammiccamento e il sostegno del Bharatiya Janata Party, la formazione del premier Modi. Ora che la divulgazione degli eccessi hindu viaggia su seguitissime cadenze musicali l’avversione agli ambienti musulmani raggiunge livelli parossistici. I musicisti-propagandisti hindu non hanno nulla in comune con fenomeni estremi, come quello dei rapper occidentali che, trattando temi di povertà, emarginazione, razzismo finiscono milionari per la gioia dei discografici. Magari finiscono pure all’obitorio come fu per Tupac, ma le storie sono ben distinte. Le voci dell’hindutva pop, predicano l’esclusione per gli islamici e invocano una sana violenza che li metta in riga. Nei testi d’un noto menestrello del bastone, Prem Krishnavanshi, troviamo: ‘Non sei umano, sei un macellaio…’ l’apprezzamento è rivolto a un indiano seguace del Corano. 


Eppure Prem non è povero né derelitto, non incamera odio da una condizione sociale marginalizzata. Ha studiato, è un ingegnere, viene da Lucknow, capitale dell’Uttar Pradesh, pensa di entrare nel dorato ambiente di Bollywood. Però esaspera i toni in materia di fede, predica l’altrui esclusione ed emarginazione e negli ultimi quattro anni di canzonette la sua popolarità è salita alle stelle. La sua vicenda è sintomatica: la svolta ‘artistica’ intrapresa matura dopo l’ascesa al potere del partito di Modi; la polarizzazione interna e la scalata di violenza confessionale gli hanno offerto il ‘la’ musicale e non solo. Il sostegno all’intolleranza offerto da questi ‘artisti’ va a braccetto col ruolo giocato dal partito di governo che apre spazi sempre più ampi a elementi poco raccomandabili. Dall’Uttar Pradesh - vero laboratorio dell’infuocato clima su cui soffia il Bjp - provengono due politici cui guardano i cantanti dell’hinduva, venendone ricambiati e applauditi. Si tratta di Yogi Adytianath, di recente confermato col Bharatiya Janata Party alla guida del popolosissimo Stato (241 milioni di abitanti e 50 milioni di fedeli musulmani) dove le persecuzioni anti islamiche sono all’ordine del giorno. Il nome del monaco arancione - fedelissimo oltre che di Bhrama, Vishnu e Shiva del premier Modi - sarà l’uomo di punta del Bjp per le elezioni del 2024 alle quali il primo ministro uscente non potrà partecipare per somma di mandati. L’altro campione del fanatismo è Yati Narsinghan. Un’aneddotica diffusa a mezzo stampa lo fa monaco hindu per difendere questa fede dalla ‘Jihad musulmana’, che usa ogni mezzo per umiliare e soggiogare le ragazze indiane. Lui stesso racconta un fatto che ne ha segnato la svolta: una giovane hindu che, tramite un’amica era in contatto con uno studente islamico dello stesso collegio, venne costretta a fare foto e avere rapporti con molti studenti, subendo la doppia violenza fisica e psicologica. Scosso da tale vicenda, Yati che aveva studiato all’estero (la famiglia appartiene a un ceto medio-alto) per poi lavorare in Russia e in Inghilterra, tornò in India e scelse la via dell’ascetismo, successivamente condito dalla politica dell’hindutva. L’anti islamismo è diventato la sua missione, esaltata da un’ossessiva violenza oratoria. E sulle prediche e sulla scansione di note, il livore va.      

lunedì 3 ottobre 2022

L’Iran in movimento e l’Iran bloccato

 

Un amaro incidente che gli ha spezzato il cuore, così la Guida Suprema ha definito la morte di Mahsa Amini.  Mentre le proteste infiammano da due settimane l’Iran, Ali Kamenei torna in pubblico pimpante, passando in rassegna reparti di polizia schierati in Accademia. Si celebrano le promozioni dei cadetti, tutti in alta uniforme e sorrisi, nulla  a che vedere con la furia dei colleghi che inseguono i manifestanti, sparando. Le vittime accertate - dopo la chiusura di quasi tutti i social (fino a ieri i video dei rivoltosi trovavano ancora diffusione su Telegram pur se cercano altri canali d’uscita) - s’attestano a 130, compreso qualche pasdaran. Aumentano sensibilmente fermi e arresti che hanno superato la quota di duemila. “Il dovere delle nostre forze di sicurezza è assicurare la salvezza della nazione. Chi attacca la polizia lascia i cittadini senza difese contro teppisti, ladri, estortori” ha aggiunto l’ayatollah supremo. Alla dichiarazione segue la più pesante idea della sobillazione esterna (Stati Uniti, Israele). Così l’arresto d’un manipolo di stranieri, colti nelle vie delle proteste, diventa un perfetto alibi per questa tesi. Svelata anche una notizia che circolava da giorni: la presenza d’un cittadino italiano in quel gruppo. Si tratta di una trentenne romana, figlia d’un commerciante che ha confermato il fermo dopo aver ricevuto una telefonata della giovane dal luogo di reclusione. Il genitore la racconta come appassionata di viaggi e video da postare sui social. E’ finita in un posto e in una fase roventi con le sue gambe, perché dal Pakistan è sbarcata a Teheran a fine settembre per festeggiare il compleanno e avrebbe commentato sempre sui social le rivolte in atto, probabilmente non rendendosi conto dei rischi incombenti. Della vicenda se ne sta occupando la Farnesina. Le dichiarazioni ufficiali non riescono a spiegare la crescente adesione alle proteste che hanno assunto un effetto domino. Sono gruppi relativamente contenuti cui s’aggiunge gente per via, usano la tattica dei flash mob. Si sviluppano a macchia di leopardo, specie sulle trafficatissime arterie delle città, dove il transito viene bloccato creando ingorghi e impedendo i movimenti dei reparti anti sommossa. Non quelli degli zelanti centauri in nero (probabilmente poliziotti o paramilitari) che giungono in gruppo, isolano un dimostrante, malmenandolo o neutralizzandolo con lo storditore elettrico, come mostra uno dei video che rimbalzano all'esterno a testimonianza di queste convulse giornate.

 

Tuttora la contestazione è tendenzialmente pacifica, sebbene diverse auto date alle fiamme, non sempre dai dimostranti ma dai lacrimogeni polizieschi, abbiano rappresentato un livello di scontro più elevato. Chi non va per il sottile sono i repressori: le immagini di agenti che sparano ad altezza d’uomo sono state mostrate in più occasioni e, nonostante la censura, dagli ospedali trapelano notizie di feriti e morti per colpi d’arma da fuoco. La continuazione delle agitazioni inasprisce il circuito ribellione-coercizione. Dai gesti simbolo di chiome o ciocche tagliate, dai bei capelli al vento di ragazze che danzano in strada, ai ‘sacrileghi’ falò di hijab, ai gruppi di studenti che picchiano con sbarre, rispondendo alle manganellate che li rincorrono sia di uomini in divisa, sia di civili, in genere basij e guardiani della Rivoluzione difensori dell’Iran della conservazione. La Storia può ripetersi, ma anche no. Così alla recente notizia della protesta che entra nell’università e assieme a essa entra la scia di basij picchiatori, vengono in mente scene simili: quelle del 1999 e poi del 2003, tutte vissute nella fase del più democratico chierico diventato presidente: Mohammad Khatami. Quando i maggiori riformatori che lo seguivano: intellettuali, clero riformista, tante donne inventavano le ‘notti senza notte’, movide motorizzate gettate in faccia ai soprusi della Gasht-e Ershad e contro gli ayatollah più tradizionalisti. E ancora: scontri negli atenei e scontri di strada con arresti (nel 2003 oltre 4000) e accuse di spontaneismo rivolte ai ‘senza organizzazione’ da Tahkim-e Vahdat, la storica struttura studentesca, nata con la Rivoluzione del 1979, eppure lanciata contro le teste oscure del regime. Anche allora ballavano accuse di sobillazione statunitense - refrain vecchissimo ma non privo di sospetti - che mescola desideri neonati con losche manovre sempre pensate alla Casa Bianca. Se l’aria, quella buona e quella stantìa, che aleggiano sui cieli iraniani sono differenti dal vento già conosciuto, si vedrà. Certo, le generazioni mutano, i tempi corrono velocissimi. I ventenni attuali in terra persiana sono diversi pure dai loro coetanei dell’Onda verde, tredici anni si sentono. Solo il mondo degli ayatollah appare immobile, un Raisi d’oggigiorno sembra incarnare le visioni più retrograde del clero sciita, come fosse un redivivo Mesbah-Yazdi. Per non parlare del presunto delfino Mojtaba, che Khamenei vorrebbe al suo posto post-mortem. Un Paese in movimento e un Paese bloccato, due sistemi che rifiutano di capirsi.