venerdì 30 gennaio 2015

Jelpke (Die Linke) “Il nostro sostegno a Pkk e Pyd, per la democrazia di base e uno sviluppo non capitalista”

Ulla Jelpke era fra i dieci parlamentari Die Linke che nello scorso novembre sventolarono nel Bundestag la bandiera del Partito Kurdo dei Lavoratori. Il gruppo protestava contro la revoca dell’immunità parlamentare alla collega Nicole Gohlke che chiedeva d’abolizione della messa al bando del Pkk, una misura in vigore in Germania dal 1993. Abbiamo raggiunto la deputata Jelpke a Berlino.

Onorevole, perché avete deciso di solidarizzare col Pkk?
Nei molti viaggi svolti fra la Turchia orientale e la Siria settentrionale ho conosciuto il Pkk e il suo partito fratello Pyd, impegnati in un’originale prospettiva di emancipazione in Medio Oriente che va oltre i movimenti classici di liberazione nazionale. Anche in Germania, il Pkk è la forza dominante fra le kurde e i kurdi politicizzati. Inoltre, in quanto esperta di politica interna, dovevo occuparmi dell’ostracismo politico che il Pkk subisce nei nostri Land e solidarizzare con gli attivisti perseguitati per quel divieto.
E’ una scelta dell’intero gruppo parlamentare Die Linke o di alcuni di voi?
Ora dell’intero gruppo. A lungo solo un manipolo di deputati, che sono stati osservatori durante le elezioni nei territori kurdi della Turchia o che hanno molti residenti kurdi nella loro circoscrizione, s’interessava al tema. Altri deputati Die Linke lo evitavano perché temevano d’essere assimilati ai “terroristi”. Il quadro è cambiato dopo che, nell’estate 2014, il Pkk nel nord dell’Iraq ha salvato la vita di decine di migliaia di yazidi e cristiani soggetti agli attacchi dello Stato Islamico e dopo che le milizie kurde hanno opposto un’accanita resistenza a Kobanê. A quel punto tutti i parlamentari Die Linke hanno deciso di presentare la richiesta di abolizione del divieto del Pkk al Bundestag e d’invitare il governo federale a rimuovere questo partito dall’elenco delle organizzazioni considerate terroriste dall’Ue.
Cosa pensate delle liste di proscrizione stilate da Stati Uniti e Unione Europea?
Die Linke ha sempre rifiutato questi elenchi che considera estranei ai principi del diritto internazionale. Ci impegnamo per l’abolizione degli elenchi indipendentemente da come valutiamo i gruppi citati. Sono sicura che anche quei nostri deputati che in passato si mostravano scettici sul Pkk e sui i suoi metodi non lo consideravano un organismo terrorista. Die Linke e, precedentemente, il Pds, si sono sempre battuti per i diritti dei kurdi e una soluzione politica della loro questione.
In Europa molti hanno espresso solidarietà a Kobanȇ e ai kurdi con manifestazioni e missioni, ma nella sinistra europea non ci sono partiti che hanno compiuto una scelta simile alla vostra. L’internazionalismo è scomparso?
Non proprio. La Sinistra Europea in quanto federazione di numerosi partiti, socialisti e comunisti, ha deciso di fare una campagna contro la presenza del Pkk nell’elenco delle organizzazioni terroristiche. Anche altri membri della Sinistra Europea, come i comunisti francesi, sono stati molto attivi solidarizzando col movimento di liberazione kurdo. In Germania gruppi della sinistra extraparlamentare s’interesssano al Kurdistan; raccolgono anche denaro per armi destinate alle Unità di difesa popolare e di Difesa delle donne del Rojava. Non credo che l’internazionalismo sia scomparso, penso che viviamo un ritorno di solidarietà e Rojava ne è un esempio. Ricordo il 1° novembre 2014, quando si è giunti a manifestazioni mondiali per Kobanê. Dobbiamo considerare che in altri Paesi europei – forse con l’eccezione della Francia – non è in atto una persecuzione tanto dura del Pkk e del movimento di liberazione kurdo come in Germania.
Ancora sull’internazionalismo: in due nazioni dalla grande tradizione di sinistra – Italia e Francia – la carenza d’un intervento ufficiale ha motivi organizzativi o c’è una perdita di valori solidali nella leadership e fra i militanti?
In entrambi i Paesi esistono gruppi solidali con le lotte di lavoratori, con gli sfruttati e i popoli oppressi. Non parlerei di mancanza d’internazionalismo. Naturalmente ancora quindici anni fa i comunisti italiani erano molto più attivi nella solidarietà al Kurdistan. Per un certo tempo, durante la sua fuga, Abdullah Öcalan ha soggiornato in Italia attirando l’attenzione sul problema kurdo. La questione principale mi sembra il declino e la frammentazione dei comunisti italiani. Negli ultimi tempi la sinistra italiana s’è occupata anzitutto di sé stessa. Per un internazionalismo efficace è necessaria una certa influenza e una forza nel proprio Paese, altrimenti quell’impegno resta un gesto simbolico pieno di buone intenzioni, ma senza efficacia.
Una solidarietà attiva esiste fra i kurdi, però solo l’assedio di Kobanȇ ha condotto i peshmerga a difendere quella città. Cosa pensate del governo Barzani e del ruolo del Kurdistan iracheno nella più grande questione kurda?
Barzani persegue un progetto politico del tutto diverso dal Pkk e dal Pyd. Il suo obiettivo è uno Stato nazionale kurdo nel nord iracheno. Dubito che un simile Kurdistan indipendente darà ai suoi abitanti più sicurezza e più libertà. Già oggi la regione autonoma kurda è uno Stato mafioso governato alla maniera feudale da due o tre partiti, dove regnano corruzione e nepotismo, dove le forze di sicurezza sparano sui dimostranti che contestano il regime, dove i giornalisti critici vengono assassinati e le violenze e gli assassini sulle donne sono enormemente aumentati. Economicamente la regione kurda in Iraq è totalmente dipendente da Ankara, possiamo parlare perfino di un protettorato turco. Il margine d’azione di Barzani è stretto e si aggiunge una debolezza militare. Davanti all’attacco dell’Is ai territori kurdi, in particolare nella regione degli Yazidi, Sengal, i peshmerga sono fuggiti. Evidentemente costoro, poco più che mercenari mal pagati, non avevano il morale per combattere, a differenza dei volontari del Pkk e del Ypg che non sono intervenuti solo per proteggere gli yazidi, ma l’intera regione autonoma kurda. Mentre la reputazione di Barzani, del suo Partito democratico del Kurdistan e dei peshmerga sono finite in sofferenza, il prestigio del Pkk è molto aumentato fra la gente e gli ambienti politici kurdo-iracheni. Dopo che la maggioranza del parlamento iracheno s’è dichiarata favorevole al riconoscimento dei cantoni del Rojava, soggetti finora a un embargo anche da parte del governo di Barzani, questi è stato costretto a spedire a Kobanê gruppi di peshmerga con armi pesanti. Se Barzani rinunciasse al suo atteggiamento negativo nei confronti del Rojava si compirebbe un passo in avanti. Tuttavia non si tratta di lotte per la leadership fra Barzani e Öcalan o lotte di partito fra Kdp, Pkk e Pyd. In ballo ci sono visioni politiche e modalità di sistema. A differenza del Kdp, il Pkk e il Pyd mirano a soluzioni di democrazia di base non nazionaliste, puntano a collegare tutti i gruppi di popolazione che vivono nella regione, considerano centrali i diritti delle donne e tentano di intraprendere un percorso di sviluppo non capitalista.
Abbiamo sotto gli occhi un altro “internazionalismo”, quello dei giovani islamici d’Europa che diventano jihadisti. L’Islam fondamentalista può offrire un modello di società più avvincente del mondo globalizzato?
La sinistra in Europa deve accettare di confrontarsi con un’emarginazione sociale frutto dell’immigrazione musulmana, se non lo fa si chiude una porta in faccia. Questa sinistra non sta offrendo una prospettiva alla massa dei giovani migranti. In Germania, Francia, Italia è, con poche eccezioni, indigena e bianca. I jihadisti s’inseriscono in questa breccia. Per loro non fa differenza se si è di origine tedesca o migranti, neri o bianchi, o a quale religione si è appartenuti in precedenza. Sono decisive l’accettazione delle convinzioni jihadiste e la disponibilità a lottare per esse. Inoltre l’estremismo islamico sembra in grado di offrire soluzioni semplici perfino a problemi primari come l’istruzione, la ricerca di posti di lavoro, il rapporto coi genitori riguardo a una visione religiosa e spirituale.
Il progetto federalista di Öcalan ha possibilità di realizzarsi? Come può essere aiutato dalla politica internazionalista?
Questo progetto ha maggiori possibilità di successo dell’idea d’un Grande Kurdistan unito e indipendente sognato ancora da alcuni kurdi. La scorsa estate, nel Rojava, ho sperimentato io stessa quanto l’idea di autoamministrazione con uguali diritti entusiasmi le persone – kurdi, arabi, assiri/aramei – che vogliono costruire una nuova società. Ma a Kobanê abbiamo anche sperimentato la vulnerabilità di questo modello. Senza l’intervento dei peshmerga con le armi pesanti e senza gli attacchi aerei Usa Kobanê sarebbe caduta. Lo dico malvolentieri, ma è la realtà. Il futuro dirà quanto sarà alto il prezzo politico da pagare per il processo di emancipazione. Possiamo sostenere praticamente Rojava e il movimento dei comuni kurdi nella Turchia orientale con aiuti in denaro e materiali. Facendo conoscere a livello internazionale l’esempio che lì viene dato. Facendo affluire per un certo tempo in quelle aree, in nome dell’internazionalismo, medici e ingegneri che collaborino a costruire progetti autonomi. E naturalmente nei nostri Paesi dobbiamo opporci all’invio dall’Europa di armi ai nemici di questo modello sociale: Turchia e Arabia Saudita.
La doppiezza della linea di Erdoğan e delle petro-monarchie attorno al jihadismo è evidente, ma gli interessi economici condurranno le nazioni occidentali ad abbandonare a se stessa la questione kurda?
Forse, però potrebbe accadere anche il contrario. Proprio per interessi economici e per aver accesso alle gigantesche risorse di petrolio e gas nel nord dell’Iraq kurdo, i Paesi occidentali tendono a inserirsi nella regione. Se la Germania fornisce armi ai peshmerga, non è certo per combattere l’Is. Se questa fosse l’intenzione le darebbe soprattutto a Pkk e Ypg che combattono con successo lo Stato Islamico, non ai peshmerga che inizialmente davanti ai jiahadisti si sono ritirati. Con simili equipaggiamenti la Repubblica Federale vuole comprare i favori di Barzani per partecipare in futuro al business dell’energia. Per la Turchia è esatto dire che gli interessi economici vengono prima dei diritti umani, non possiamo farci illusioni. Una Turchia stabile che ha risolto in modo democratico la sua questione kurda, anche grazie all’imprevedibile politica di Erdoğan, attira gli investimenti stranieri più d’un Paese sull’orlo della guerra.
Quale ruolo viene ad assumere la Germania nell’attuale crisi geopolitica in Medio Oriente e nell’Europa dell’est? Angela Merkel sarà come Helmut Kohl per l’ex Jugoslavia?
Il governo tedesco intende introdursi in Medio Oriente. Ma, a differenza delle ex potenze coloniali francese, britannica e degli Usa, il suo impegno militare nella regione è ancora relativamente piccolo, seppure ci sono batterie di Patriot in Turchia e la Marina federale è davanti al Libano. La Germania manda consiglieri militari nel Kurdistan iracheno. L’obiettivo è avere un ruolo molto più attivo nell’area per non essere tagliati fuori dalla nuova ripartizione del mondo. Tutto ciò vale anche per l’Ucraina, dove la Germania appoggia unilateralmente, secondo gli interessi statunitensi, il governo di Kiev, sostenuto notoriamente anche da fascisti. Dall’altra parte la Merkel tenta un riequilibrio con Putin, perché l’economia tedesca dipende in parte dalla Russia. A differenza della Jugoslavia, nella cui distruzione la Germania diretta da Kohl e Genscher aveva un ruolo preminente, in Europa orientale il governo federale è costretto a cercare una via di mezzo fra la sua subordinazione politica agli Usa, anche in ambito Nato, e gli interessi della propria economia.
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Ringraziamo la deputata Ulla Jelpke per l’intervista. Giustinianio Rossi e Jürgen Stottko per la traduzione dal tedesco

mercoledì 28 gennaio 2015

Rojava, la tenerezza eroica delle belle bandiere

Il campo giallo con la stella rossa che garrisce al vento, immagine antica, piuttosto retorica, letta in cento poesie di patrie e soldati e guerre, di gente che combatte e crepa alla maniera antica, col fango sugli scarponi e la polvere fra i denti, riappare come se il mondo si fosse fermato. Nell’epoca dei droni - diffusori d’una morte asettica che preserva l’uccisore da rischi e dall’angoscia di vedere l’effetto della violenza portata, rendendolo killer più di qualsiasi cecchino - lo scontro di terra vissuto, rischiato, sofferto per mesi, casa per casa, da guerriglieri e guerrigliere del Rojava riempie di significato la posa della bandiera delle Unità di difesa del popolo kurdo. E’ un simbolo in bella mostra sulla collinetta dominante la spianata immensa verso il confine turco. La possono intravedere le migliaia di profughi accampati a Suruç e nelle tante tendopoli predisposte da organizzazioni umanitarie e militanti. E’ un simbolo valore immenso, non solo di vittoria che giunge da donne e uomini capaci di guardare fieri il destino e non rinunciare a difendere anche con le armi i luoghi della loro vita, contro gli ultimi nemici dai drappi neri o contro chiunque volesse privarli dell’autodeterminazione.

Rappresenta il progetto di civiltà futura del loro microcosmo, in una fase in cui la perfezione del mondo a dimensione occidentale è squassata da mille discordanze. La società dei kurdi del Rojava è basata su rapporti democratici; sul fronte economico sostiene uno sviluppo egualitario dettato dal concetto “a ognuno secondo il suo lavoro”, incentiva scienza e tecnologia preservando gli interessi di lavoratori e consumatori, e vuole tutelare l’ambiente. Sul piano dei diritti c’è massima garanzia per donne e bambini. Le prime possono e devono esprimersi nelle sfere politiche, socio-economiche e culturali. Ai piccoli dev’essere assicurato un futuro dignitoso sul piano della crescita, dell’istruzione, della collocazione sociale. Non un’utopia, ma un progetto semplice e coraggioso che sta facendo i conti con l’emergenza d’un assedio e una guerra distruttivi e ora col consolidamento della liberazione, della ricostruzione, di prossime difese. Verso le quali si muove solo l’afflato umanitario e la solidarietà militante, non le nazioni ricche e forti, osservatrici passive o galanti verso il califfo Baghdadi.


Un domani che può ripartire sotto una “luce del sole più matura... nelle ciglia, agli angoli degli occhi, il biancore baroccamente friabile, gli stracci di lana, le giaccettacce bige e i calzoni sfilacciati… la calura oppressa dal ricordo di primavere sepolte da secoli, in quegli stessi sobborghi o paesi, e pronte, Dio! pronte a rinascere su quei muretti, su quelle strade, imbevuti di strano profumo, asiatico – primule, strame, passaggi di vecchie pecore scure, fiorivano nel tepore i meli, i ciliegi. E il colore rosso aveva una brunitura, come se fosse immerso in un’aria di caldo temporale, un rosso quasi marrone, ciliegie come prugne… occhieggiava quel rosso come volesse godersi quel tepore in cui fiatava il mondo, quelle grida di operai, che erano quasi silenzio, solenni e attutite… E, su tutto, lo sventolio, l’umile, pigro sventolio, delle bandiere rosse. Dio! le belle bandiere a sventolare una sull’altra, in una folla di tela, povera, rosseggiante, un rosso che traspariva violento, con la miseria delle tovaglie… ma col fuoco delle ciliegie, dei pomi, violetto… ardente rosso affastellato e tremante, nella tenerezza eroica d’un’immortale stagione”. Così Pier Paolo Pasolini nel ricordo di battaglie che avevano cuore. Quello di chi resiste e guarda al futuro. Come fanno i kurdi del Rojava.

lunedì 26 gennaio 2015

Egitto, lo Stato dei militari



Fra la ventina di morti registrati in Egitto nel week end del ricordo (l’anniversario della Rivoluzione tradita) e dell’ulteriore protesta (sollevata contro la legge e il presidente che reprimono i manifestanti) c’è un po’ di tutto. Una dimostrante pacifica e laicissima, qual era l’attivista socialista Shaimaa, spentasi nel centro del Cairo fra le braccia d’un compagno di corteo, come mostrano drammatiche immagini sfuggite alla censura e alla persecuzione giornalistica in atto nel Paese. Una giovane studentessa colpita ad Alessandria; altri manifestanti pacifici riuniti sotto la bandiera dell’Alleanza per la Legittimità, islamici e non, che dall’agosto 2013 accusano i militari di colpo di stato. I caduti di Matariya, un suburbio popolare a nord della capitale, sono quei giovani marginali che avevano animato un’infinità di scontri anti polizieschi dalle gloriose giornate del febbraio 2011 per oltre due anni, pagando un altissimo tributo di sangue. Poi ci sono due bombaroli esplosi con l’ordigno che stavano innescando e tre poliziotti, uno ucciso in strada, due colpiti in auto nell’area di Giza, la popolosissima concentrazione abitativa orientale fra il centro del Cairo e il deserto che circonda la zona delle famose Piramidi.

Nei giorni precedenti la scadenza del quarto anno dalla caduta di Mubarak, l’opposizione rimasta a piede libero desiderosa di mostrare la sua presenza, visto che la stessa voce sul web e sui social network viene perseguitata, meditava sulla possibilità d’iniziative comuni. Lo immaginavano gli attivisti del movimento 6 Aprile, gli unici del vecchio Fronte di Salvezza Nazionale disposti a fare ammenda sulle marce anti Mursi che avevano aperto la strada alla piena restaurazione attuata dall’esercito. Loro e taluni tamarod di Tahrir, colpiti dalla repressione alla stregua dei non amati militanti della Brotherhood, pensavano a proteste collettive. Il contatto passava per “la gioventù della Fratellanza Musulmana” che però veniva smentita dalla leadership adulta, così sabato e domenica scorsa l’ipotesi unitaria non ha preso corpo. Comunque c’è stata una copiosa disobbedienza alla ferrea legge del novembre 2013 con cui Al-Sisi, ministro della difesa prima d’essere eletto presidente, colpiva la Confraternita con la messa al bando e la cittadinanza ostile con divieti draconiani, pena la fucilazione in strada.

Nelle settimane che seguirono quel novembre era giunto il bavaglio alla stampa con la sostituzione di molti giornalisti scomodi, e non per questo sostenitori dell’Islam politico, nella tivù di Stato e in noti media (Al-Ahram). Sino alla carcerazione preventiva di tre corrispondenti di Al-Jazeera (il processo ai cronisti è in corso, come la loro permanenza nella prigione di Tora) a causa di servizi che raccontavano la “transizione” del Paese verso il buco nero d’una dittatura di fatto. Fra le informazioni cercate dai tre c’era il numero delle vittime o dei desaparecidos egiziani, notizie mai pervenute da fonte governative, su cui anche associazioni per i diritti umani muovono esplicite accuse alla casta militare. Che secondo i calcoli del “generale del destino” s’è consolidata col 90% di consensi nell’urna presidenziale, l’azzeramento dell’opposizione imprigionata o fortemente ridimensionata, l’ampio scambio diplomatico verso Paesi europei e mediorientali che ne sostengono i piani reazionari, sorvolando sulle pratiche sanguinarie. La chiamata di correo vale per tutti dalla Merkel al neo sovrano Salman. Proprio Ue e Arabia Saudita hanno compiuto, e promettono di attuare, passi di sostegno finanziario all’economia della grande nazione araba che resta disastrosa.

Il popolo di Tahrir si trova tuttora orfano delle tre parole d’ordine (pane, libertà, giustizia sociale) che rappresentavano i primi passi d’un possibile cambiamento che non s’è mai avviato. In verità per incentivare il consenso Sisi ha affrontato la prima questione alla vecchia maniera, praticata già da Mubarak, riproponendo i sussidi per quell’alimento di prima necessità (l’altro sussidio riguarda il carburante e per risanare il disastroso bilancio statale nel 2012 era stato molto limitato, provocando un crescente malcontento). Sulla libertà è inutile dilungarsi. La comunità internazionale dovrebbe constatare che molti degli oppositori laici riempiono le celle delle carceri speciali accusati anch’essi di terrorismo. E se ripropongono un dissenso rischiano la vita, come e peggio che ai tempi di Mubarak. Il regime, salvato e rimesso in libertà il raìs e la sua prole corrotta, si rilancia imperterrito perché trova nella casta militare un potere tuttora non aggirabile. Sul piano della forza, com’è facile comprendere, e su quello della forza economica. L’abbiamo ripetuto a lungo: le Forze armate continuano a essere lo Stato egiziano.


Posseggono gran parte della proprietà terriera e continuano ad accaparrarne coi metodi truffaldini attuati da Shafiq e i Mubarak juniores. Controllano produzione e commercio alimentari (cereali e approvvigionamento d’acqua tramite i pozzi). Industrie di materiale edile,  per non parlare dei proventi doganali di Suez e di quelli, in realtà in anni recenti in ribasso, di buona parte dell’attività turistica nazionale. Un potere che fa scaturire clientele d’ogni genere perché offre la possibilità di vivere a una parte della popolazione. Tuttora un ampio strato, le statistiche lo quantificano in oltre 20 milioni, vive sotto la soglia di povertà ed è una bomba sociale, finora tenuta a metà strada fra l’assistenzialismo straccione  e la minaccia delle armi. E’ la società che stravede per l’esercito e lo sostiene col voto. C’è anche un altro Egitto, negli ultimi anni orientato verso l’Islam politico (addirittura salafita) e uno tuttora minoritario che guarda al jihad. Ma nel mondo arabo tutto è in movimento, quattro anni dopo la prima ribellione le situazioni possono prendere le vie più inattese. Quella del dialogo e della condivisione non è mai stata presa in esame dalla lobby armata. Il Paese resta polarizzato e sempre spaccato.  

domenica 25 gennaio 2015

Egitto, ricordare e morire



Protestava e ricordava, Shaimaa al-Sabbagh, per le vie del Cairo. Sfidando le leggi del presidente-generale Al-Sisi che da più di un anno definiscono terrorista qualsiasi dissenziente e infilano fra le sbarre ogni oppositore. Sfilava senza paura, assieme ad altri attivisti socialisti. Piccoli gruppi di temerari, senza veli né keffie di copertura a nascondere il volto. Un raduno che sapeva di testimonianza più che di resistenza. Shaimaa è stata colpita, ferita ed è morta. Col volto percorso da lacrime di sangue veniva trasportata a braccia da un compagno manifestante. Era stata raggiunta da una pallottola di gomma che egualmente le ha tranciato la vita, com’era accaduto a decine di cittadini nei giorni della ribellione e della speranza quattro anni addietro, in quel 25 gennaio 2011 e nelle tre settimane seguenti che sconvolsero l’Egitto e scacciarono Mubarak.

Oggi il raìs, sopravvissuto alle sue reali o presunte malattie, è a casa. Scagionato e assolto dalle accuse di alto tradimento e di strage verso i quasi mille manifestanti fatti uccidere in strada dalle fucilazioni della prim’ora, attuate da El Hadly e Suleyman, i suoi sodali di repressione. Finanche i figli Gamal e Ala autori di truffe e ruberie a danni della nazione sono prossimi a scarcerazione. E’ l’aria restauratrice che soffia da due anni nel Paese, dalla rivolta ‘civile’ contro lo strapotere della Fratellanza Musulmana, col presidente eletto Mursi defenestrato e arrestato. E la dirigenza islamica egualmente tradotta in galera insieme a migliaia di attivisti, per tacere dei quasi duemila morti contati fra il 15 e 16 agosto 2013 nei dintorni della moschea cairota di Rabaa dove gli islamici pro Fratellanza s’erano accampati. Le Forse Armate e il ministero dell’Interno non hanno mai voluto fornire il numero preciso delle vittime, tant’è che esistono centinaia di egiziani considerati ‘spariti’.
Nell’azione di ieri, svoltasi attorno a una blindatissima piazza Tahrir, la polizia afferma d’essere intervenuta per disperdere e fermare i dimostranti; ribadisce che nessuna violenza, a parte il lancio di alcuni lacrimogeni è stata perpetrata. Se qualche pallottola di gomma è volata rappresenta la risposta a “colpi d’arma da fuoco esplosi dai dimostranti”. Sembra la classica scusa non richiesta. Perché l’intento di cancellare ogni memoria che segue la “normalizzazione” di Sisi, e benvoluta dagli esecutivi del mondo che accolgono senza imbarazzo il sanguinario dal volto buono, continua a uccidere fra le omissioni dei media interni e internazionali. Ad Alessandria è stata ammazzata una studentessa diciassettene, cittadini qualsiasi, non certo jihadisti, sono stati stesi in varie circostanza nei mesi scorsi dal piombo poliziesco, non da pallottole di gomma.

Afghanistan, il brand della libertà

Da un mese a questa parte nella ‘città proibita’ di Kabul il marchio dell’Enduring Freedom è diventato Freedom’s Sentinel. Il drappo della missione resta colorato di verde come i vessilli islamici, il motto cambia passando dall’assistenza e cooperazione all’attuale: addestramento, assistenza, consigli. Arrotolata la precedente bandiera, la forza Nato restante in Afghanistan dispiega la nuova, che ovviamente recita: ta’alimat, kumak, mashwerat tanto per avvicinare, almeno nel linguaggio, quel popolo che non ama le divise dell’occupazione. Fra i 13.000 militari occidentali e i 300.000 uomini del ricostruito esercito locale si dovrà stabilire la massima collaborazione. Quali saranno i fini non è affatto chiaro, o meglio sospetti e indizi orientano verso una funzione diversa dalla propagandata autodeterminazione nazionale sul terreno della sicurezza e della lotta al terrorismo. Infatti il comando statunitense, oltre ad addestrare reclute e reparti speciali, avrà la supervisione e di fatto la guida sia del “Resolute support” sia delle operazioni di anti guerriglia.

Alcune valutazioni di analisti sottolineano come i vertici Isaf abbiano in varie occasioni offerto una lettura erronea dei fatti e delle previsioni considerandone, o giustificandone, i fallimenti degli ultimi anni come una questione tecnica. Insomma si cerca di svicolare dai nodi reali: il deterioramento del progetto di stato falsamente democratico, che ha visto in Karzai un artefice servile e chiaramente ripagato con l’affarismo familiare, e la nuova figura del “normalizzatore” Ghani, fidato esecutore di interessi stranieri, seppur in funzione bipolare fra l’occupazione  statunitense e un’ingombrante presenza cinese. Prettamente strategico-militare il primo, economico il secondo, per quanto nel mondo globale nulla finisce per risultare definitivo. Dai primi passi compiuti nelle cinque settimane che aprono la nuova missione appare una discrepanza di tempi e scopi. Obama ha indicato il 2016 come data finale dell’operazione, il Gotha della Nato lascia un portone aperto a possibili estensioni temporali.


Come in altre circostanze valutazioni politico-amministrative e strategie militari non collimano su scenari esteri e interni. Nel caso dell’attuale presidente americano prosecutore, inizialmente prudente dell’avventura bushana, poi addirittura più spericolato e confuso del predecessore tanto da doverne registrare un corposo flop politico –militare, si delinea l’ennesimo giro di walzer in funzione della propria carriera. L’anno venturo chiudendo il mandato Obama offre al Paese una versione ulteriormente riveduta e corretta della presenza militare in Asia. Le differenze coi guerrafondai dei tea-party sono più formali che sostanziali; chiunque dovesse prevalere nella prossima tornata elettorale, Casa Bianca e Pentagono misureranno il bisogno di controllare il cuore dell’Asia. E più che aprire nuovi fronti, sempre passibili di censure nell’opinione pubblica oltre che d’incertezze, è meglio conservare avamposti e conoscenze acquisite. Così l’exit strategy stabilmente convertita in stay strategy può continuare a essere rappresentata dal vessillo di quella “libertà” portatrice di “addestramento, assistenza, consigli”. Rivolti a vari soggetti afghani, non alla popolazione.