martedì 29 agosto 2023

Pakistan, la vita politica sospesa

 



Rinviata, contestata, battagliata, ambiguamente sospesa e definitivamente lanciata venti giorni fa dal presidente Alvi, la corsa elettorale pakistana, che porta alle urne uno dei Paesi dove alberga l’islamismo fondamentalista globale, potrebbe veder correre anche l’ex presidente Imran Khan. Lui è attualmente in stato di fermo, ma da ieri la condanna che lo esclude per tre anni dalla vita politica è sospesa e i suoi sostenitori ne attendono la liberazione. Accanto a quel che appare come un ribaltone senza esclusione di colpi legali, cui partecipano severi pubblici ministeri per l’accusa e lucrosi avvocati in sua difesa, il leader dei Tehreek-e Insaf Pakistan va a riproporre un braccio di ferro politico già conosciuto. Una campagna anti casta che fa leva sui ceti meno abbienti contro i due blocchi storici dei partiti familiari: il Partito Popolare dei Bhutto e la Lega Musulmana-N degli Sharif, attualmente al governo con Shehbaz. Certo, nei quattro anni da premier Khan ha parzialmente offuscato l’immagine da contestatore della vecchia politica nazionale.  Le accuse rivoltegli di mancanza di trasparenza attorno ai regali non dichiarati in qualità di premier sembrano un cavillo, eppure per il popolino diventano la cartina al tornasole di chi predica bene e razzola male. Però l’accanimento con cui giudici, polizia, finanche agenti speciali hanno in varie occasioni attentato alla libertà dell’ex premier con arresti anche illegali, hanno sviluppato nei suoi confronti una solidarietà militante pari solo a quella che contorna Erdoğan oppure Trump. Toccare Khan può scatenare battaglie di piazza senza esclusione di colpi. Eppure il sistema statale pakistano non fa sconti a nessuno, in passato figure insospettabili del calibro di Benazir Bhutto e Nawaz Sharif sono incappate nella dura legge in un Paese dove tensioni e conflitti d’ogni genere sono di casa.  C’è da capire come in alcune province reagiranno gli strati popolari marginali che nel 2018 avevano riversato il voto sul Pti, un consenso strappato pure a coloro che prestano ascolto all’antistato di formazioni come il Movimento Muttahida Qaumi che da decenni raccoglie nella provincia Sindh i cosiddetti muhajir, i musulmani di lingua urdu d’origine indiana.  

 

Quest’organizzazione ha conosciuto alti e bassi, scissioni interne, la durissima repressione proprio d’un decennio fa nota come “operazione Karachi” nella quale il Movimento fu attaccato e perseguitato per quasi due anni dal raggruppamento paramilitare dei ‘Rangers’ che serviva il governo della Lega Musulmana-N. Testimonianze mediatiche dell’epoca raccontavano di “mezze fritture” o “fritture complete” con cui venivano indicati in gergo ferimenti o esecuzioni sommarie di attivisti nella megalopoli meridionale. Altre formazioni islamiste: Jamiat-e Islami, Jamiat Ulema-e-Pakistan, Tehreek-e-Labbaik Pakistan, Tehreek-e Taliban Pakistan tuttora fanno convivere progetti di ribellione socio-politica, inseguendo il sogno dell’Emirato pakistano, e interlocuzione coi governi che si succedono. Alla cui guida ci sono stati Nawaz Sharif, persecutore e interlocutore di più d’un gruppo fondamentalista, e lo stesso Khan, finora solo dialogante, a tal punto d’essersi speso per il rilascio d’un rissoso galeotto come Hussain Rizvi, capo dei Tehreek-e Labbaik. In realtà, al di là di mosse estemporanee e populiste incarnate dai due ex premier, i veri registi d’ogni apertura o chiusura all’islam fondamentalista sono i vertici delle onnipresenti Forze Armate. Così fu per l’operazione Karachi fortemente voluta dai generali Rizwan Akhtar e Bilal Akbar, le cui carriere si conclusero alla guida dell’Inter-Services Intelligences per il primo, mentre il secondo divenne direttore generale dei temibili ‘Rangers’. Chiaramente il fanatismo religioso deobandi, che ispira più d’uno dei gruppi islamisti citati, risponde per le rime: a ogni azione subìta ne segue una contraria e altrettanto sanguinaria. Al cosiddetto colpo tagliente ‘Zarb-e Azb’ del giugno 2014 (migliaia di vittime anche fra la popolazione civile nell’area del Waziristan, una delle aree ad alta presenza talebana) voluto da un altro generale, omonimo ma non parente di Sharif, sei mesi dopo succedeva la strage della scuola militare di Peshawar (145 figli di alti ufficiali massacrati dai guerriglieri TTP). Semplicemente, occhio per occhio. Ora, in attesa delle elezioni, seppure l’intera politica pakistana sostenga che il terrore fondamentalista sia stato piegato, sotto la cenere delle contraddizioni cova il fuoco. Dalle proteste alle bombe. 

mercoledì 23 agosto 2023

Brics e contorni

 


Nei quasi quindici anni di vita, che non son molti ma per gli intrecci internazionali sono stati intensissimi, l’acronimo Bric, diventato nel 2010 Brics, s’è circondato di aspettative e dubbi. Stava e sta per Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica, ex imperi, giganti in espansione, colonie in rilancio. Tutto condito da cifre da capogiro: 42% della popolazione mondiale, 27% dell’economia globale, un quinto del commercio terracqueo. Eppure, dopo un quinquennio di speranze, nelle aree mondiali dove queste nazioni interagiscono, accanto a contraddittori scenari interni, le intenzioni devono fare i conti con realtà in evoluzione. Che non sono rosee per nessuno. Ma qual era l’intenzione primaria del gruppo? Non è stato mai un segreto: difendersi dallo strapotere statunitense e contrattaccarlo, dalla sfera economica a quella geopolitica, quest’ultima direttamente correlata alla strategia militare. Qui la strada s’è presentata subito in salita, visto il corpaccione degli armamenti americani che tuttora non ha pari al mondo per tecnologia e finanziamenti (860 miliardi di dollari nel 2023, più d’un terzo dell’investimento globale). Non secondaria, poi, la linea delle alleanze che, con la storica North Atlantic Treaty Organization sorta nel 1949, riunisce attualmente gli eserciti di 31 Stati membri, per una spesa di trentamila milioni di euro nell’anno in corso, cifra capogiro per la stessa Cina, figurarsi per il Sudafrica. Ma i Brics non puntano a far la guerra al colosso americano, almeno con le armi. La strategia è l’aggiramento, anzi la corrosione proprio delle vicinanze mercantili, di partenariato economico-finanziario, e di quello geopolitico. Certo, nulla a che vedere col terzomondismo degli anni Cinquanta, quando fra i due blocchi da Guerra Fredda, veniva lanciata la terza via dei “non allineati” attorno a figure che si smarcavano a est e a ovest (Tito, Nasser, Nehru). Del resto il tempo corre, l’India dell’indipendenza di Nehru e Gandhi contava 328 milioni di concittadini, l’attuale di Modi ha superato 1.400 milioni d’individui, quintuplicandosi in ottant’anni. Nell’anno  corrente dovrebbe strappare alla Cina il non esaltante primato di Paese più popoloso del globo, su un pianeta che stenta a tirare avanti proprio per sovrappopolazione e conseguente inquinamento per sostenere un modello di vita ormai standardizzato e per nulla garante della stessa biosfera. Questo disastro operato in un paio di secoli di sedicente sviluppo, tutto a trazione occidentale, ha ora responsabilità dirette fra i componenti dei Brics, che però, come il blocco avverso, non se ne curano. 

 

In realtà l’ultimo aggregato della sigla, il Sudafrica attualmente guidato dal presidente Ramaphosa, pensa per il proprio  continente a un riscatto dai percorsi stilati da vecchi e nuovi padroni. Ma fra quest’ultimi può trovare l’omologo Xi Jinping, suo ospite in queste ore a Johannesburg, con cui pensare addirittura di predisporre un sistema monetario alternativo al dollaro (idea considerata irrealistica da monetaristi ed esperti finanziari), difficilmente potrà dissuaderlo dalla mole di affari con cui le aziende di Pechino asfaltano la loro via della seta nel continente che ha nutrito per tutto l’Otto e il Novecento il colonialismo europeo. Eccole, dunque, le incongruenze del raggruppamento, sbeffeggiato dai detrattori come un happening geopolitico incapace di formulare piani per l’orientamento internazionale di questioni cogenti riguardo a economia, finanza, investimenti, relazioni. In realtà, queste vengono finora affrontate dai leader dei Brics ciascuno per la propria strada, che per India e Brasile non è certo di conflitto e rottura con Washington e il blocco europeo. Eppure proprio perché, come ha affermato il presidente sudafricano: ”Gran parte delle decisioni mondiali vengono prese nell’interesse dei Paesi occidentali, c’è un vuoto che può interessare nazioni in via di sviluppo”. Una verità che non fa una grinza e porta quaranta Stati a guardare e sperare nello sviluppo strategico dei Brics e ventitré a chiederne l’adesione. Fra costoro Arabia Saudita ed Egitto, che hanno garantito un assetto politico favorevole agli Usa anche nei recenti anni della disattenzione di più d’un presidente americano in Medioriente. Comunque le contraddizioni internazionali del chi è amico di chi - ben oltre appartenenze e accordi, basti pensare al comportamento del membro Nato turco in Siria, Libia e in vari “avamposti” africani da Mogadiscio a Dakar - potrebbero lanciare avvicinamenti tattici fra attori regionali finora contrapposti, ancora i sauditi e gli iraniani, e fra quest’ultimi e altri colpiti come loro dagli embarghi (la Russia putiniana). Con un benestare ben più ampio fra gli appartenenti ai Brics e i pretendenti a trovarvi posto:  Algeria, Egitto, Nigeria, Congo, Etiopia in Africa; Argentina, Venezuela, Bolivia in Sudamerica; Indonesia, Vietnam, Myanmar in Asia; le citate Arabia Saudita, Iran, Kazakistan in Medioriente. Molte nazioni hanno più da chiedere che da dare, ma nel mondo che si muove le compagnìe di strada possono risultare più vantaggiose delle parentele di lungo corso. 




mercoledì 16 agosto 2023

Emirato afghano: non è un Paese per donne

 


Zabihullah Mujahid - il turbante che nella prima conferenza stampa dell’Emirato, il 17 agosto di due anni fa, rispondeva alle domande degli ultimi giornalisti stranieri rimasti ancora a Kabul - è la voce narrante e la presenza vivente d’un documentario curato da Najibullah Quraishi e Mike Healy apparso su Al Jazeera:

https://www.aljazeera.com/news/2023/8/15/taliban-marks-two-years-since-return-to-power-in-afghanistan

Viene proposto nel secondo anniversario dell’ingresso trionfale dei militanti islamici nella capitale afghana. Mujahid, che continua a ricoprire il ruolo di portavoce ufficiale dell’Emirato è un comunicatore all’apparenza mite, nel filmato viene mostrato sotto i monti che dominano Kandahar, il cuore pulsante dell’ex movimento guerrigliero diventato amministratore del potere. L’uomo, scortato da un paio di miliziani armati, incede fra l’immancabile polvere e i tanti sassi sino a raggiungere una collinetta sotto cui s’intravede un lago. E parla. Rammenta le sofferenze della gente e degli stessi combattenti che da vincitori devono trasformarsi in gestori del bene comune. E’ la nuova sfida cui sono chiamati i resistenti di ieri: nel luogo mostrato, l’area di Aino Mina, dovrà sorgere una diga che permetterà di rifornire d’acqua la città. Mujahid non dice entro quanto tempo.  Del periodo di guerriglia ricordo quasi la spensieratezza perché non avevamo responsabilità di governo… Durante l’occupazione straniera non avevamo neppure un posto piacevole dove riparare… Non potevamo girare liberamente nelle città… Oggi siamo felici… Abbiamo problemi economici, abbiamo fatto passi positivi, ma non abbastanza… La gente vive ancora fra crimini e sequestri… C’era un’epoca in cui gli aerei volavano sulle nostre teste, erano aerei statunitensi, ci mettevano paura… Abbiamo un emiro come leader, in accordo con la Shari’a l’emiro ha tutto il potere, se non ci fosse un leader il Paese potrebbe cadere perché ci sono sempre conflitti…”

 


Lo scenario cambia: Mujahid prende un volo per la capitale, deve raggiungere il Palazzo governativo dov’è il suo ufficio. Lì, fra le altre, riceve anche delegazioni di cittadini, imprenditori, mercanti. Giardini curati, edifici ben tenuti per un’immagine di decoro che assimili una Kabul ‘pacificata’ ai luoghi di rappresentanza delle nazioni che non vogliono concedere all’Emirato l’ufficialità agognata. “Ecco la bandiera dello Stato Islamico, bianca, simbolo del Jihad contro la corruzione americana… Il simbolo della libertà…”. Nel Palazzo lavorano mille dipendenti, nessuna donna. “Non abbiamo ostilità nei confronti delle donne, col tempo lavoreranno e studieranno… Negli uffici per i media incontro giornalisti, ma non solo… Il popolo non ha nulla, né cibo né salute… Ci sono problemi economici e depressione, occorre pregare Dio per risolverli…” Ed ecco la visita d’un gruppo di cittadini, clima informale e diretto: “Caro signore, in questo momento i container vengono fermati alla dogana che ha la facoltà di svuotarli. Quando giungono a Jalalabad il ministero delle Finanze sostiene che occorre pagare 10 dollari anziché uno… La tassa è cambiata, noi non possiamo pagare 9 dollari in più… Se la tassa sale aumentano anche i prezzi delle merci al dettaglio… Il Paese ha sofferto a lungo, è debole. Noi non veniamo qui con l’intenzione di danneggiare il governo… Noi vi sosteniamo, ma questo sostegno non alleggerisce le nostre finanze, non potete darci meno e invitarci a sostenervi…” Nel filmato, che illustra una mattinata del portavoce talebano, c’è spazio per due appuntamenti che toccano due nodi scorsoi della gestione talebana: la questione delle minoranze religiose, ovviamente islamiche nella fattispecie gli sciiti di etnìa hazara, i diritti femminili. Agli hazara, che continuano a costituire l’obiettivo di attentati con attacchi suicidi da parte del fondamentalismo soprattutto dell’Isis Khorasan, Mujahid dopo averli abbracciati e chiamati fratelli riserva un paragone: “La popolazione afghana è mescolata come l’acqua che non può separarsi se non costruendo una barriera. Quando rimuoviamo gli ostacoli, l’acqua si riunisce…” Il gruppo potrà considerarsi felice dell’accoglienza, non sicuro. 

 

L’unica donna incontrata nella “giornata particolare” di mister Zabihullah è l’ormai anziana attivista Mahbouba Seraj (75 anni). Rientrata in Afghanistan nel 2003, dopo un lungo autoesilio negli Stati Uniti, Seraj aveva conosciuto la galera nel suo Paese dominato dalle faziose fazioni del partito comunista di fine anni Settanta. Nel periodo dell’occupazione Nato Mahbouba, che è anche una giornalista, ha lanciato il programma radiofonico “Il nostro caro Afghanistan”. Contemporaneamente sosteneva il network non profit Afghan Women impegnato nella difesa della salute di donne, madri e figli. Dopo l’avvìo del secondo Emirato Seraj è rimasta a Kabul, rifiutandosi di lasciare il Paese, una scelta che altre attiviste dei diritti non hanno potuto o voluto fare. I maligni sostengono che la discendenza reale di Mahbouba (è nipote del sovrano progressista del secolo scorso Amanullah Khan) l’abbia aiutata nella scelta. Certo, la sua notorietà internazionale anche in seno alle Nazioni Unite, le creano se non proprio una protezione un’aurea carismatica. Ma lei ci mette del suo, non vuole lasciare sguarnito un presidio durato vent’anni, sa che l’esempio, soprattutto delle attiviste più conosciute, non dev’essere sguarnito. Così denuncia l’apartheid creato dal nuovo regime, che mutila la vita femminile, impedendo ormai tutto. Istruzione sopra i 13 anni, lavoro, uscita di casa, ultimamente anche la possibilità di recarsi da una parrucchiera. E non importa che tante donne povere non possono comunque permetterselo, anche quest’impostura costituisce una gabbia e un’umiliazione di genere. Lei entra nell’ufficio di Mujahid quasi senza bussare “Non è possibile avere una generazione di ragazze che non vanno a scuola, tutto il mondo sarà contro di voi… E mentre l’interlocutore rammenta che c’è una parte di giovani e studenti oppositori del governo, facendo quasi intendere che l’esclusione deriva da questo, Seraj afferma perentoria: “Puoi prendere il potere con la forza, non puoi tenerlo con la forza…” Sembra un monito, diventa un messaggio nell’anno secondo del secondo Emirato.  

martedì 8 agosto 2023

Storie di premier e candidati “fuorilegge”

 


Mettere fuorilegge un avversario ingombrante sembra una pratica galoppante nella realtà politica di parecchi Paesi. Sta nuovamente accadendo al tanto discusso ex premier pakistano Khan, i cui detrattori più che sul fronte avverso della Lega Musulmana-N, attualmente al governo, aleggiano fra la casta militare che vigila sui partiti e influenza l’azione della magistratura. Sorte simile in India per Rahul Gandhi, escluso dal Parlamento, ora appena riammesso ma sempre sul filo del rasoio per poter partecipare alle elezioni del prossimo anno. E poi nella Turchia di Erdoğan, recente vincitore delle presidenziali turche contro il leader repubblicano Kılıçdaroğlu, visto che l’emergente sindaco di Istanbul İmamoğlu, sempre in quota al Chp, era stato fermato dai giudici per aver pronunciato frasi che mettevano “in pericolo la sicurezza dello Stato”. Chi ha messo in pericolo quella sicurezza – secondo il Partito Democratico americano – è Donald Trump, i cui adepti assaltarono Capitol Hill nel gennaio 2021, non accettando il risultato elettorale che aveva sconfitto l’esponente repubblicano. Ogni caso è a sé, soprattutto la vicenda di Trump è oggettivamente la più inquietante sebbene gli assalitori del Campidoglio apparissero più comparse d’una commedia di fantapolitica che reali golpisti. Invece lì dove un golpe è stato tentato, in Turchia nel 2016, gli strascichi della stretta repressiva oltre alla durezza dell’epurazione contro i presunti complottatori (i seguaci di Fethullah Gülen) s’è riversata su altre componenti ed è rivolta al libero pensiero e alla critica dell’apparato del partito di regime: l’Akp di Erdoğan. Agisce come una piovra che stritola chi s’oppone all’induizzazione della società un’altra formazione di regime, il Bharatiya Janata Party mossa dal guru Narendra Modi che punterà al terzo mandato alle prossime politiche indiane del maggio 2024. La cui elefantìaca macchina elettorale, che conta circa un miliardo di potenziali elettori, ha iniziato a muoversi. E visto che il numero di chi s’affaccia alle urne per la prima volta è in esponenziale crescita, il partito di maggioranza pensa a orientare il voto dei più giovani reclutando a suo vantaggio influencer con milioni di seguaci sulle piattaforme social. 

 

Egualmente non demorde nel tentativo di ostacolare un candidato (Gandhi) che, sebbene porti un cognome appesantito da storie di clan familiari che per decenni recenti hanno oscurato l’origine quasi mistica del Mahatma, viene considerato una speranza dell’India democratica, multietnica e multireligiosa. Quell’India contraria alle imposizioni del fanatismo dell’hindutva, un radicalismo razzista sdoganato e ormai cavalcato dal partito di governo. Proprio ieri Rahul è stato riammesso alla Camera indiana, poiché la Corte Suprema ha sospeso la condanna per diffamazione del premier Modi. Aleggia però una riserva del Tribunale che potrebbe rimetterlo fuorigioco al momento opportuno: le settimane precedenti le politiche di maggio. Attualmente chi resta fuori da una possibile corsa parlamentare è l’ex campione di cricket ed ex premier pakistano Khan, che ha vissuto un anno pericoloso assai. A seguito della protesta, partecipatissima, lanciata nella primavera dello scorso anno contro quello che definiva un complotto contro la sua persona e il Tehereek-e Insaf Party di cui è capo, un complotto a suo dire internazionale manovrato dalla Casa Bianca, riceve una serie di avvertimenti da avversari diventati sempre più numerosi. Ad agosto 2022 gli viene vietato di partecipare alla marcia e a registrare arringhe politiche, a ottobre la Commissione elettorale lo accusa di pratiche corruttive, espellendolo dal Parlamento. Lui subito dopo rilancia un’ennesima manifestazione, a novembre durante un comizio viene ferito a una gamba in un attentato. Eppure non demorde e ordina lo scioglimento delle Assemblee rappresentative controllate dal suo partito nelle popolose province del Punjab e del Khyber Pakhtunkhwa. Nel marzo scorso un raid poliziesco gli circonda la villa di Lahore: vogliono arrestarlo, ma devono fermarsi. Appresa la notizia dell’operazione i militanti del Pti attaccano la polizia, ne seguono scontri con morti e feriti. Però l’arresto è solo rimandato. Nel maggio scorso, mentre Khan si reca in Tribunale per difendersi dall’accusa di avere ricevuto regali durante il suo mandato da premier senza denunciarli, viene prelevato da agenti speciali dell’Intelligence e condotto in carcere. Successivamente liberato viene in questi giorni privato della possibilità di partecipare alle elezioni fissate per il prossimo novembre. L’accusa è la medesima: corruzione. Lo scontro della carta bollata e dei tribunali è real politik e travalica quello delle urne e pure delle piazze. 


 

domenica 6 agosto 2023

Le carenze nella Turchia terremotata


E’ l’acqua il bene preziosissimo tuttora carente nelle aree turche colpite dal terremoto di sei mesi or sono. Soprattutto la provincia di Hatay ha risentito dell’ondata di calura, con oltre 40 gradi centigradi, che ha colpito l’intero Mediterraneo dalla Spagna all’Anatolia. Ora le temperature sono relativamente scese, ma gli sfollati ancora sistemati nelle tendopoli risentono della carenza d’acqua corrente. Farsi una doccia continua a rappresentare un sogno perché molte condutture di canalizzazione sono ancora in fase di ricostruzione. Né è coscienzioso usare l’acqua potabile per simili bisogni. Quest’ultima comunque giunge in ogni tendopoli, mentre in alcuni casi le unità sanitarie lanciano un’attenzione particolare sui rischi che un’igiene precaria può produrre nella stagione calda. Situazioni d’infezioni intestinali si sono già verificate, i medici attraverso la Protezione civile invitano la popolazione a un accurato lavaggio della frutta e di verdure e ortaggi, soprattutto se consumati crudi. Ovviamente senza l’acqua corrente tutto è più complesso. Diversi sindaci e autorità locali si sono lamentati delle lungaggini burocratiche attuate dal governo centrale per gli aiuti strutturali, l’Agenzia che presiede il controllo delle acque reflue (Hatsu) è stata più volte criticata e additata come inefficiente, la stessa Afad, agenzia governativa per l’assistenza ai terremotati tanto difesa dal presidente Erdoğan, continua ad attirarsi polemiche per l’inefficienza mostrata in più occasioni. In alcune località ci sono ancora tonnellate di macerie da rimuovere. Anche per simili operazioni l’uso dell’acqua è indispensabile per non sollevare una gran quantità di polvere. Nelle situazioni in cui i cumuli di detriti si trovano fra palazzi rimasti illesi nei quali gli abitanti sono tornati a vivere e i calcinacci, proprio per la mancanza d’acqua, vengono caricati sui camion privi di una provvidenziale innaffiatura, la polvere vaga nell’aria per ore, provocando sui più fragili laringiti e asma. Quando invece a non essere collegata è la rete fognaria, oltre ai miasmi lo scolo del liquame produce contaminazioni con casi di diarrea e salmonella. Insomma esiste un’emergenza. Tutto ciò nonostante le reiterate promesse lanciate nei giorni successivi al disastroso sisma (una magnitudo 7.8 della scala Richter) che ha provocato solo nelle province turche  oltre 50.000 vittime, 120.000 feriti e 5 milioni di sfollati. 

 

Sia il presidente uscente, in corsa a maggio per la riconferma che poi c’è stata, sia rappresentanti locali dell’Akp promettevano immediati soccorsi, ripristino dei servizi nelle settimane seguenti, ricostruzione degli alloggi a un anno dalla catastrofe. In quegli stessi distretti molti turchi gli hanno creduto o comunque hanno ribadito la fiducia a un ceto consolidato. Ora le carenze appaiono senza possibilità di alibi e una contraddizione ancora maggiore potrà riguardare la ricostruzione, perlomeno nei tempi  visto che mancano sei mesi alla data di marzo indicata proprio da Erdoğan. Rispetto alla qualità delle nuove abitazioni che dovranno seguire rigidi protocolli antisismici, c’è chi si augura che non si ripeta la prassi del terremoto del 1999, quando a un rigore costruttivo solo annunciato non s’accompagnarono gli adeguamenti delle imprese edili e i dovuti controlli da parte dello Stato. Nei crolli causati dal terremoto dello scorso febbraio, sicuramente fra i più violenti non solo della Turchia, tanto che i sismologi hanno valutato lo spostamento di alcuni metri verso ovest della placca asiatica, fra gli edifici polverizzati c’erano anche strutture con neppure un decennio di vita. Questi risultavano totalmente inadeguati alle normative vigenti, ma egualmente resi abitabili da controlli inefficienti o da collusioni tangentizie intercorse fra costruttori e amministratori. Qualcuno di loro è stato arrestato, però il disastro evidenzia mancanze amplissime a danno unicamente degli abitanti. A costoro governo e presidente hanno promesso giustizia, ripristino delle perdite immobiliari e di altri beni. Per farlo non basteranno 100 miliardi di dollari. Dall’Unione Europea ne sono giunti 7 miliardi nel primo mese, si ventilavano investimenti dall’estero, dalle petromonarchie all’Occidente.  Tutto è in divenire, con ricadute anche geopolitiche dato che il Sultano vanta rapporti e centralità soggettiva in molte controversie internazionali, e nei favori globali una mano lava l’altra.  Oggi l’emergenza nelle aree del sud-est turco grida: acqua, infrastrutture, ospedali e medicine per chi si sente dimenticato. Fra sindaci che mancano di risorse oltreché di stipendio, danni psicologici a chi denuncia una sorta d’abbandono e le scadenze dietro l’angolo: l’avvìo dell’anno scolastico che vedrà tanti studenti senza istituto e l’incedere dell’autunno con le temperature rovesciate, passando dall’afa soffocante, all’umidità dei temporali.  

mercoledì 2 agosto 2023

Pakistan, ritorno alle stragi

 


La bomba sotto le sedie che raccoglievano i militanti del Jamiat Uleme-e Islam Fazal, gruppo politico pakistano neppure tanto seguìto,  domenica scorsa ha fatto 54 morti e oltre 200 feriti nel distretto di Bajaur. Fra quest’ultimi si contano casi disperati che faranno salire il numero delle vittime. Torma la prassi del terrore in un’area di confine che si trascina da oltre un secolo una storia imposta dall’alto. L’attuale provincia pakistana del Khyber Pakhtunkhwa è nota anche come Sarhad, che in pashtu vuol dire frontiera. La regione si chiamava anticamente Gandhara e anche Afghania, cosa che non accontenta l’etnìa pashtun lì insediata in maggioranza. Costoro non amano la denominazione coloniale frutto dell’accordo di fine Ottocento fra il segretario del Raj britannico Mortimer Durand e l’emiro Mohammed Khan, a seguito del quale venne tracciata la linea di demarcazione che prende il nome del diplomatico inglese e ha dato vita all’Afghanistan moderno. In tal modo si divise inesorabilmente la popolazione pashtun, per una parte insediata a ovest e per un’altra a est dei 2.640 km di quel confine. Certo, questo è un passato storico, di vicende ne sono accadute molte: l’inesistente Pakistan è sorto nel 1947, la monarchia afghana è diventata repubblica e poi territorio di guerra, civile e di conquista. Eppure le radici ideologiche dell’attentatore di domenica e dell’Isis Khorasan che ha rivendicato l’attacco stanno nella visione califfale della Umma islamica, contro il ruolo degli stati nazionali, repubblicani o monarchici, sposato dalla formazione Jamiat, e interno al  sistema pakistano. Visioni antitetiche e conflittuali. A questo si può aggiungere la guerra strisciante che l’Isis-K ha avviato dal 2018 contro i talebani afghani, promuovendo già all’epoca del governo Ghani una soluzione risultata perdente, ma ricca di spargimento di sangue fra la gente. Per mostrare chi fosse più potente si facevano detonare ordigni nei luoghi più frequentati: piazze, mercati, moschee, scuole. 


Anche l’attentato a Bajaur ha la funzione ‘vitale’ per l’Isis-K di mostrare presenza e capacità d’attacco in un territorio da sempre sotto l’influenza di forze fondamentaliste che non si son fatte scrupolo di colpire anche l’istituzione della forza per eccellenza: l’esercito pakistano. Una lobby potentissima che condiziona la politica locale e nazionale. La crisi politica, che da oltre un anno condiziona la vita interna, ha visto proprio elementi della gerarchi militare sostenere e poi scagliarsi indirettamente contro l’ex premier Khan e il suo partito. L’autunno si prospetta particolarmente caldo perché entro l’anno si dovranno tenere le elezioni con cui la linea populista e anticorruzione del partito Tehreek-e Insaf di Khan cercherà di fare il pieno alle urne come nel 2018. E se le maggiori formazioni, il Partito Popolare dei Bhutto e la Lega Musulmana-N, dei fratelli Sharif (Shahbaz è l’attuale primo Ministro) daranno battaglia alle urne, l’altra battaglia che si teme porta il nome di altri Tehreek i Taliban Pakistan, fraterni sodali dei talebani afghani. Come quest’ultimi i pur violenti e attentatori TTP perseguono un progetto differente dallo schema califfale dell’Isis-K. Non accettano il fanatismo con cui quest’ultimo vuol dettare legge in fatto di “purezza” teologica con la quale giudicano e marchiano come infedele chiunque non segua le loro posizioni. Così l’epiteto takfir si spreca all’interno della propaganda dell’Isis rivolta alla stessa comunità islamica che può venir colpita fino alle estreme conseguenze, come mostra l’attentato di domenica. Anche per questo gli analisti prevedono una campagna elettorale insanguinata per mano di chi non partecipa alle elezioni, ma può condizionarne i risultati e vuole, comunque, interferire col futuro del Paese. E il fattore insicurezza non può che giocare a a favore dei poteri forti interni: Forze Armate, polizia, Intelligence che, come da decenni, offrono sponda ai partiti per manovrarli meglio.

martedì 1 agosto 2023

Carbone contro legname nella Turchia profonda

 


Definirlo “Occupy Akbelen”, sul modello di “Occupy Gezi Park”, potrebbe non portar bene alla protesta che scuote da oltre una settimana un’area boschiva nella sperduta provincia turca di Tokat. Un’ottantina di chilometri in linea d’area dal Mar Nero, a metà strada fra Samsun a settentrione e Sivas a sud, la zona abitata da poco più di mezzo milione di abitanti rientra nella fascia rurale rimasta per decenni inalterata. Abbandonata dicono i sostenitori, in maggioranza pro Akp, che appoggiano le trasformazioni tecnologiche del liberismo governativo. Incontaminata, puntualizza l’opposizione che riunisce kemalisti del Chp, sinistra ambientalista e filo kurda che sta dando sostegno alla protesta dei locali contro l’abbattimento di un’estensione amplissima di pini marittimi e abeti. Lo scontro nasce per l'attuazione d'un piano energetico da parte della potentissima Limak Holding che lì intende creare delle centrali termoelettriche che utilizzano il carbone. Ma come, diranno i più, ancora carbone? E l’inquinamento atmosferico? e il cambiamento climatico? Non è un segreto che l'antichissimo 'oro nero' continua a essere una fonte d’energia usatissima. Le potenze mondiali dell’economia ne procrastinano la data di dismissione, soprattutto il gigante cinese, India, Indonesia, Australia, Stati Uniti, Russia proseguono a estrarre, smerciare, bruciare carbone. Ma ci siamo anche noi e la Germania poiché le sanzioni al gas russo, applicate col conflitto ucraino, stanno rilanciando impianti energetici che usano il fossile. La Turchia non è da meno e l’azienda fondata nel 1976 da Nihat Özdemir, nativo proprio nell’area kurda di Diyarbakir, che fiuta affari, li afferra come una piovra anche per il rapporto di reciprocità che ha con ogni tipo di esecutivo, non è intenzionato a fermarsi davanti al risentimento popolare. Per ora si è mobilitata la non numerosa comunità locale, gente rurale, pastori e boscaioli, cui stanno dando manforte attivisti che si contrappongono a Erdoğan. Impegnato nella macro politica, il presidente non ha finora profferito parola sulla vicenda, che vede comunque il governo sostenere gli interessi della Limak  colosso dell’economia della mezzaluna turca. Energia, costruzioni, infrastrutture, turismo, settore alimentare sono tutti campi in cui l’azienda investe, progetta e realizza, fermarla vuol dire limitare l’impulso industriale e la distribuzione del lavoro. Queste sono le direttive attorno alle quali i ministri dell’Economia, dell’Energia, dell’Ambiente, il governatore locale si confrontano e cercano soluzioni per trovare una quadratura del cerchio che accontenti tutti. Sarà difficile, anzi impossibile. Anche perché dopo giornate di protesta simbolica, è iniziata la resistenza passiva e attiva attorno ai fusti arborei che vengono abbattuti. Poliziotti in assetto antisommossa rintuzzano i manifestanti, li allontanano con lacrimogeni e idranti, e incrementano la rabbia sia l’avvio d’una repressione violenta, sia notizie - secondo gli ambientalisti non attinenti a verità - che in altri punti della zona verranno piantumati ulivi. Finora si son viste solo mega pale per l’abbattimento e tronchi a terra. La lotta prosegue, per ora…