martedì 29 ottobre 2019

Libano, via Hariri l’incertezza resta

Vaso di coccio fra quelli di ferro della coalizione che regge il Libano, il premier Hariri rassegna le dimissioni, ma a farlo cadere non sembra essere la piazza che pure ha mobilitato per due settimane la metà dell’intera  popolazione. Sono calcolate in oltre due milioni le presenze nelle manifestazioni che si sono succedute senza tregua, più gli scioperi, i sit-in,  le molteplici proteste fino all’immenso accampamento nella piazza dei Martiri di Beirut. Ma lì ieri si sono scatenate le squadre di militanti dei Hezbollah, quelli duri e puri che rispondono al desiderio di controllo del Partito sulla vita politica nazionale. Assieme a sostenitori di Amal, che già in altre città avevano strattonato e malmenato diversi manifestanti, le due sponde della militanza fedelissima se la son presa coi sostenitori della linea della fermezza contro un Esecutivo frutto del sistema della spartizione, che il popolo per via accusa di clientele e lottizzazione. Chi non ha vicinanze politiche contesta tale sistema, lo fanno anche coloro che, pur rientrando nel quadro di appartenenze etnico-confessionali, ne denunciano la corruzione e, nella migliore delle ipotesi, la consunzione d’un processo che ha mummificato il Paese per un quindicennio. Allora per non rovesciare tutto, ecco che l’uscita dalla scena politica di Hariri, che alcuni catalogano come definitiva, può rappresentare una cancellazione che nella sostanza non cambia nulla, anche perché Saad Hariri, figlio parvenu che ha perso negli anni l’illusione di poter brillare di luce propria, secondo tanti osservatori rappresenta la maschera di un’unità nazionale dove a farla da padrone è il Partito di Dio.
Altre componenti, rappresentate da uomini politici che si perpetuano (Aoun, Berri, Jumblatt) sostengono il disegno per conservare la propria fazione, oltre a se stessi. In un percorso di protesta massiccio e finora pacifico, gli unici momenti di tensione sono stati i tentativi castigatori  sopra citati, chiusisi comunque senza gravi conseguenze anche per l’interposizione attuata dall’esercito fra i due schieramenti. Ora potrà accadere che la gente si accontenti dell’uscita di scena del politico più esposto e chiacchierato, accetti di vederlo sostituito con un altro elemento, magari un tecnico, mentre i sostenitori del sistema decotto tirino a campare. Oppure che la nausea attorno a clientele, spartizione e corruzione continui a tracimare volendo travolgere tutto. Per poterlo fare avrà sempre più bisogno delle comunità che per anni si sono assiepate sotto il sistema di protezione ora contestato, dunque le fasce cittadine e rurali, sciite, sunnite, maronite che spaccandosi al proprio interno chiederanno un azzeramento dell’intera elité politica. Se la protesta intransigente dovesse durare la stabilità economica nazionale, cui ha fatto in più di un’occasione appello il presidente Aoun, potrebbe vacillare e con essa la tenuta politica, cui faceva richiamo Nasrallah, il segretario generale del Partito di Dio. E fra i vasi di ferro per un contrasto che non è ancora conflitto interno, quest’ultimo farebbe pesare l’organizzazione militare del gruppo rodata, peraltro, dagli anni di guerra civile siriana e sostenuta dalla prossimità dei ‘consiglieri’ iraniani. Più della felicità d’un successo sotto i cedri cresce la tensione.

domenica 27 ottobre 2019

Al Baghdadi, dalla predicazione al suicidio


La morte del più ricercato uomo del terrore, il califfo Abu Al-Baghdadi, è data per certa dall’uomo che ne trae maggiore vantaggio politico: il presidente Donald Trump. Che in un intervento ufficiale dalla Casa Bianca ha rivelato il risultato dell’operazione preparata dalle Forze d’assalto statutitensi, e seguita col responsabile delle medesime Evans, il capo dell’interforze Milley, il segretario alla difesa Esper, il consigliere alla sicurezza O’Brien e il suo vice Pence. Ma l’attuale numero uno d’America dichiara che fondamentale s’è rivelato l’aiuto di Turchia, Russia, Siria, Iraq e delle forze kurde. Tutte le componenti coinvolte negli sviluppi delle ultime tre settimane in Siria che, col ritiro militare americano, hanno ridisegnato un nuovo assetto a vantaggio di alcuni e detrimento di altri, sebbene attualmente a rimetterci politicamente siano solo i kurdi del Rojava sradicati dal territorio autogestito e tutte le famiglie kurde e siriane che subiscono deportazioni forzate in aree diverse da quelle abitate per rendere possibile la realizzazione della ‘green zone” studiata da Erdoğan e concessa da potenze e alleati. Ma oggi, come nel 2011 per l’azione di Abbottabad che portò all’eliminazione di Osama bin Laden, Trump parla del successo di un’iniziativa, che come quella vantata da Barack Obama, porta gli Stati Uniti e il presidente in carica nell’iperuranio del successo contro conclamati nemici della pace mondiale. Un blitz condotto da reparti antiterrorismo che hanno volato per più di un’ora su elicotteri (certamente partiti da una base Nato turca) rimasta comunque segreta, come segreto è il luogo dell’atterraggio da cui i manipoli d’assalto hanno avviato la caccia al capo dell’Isis. Le esplosioni registrate presso il villaggio di Bashira, nella provincia di Idlib (una delle ultime ridotte dei miliziani dell’Isis) fa supporre che il nascondiglio di Baghdadi, che aveva con sé i familiari, fosse stato individuato in quella zona.

La fine del leader dello Stato Islamico, “codarda” come l’ha definita Trump è avvenuta durante la sua fuga e sarebbe stata determinata dall’esplosivo che l’uomo indossava a mo’ di kamikaze e che avrebbe fatto brillare quando ha visto bloccata ogni via. Assieme al sedicente califfo sono deceduti anche suoi tre figli. La scelta della tempistica per un’operazione che può essere sfruttata mediaticamente e politicamente in primo luogo dal presidente Usa, e in virtù delle sue dichiarazioni da tutti gli attori citati che hanno affossato l’esperienza del Rojava, costituisce anche un approccio per il futuro e un monito per i guerriglieri kurdi, spinti al gaudio per la scomparsa d’un nemico fortemente combattuto, ma indirettamente avvertiti a non opporsi alla pianificazione della pulizia etnica che stanno subendo nella Siria settentrionale. La concordata volontà d’impegno militare, sia pure sotto forma di vigilanza, può evitare un ripetersi dell’esperienza del Daesh su quelle terre, ma l’eliminazione d’un capo, carismatico o meno, non limita il proseguimento d’un piano. Ad esempio per i talebani afghani non è stato così: la scomparsa del mullah Omar (comunque reso inattivo dai malanni ben prima della morte nel 2013) aveva solo prolungato le trattative per la successione fra i vari clan dei turbanti, e anche l’eliminazione del successore Mansour non ha incrinato l’impatto della loro azione politico-militare. Forse la costruzione dello Stato Islamico prende corpo più a Oriente, nelle pianure e nelle vallate dell’ingovernabile Afghanistan, dove i miliziani del Khorasan hanno da un biennio avviato una sanguinaria presenza, rivaleggiando con gli stessi talebani di Quetta. Egualmente non è risolta la furia vendicatrice degli attentatori jihadisti nei territori che intendono conquistare. Dalle città afghane e pakistane, a quelle occidentali che intendono ferocemente punire. Martiri involontari sono finora gli abitanti di Kabul lacerati dalle bombe e i cittadini d’Europa fucilati e squartatati dai camion, gente normale che non si piega al fanatismo.

venerdì 25 ottobre 2019

Libano in rivolta, uno schiaffo alla spartizione


Non è servito neppure il discorso in diretta televisiva del presidente della Repubblica Aoun, che pure incarna un pezzo della storia del Libano degli anni Ottanta, doppiamente difeso dall’invasione israeliana e dall’ingerenza siriana, oltre che dalle pratiche stragiste dei maroniti della famiglia Gemayel. Anche Aoun è maronita, ma nell’epoca in cui vestiva la divisa da generale s’è speso per l’unità del Paese dei cedri e per quest’unità ha lavorato dal 2005, dopo il rientro dall’esilio parigino durato quindici anni. Però sono i quindici anni successivi che le odierne piazze libanesi gli contestano, ponendolo alla berlina assieme al premier Hariri e alla trasversale unione politica che guida la nazione fra il compromesso e la cogestione. Contestati anche il Partito di Dio e Amal, due componenti che tanto si sono spese per la difesa del Libano dalle reiterate invasioni di Israele, ma che come le altre vivono reiterando il clanismo. Il filo conduttore della protesta, che ormai monta da nove giorni consecutivi e blocca ogni attività, è proprio il sistema proposto dai salvatori della patria  che usciva dalla guerra civile.

Un meccanismo basato sulla molteplice rappresentanza etnica che ha diviso le Istituzione come la logistica nella capitale: maroniti alla presidenza della Repubblica e a Beirut nord, sunniti alla guida del governo e a Beirut ovest, sciiti alla presidenza del Parlamento e nella cintura meridionale. Tutto per garantire la convivenza. Questo sistema delle appartenenze s’è trascinato dietro protezioni, padrinaggi, clientele per coloro che vanno in chiesa e in moschea e per chi non ci va. Un sistema totalizzante che però non include tutti, e che ora sta implodendo sia al cospetto e alle aspettative delle generazioni del dopoguerra, sia nella pazienza dei tanti tenuti buoni con lo spettro del passato - e sicuramente tremendo - conflitto civile che fece 150.000 vittime.  Come ciascun politico del mondo, leader pluridecennali che si chiamano appunto Aoun, Hariri, Berri, Jumblatt, Nasrallah una volta trovata la quadratura del cerchio hanno pensato che tutto sarebbe rimasto immobile. Invece devono fare i conti con la voglia di dinamismo in uno spazio vitale ristretto che alle contraddizioni già sedimentate (campi profughi, disoccupazione), aggiunge il malcontento per carovita, assenza di prospettive per chi non accetta la ‘protezione’ di quei clan politici che ormai la piazza definisce senza paura corrotti e mafiosi. Nei giorni scorsi qualcuno ha provato a intimorire i manifestanti: militanti di Amal, a Tiro, ne hanno strattonato e insultato alcuni, s’è anche parlato di aggressioni a colpi di bastone.

Poi nel partito devono aver compreso l’effetto controproducente del metodo squadrista e non ci sono stati altri episodi. Certo, ad Amal ed Hezbollah, i partiti patriottici, finiti anche loro nella contestazione della piazza e invece abituati al sostegno, se non proprio all’adulazione da parte dei cittadini, questo rovesciamento dei ruoli non fa piacere affatto. Il carismatico leader Nasrallah sta cercando la via diplomatica: ha offerto solidarietà a cortei e sit-in, trovando giuste molte critiche, ma anche detto che il governo non deve dimettersi perché può cambiare indirizzo. In tutta fretta Hariri, a inizio settimana, ha varato un pacchetto di riforme-tampone su cui spiccava il dimezzamento degli stipendi di politici e funzionari ministeriali. Non ha incantato nessuno. Più determinati che mai i manifestanti hanno chiesto il suo abbandono del palazzo, e hanno bocciato pure l’appello presidenziale. Chiedono un cambiamento totale. E hanno iniziato a montare tende nell’immensa piazza dei Martiri di Beirut, come fosse la loro Tahrir. Mercoledì per via sono comparsi i blindati dell’esercito. Ma in subbuglio è un’intera nazione, fatta di giovani soprattutto ma ora anche le famiglie. Quelle povere e un ceto medio che teme di finire sul lastrico. Soluzioni draconiane da parte del governo sarebbero una sciagura per tutti.    

martedì 22 ottobre 2019

Rojava, Putin-Erdoğan patto di cancellazione


Smobilitare il Rojava, sei giorni per il vuoto. Dopo le centoventi ore di tregua, Erdoğan ne strappa centocinquanta per veder sgombrare una fascia più ridotta dello “spazio vitale” che cercava: 75 miglia. 120 chilometri, da Tal Abyad a Ras al Ain, le località dove l’invasione turca e dei paramilitari islamisti del Rojava sta 'lavorando’ dallo scorso 9 ottobre. E’ questo il frutto dell’accordo sancito a Sochi, dopo molte ore di colloquio con l’omologo russo Putin. Il Sultano ottiene la profondità voluta di 32 km non l’estensione per i circa 500 sul confine turco-siriano, ma le sue truppe avranno via libera nei pattugliamenti dell’area coi soldati di Mosca e per una decina di chilometri ad est e a ovest della cosiddetta “safe zone” lo faranno assieme. Resta la minaccia di una ripresa anche immediata dell’offensiva turca qualora le Forze siriane democratiche non inizieranno il ritiro dalle prossime ore.

Da parte sua il presidente siriano Asad, mostrato da una tivù fra i suoi graduati nell’ormai ridotta linea del fronte (Idlib) dove persistono i ribelli jihadisti, definiva Erdoğan un ladro di territorio, rivendicando per sé tutta la zona interessata all’accordo.  Le truppe pro Asad, dopo i successi degli ultimi due anni che hanno ristabilito il controllo militare lealista sul 60% di quello che fino al 2011 era territorio siriano, rilanciano una giurisdizione territoriale che probabilmente continuerà a esistere solo tramite la protezione di Mosca e l’aiuto sul campo degli iraniani. Se la diversità d’intenti con l’ingombrante vicino turco proseguiranno potrebbero sorgere problemi, la garanzia degli amici russi potrebbe non bastare. Sia perché il passato potrebbe tornare, e con esso il conflitto per procura dell’islamismo fondamentalista, sia per l’insoddisfazione kurda concentrata in un nord-est che resta comunque territorio precario, malvisto da Ankara e mal sopportato da Damasco.

Così, mentre i passi militari e quelli diplomatici si dicono rivolti a un’ipotetica pace, di fatto può consolidarsi quell’instabilità della guerra perenne che può fare della Siria l’Afghanistan del vicino Medio Oriente. Allora ci s’interroga su quanto durerà il presidio turco nella da loro definita ‘zona di salvezza’? Negli otto anni di conflitto, soprattutto dal 2013, la diplomazia internazionale prospettava una transizione con libere elezioni sotto la supervisione dell’Onu. Asad e i fedelissimi hanno sempre rifiutato, ancor più lo faranno ora che la sorte gli è benigna. Eppure le contraddizioni restano, dalla rabbia degli arabo-sunniti sconfitti ed esclusi, alla forzata prostrazione kurda che col Rojava combattente ha provato l’ebrezza di un’autogestione per ora congelata e forse per sempre cancellata non solo per volere del nemico Erdoğan. Negli anni i kurdi hanno imparato che il nemico può celarsi dietro le maschere più impensate, e quel che esce da Sochi ribadisce il concetto.  

lunedì 21 ottobre 2019

Libano, s’è rotto il tabù confessionale


Reclamano da giorni la cacciata di Hariri junior, la caduta d’un governo corrotto, la fine d’un sistema che non li rappresenta e sono per una volta uniti i libanesi sunniti, sciiti, cattolici, maroniti, drusi, comunità divise in un Paese che fra le tante contraddizioni (quattro milioni di abitanti, due milioni di profughi) condivide col premier Saad Hariri, un destino comune per eredità paterna. Il capostipite Rafiq, imprenditore dalle umili origini e dalle grandi pretese conseguite col protettorato saudita, mise su un impero edilizio, bancario e delle telecomunicazioni che a inizio anni Novanta gli consentì di guidare il Paese, traghettandolo dalla guerra civile a un benessere di facciata ma non per tutti. Con lui la dinastia Saud mise le mani su Beirut, incrementando anche sulla storica striscia libanese quel confronto-scontro con l’Iran, da parte sua interessato a sostenere la corposa comunità sciita, un quarto della popolazione. Il liberismo debitorio di Hariri padre terminò col botto di San Valentino, il grosso attentato del 2005 che l’assassinò assieme a numerosi collaboratori. Fra l’ingombrante presenza dell’esercito siriano e le invasioni d’Israele il Paese visse un’ennesima fase travagliata sino alle elezioni del 2009, vinte dalla coalizione che conduceva l’allora neppure quarantenne Saad a guidare il governo. Lui cercò il massimo della cooperazione fra tutte le componenti etnico-confessionali per la difesa dell’integrità nazionale. Inizialmente ci riuscì. Però l’unità è risultata una maschera dietro cui questioni sociali son rimaste insolute.
E’ l’accusa lanciata in queste ore per le strade della capitale, della popolare Tripoli, agitata come lo sono le località meridionali di Sidone e Tiro. “I politici non ci danno nulla, le promesse non bastano” grida la gente. Le ultimissime promesse di Saad riguardano un pacchetto di riforme che il suo gabinetto s’è affrettato ad approntare per tamponare la piazza, ma l’illusione difficilmente funzionerà. Certo una protesta scoccata per una tassa introdotta sulla messaggeria WhatsApp, pur in linea con la società due punto zero, appare sovradimensionata. Eppure se da una parte mostra la giovane età delle masse in agitazione denota un malcontento per tanto altro: tassazione generalizzata e condizioni economiche problematiche, a cominciare dalle possibilità di lavoro. Il debito pubblico che il Rafiq della ricostruzione faceva salire già nei Novanta, continua a incrementare, per certi aspetti senza motivo anche perché il figliuolo, tutt’altro che prodigo, s’è fatto cogliere con vizietti d’ogni genere, fra cui quelli dei costosissimi doni all’amante mannequin a carico, sostengono i detrattori sebbene lui smentisca, delle disastrate casse statali. Ma i guai per Hariri junior travalicano la passione per le modelle in bikini, riguardano la sperequazione fra impegni statali disattesi e sperpero di denaro, nella conservazione di quello che giovani oppositori additano come un sistema politico clientelare, una moderna proposizione del padronaggio feudale.
In questi giornate nella Beirut dell’attacco al sistema, nell’Hamra dello struscio o nelle aree monumentali che fanno da salotto cittadino e anche nella periferia sud di Dahieh, l’immenso sobborgo-roccaforte di Hezbollah, s’è vista la gente di strada che resta fuori dagli apparati di gruppo e di partito. Capire come svilupperà quest’attacco al cielo delle leadership da parte d’una cittadinanza stanca dei politici è tutto da scoprire. Il premier contestato fa trapelare misure tampone per rimpinguare le finanze che sembrano contentini di facciata: dimezzare gli stipendi dei funzionari (e creando malcontento fra costoro), privatizzare il settore delle telecomunicazioni, rimaneggiare quello elettrico. La più oculata appare quella di servirsi di un’unità di tecnici, ma nella casta c’è chi torce il naso. Di fatto il sostegno maggiore che Hariri riceve proviene dai bastioni del Partito di Dio. Il segretario generale Hassan Nasrallah parlando della protesta s’è dichiarato contrario alla caduta del governo. E un po’ tutti i partiti - ovviamente il Movimento Futuro, le Forze Libanesi, il Partito socialista progressista, Amal - si sono stretti attorno al premier contestato per salvare se stessi, visto che l’aria che tira esprime la volontà di togliersi di mezzo un tabù. Magari non del tutto quello dei gruppi etnico-confessionali, ma della loro cogestione affiliativa e clientelare, finora panacea per la convivenza che però crea la frattura fra i vertici e la popolazione. Nell’incerto domani s’ipotizza anche il lasciare la piazza, finora pacifica e colorata, a un controllo dell’esercito. Proporrebbe quell’orizzonte sconosciuto a tanti ragazzi nati nel Terzo millennio. Ma certi episodi denunciati in queste ore: militanti di Amal che strattonano e minacciano taluni manifestanti possono intimorire chi non ha dimenticato lo spettro della guerra civile. 

sabato 19 ottobre 2019

Rojava, perché mai parlare di pace


Ore di tregua, centoventi. Poche, pochissime, fragili e parzialmente rotte sul confine turco-siriano dove alle cannonate dell’esercito turco con ulteriori vittime civili, le Unità di protezione del popolo, che avrebbero annunciato il ritiro dalla zona del Rojava investita dall’offensiva di Ankara, rispondono con le armi leggere del loro arsenale. Un confronto impari, soggetto non solo al diverso impiego della forza, ma non proporzionato all’intero piano di Erdoğan che punta a soffocare l’utopia del territorio gestito da uomini e donne delle Ypg e delle Ypj con la rappresentanza politica del Partito dell’Unione democratica. Il progetto di svuotare per una trentina di chilometri di profondità un’area lunga oltre quattrocento chilometri, praticamente da Cizre a Kobanê, e insediarvi i profughi arabo-siriani è l’irrinunciabile scopo che il presidente turco insegue da tempo. Ora, grazie agli egoismi internazionali, riuscirà ad avere via libera, come già l’ha avuta per i blitz armati dai nomi epici: ‘Scudo dell’Eufrate’ (agosto 2016), ‘Ramo d’ulivo’ (febbraio 2018), fino all’odierna ‘Fonte di pace’. Sanguinarie beffe realizzate col consenso della comunità mondiale e presunte “ragionevolezze diplomatiche”.
Il ridisegno della Siria, devastata da otto anni di guerra criminale, passa alla cancellazione del Rojava col pilatesco abbandono statunitense, il ruolo centrale d’una Russia moderatrice del vicino Medio Oriente secondo i propri interessi, il cinico lasciar correre di Asad cui i kurdi, in condizione di emergenza e disperazione, chiedono protezione senza riceverla. Poi c’è l’Occidente democratico che sotto la sigla dell’Unione Europea, tanto parla e sentenzia, su invasioni e diritti civili sempre con una bilancia squilibrata secondo i voleri di Pentagono e Nato. Poiché, se giustamente Parlamenti nazionali e quello di Bruxelles tuonano contro l’azione di forza (comunque non contrastata) dell’esercito turco, un proprio alleato, quasi nulla si fa per strazianti guerre locali come quella in Yemen. Proprio la discussa monarchia di Riyad è posta come termine di paragone da alcuni osservatori e Centri di Studi politici. L’efficiente rete televisiva Al Jazeera ha interpellato la struttura presieduta da Sinan Ülgen che, tirando l’acqua al mulino della nazione turca (il Centro lavora a Istanbul), pone in risalto il doppio binario di alcuni grandi Paesi europei.
Questi analisti notano che nel quadriennio 2014-2018 le potenze regionali turca e saudita con governi, diciamo borderline sul fronte repressivo, la prima rivolta prettamente all’interno ma, come vediamo, sempre più impegnata oltre confine, la seconda sul doppio terreno interno ed esterno, ricevono da nazioni europee (Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia, Spagna) rispettivamente 1.7 e 3.9 miliardi di dollari di armamenti importati. Alla fine i conti armati di Ankara salgono a 3.4 miliardi, quelli di Riyad risultano oltre quattro volte superiori: 16.9 miliardi, di cui 11.5 miliardi di provenienza statunitense. E’ anche vero che da tempo la Turchia ormai fa da sé, producendo il 70% del proprio materiale bellico. Certo non si tratta di armi complesse e sofisticate come i sistemi missilistici difensivi-offensivi (tipo S-400 russi) che hanno fatto avvicinare Ankara a Mosca fra la stizza statunitense e i timori della Nato. Fra l’altro nell’ultimo quadriennio l’esportazione turca di armi ha superato il 170%, destinazione Emirati Arabi, Turkmenistan, Arabia Saudita stessa. A conferma che l’industria bellica è un settore trainante, ovunque, tecnologia e geostrategie procedano a braccetto con l’ondivago consenso delle democrazie parlamentari.

mercoledì 16 ottobre 2019

Le pene dell’Egitto schiacciato dal sistema Sisi


Nell’Egitto dei rapimenti, dove il domani di tanta, troppa gente è in forse e l’esistenza è sempre in bilico, chi mostra dissenso, sia conosciuto o meno, rischia sempre. I feloul ruffiani fanno confidenze nei commissariati. I baltagheyah magari ti seguono e ti provocano finché qualche mukhabarat t’affianca mentre sei per via, t’infila in un’auto civetta, e se cerchi di evitarlo e provi a ribellarti, ti pesta davanti ai passanti intimoriti da armi spianate che li avvertono di “un’operazione antiterroristica di massima sicurezza”. L’infamia si ripete nel Paese dove i Sisi e i Ghaffar hanno trasformato la conduzione del quotidiano nell’ordinaria accettazione di sopruso, violenza, morte. Realtà che governanti parolai, come quelli di casa Italia ma non solo, condannano teoricamente oppure fan finta di non vedere, mentre gli affari trattati dai Descalzi (affari dell’Eni e pure personali) marciano senza intralci, perché geoeconomia e geopolitica non conoscono morale. Ogni princìpio di legalità è morto da tempo assieme a Regeni Giulio e agli scomparsi e assassinati d’Egitto che il regime del Cairo continua ad alimentare. Variando, come abbiamo già denunciato, l’arco repressivo, proponendo perfino la “morbidezza” della galera a tempo, che accoppa lentamente lasciando la vita in sospeso fra l’infame detenzione che hai conosciuto e un possibile ritorno a tempo indeterminato nel buco nero.

Campione, ahilui, di prigionia (fra i giornalisti, sui militanti pesano pene più lunghe) è da 1028 giorni il cronista di Al Jazeera Mahmoud Hussein, assimilato alla Fratellanaza Musulmana solo perché proponeva servizi su questa componente politica egiziana colpita dalla repressione dal golpe militar-civile del 2013. Ultimamente la mannaia autoritaria è tornata a colpire il noto attivista Alaa Abd al Fattah, riportato in uno dei bracci speciali della prigione cairota di Tora dopo aver scontato cinque anni di detenzione. Così il tam-tam di sostegno è ripartito per i nomi noti dell’opposizione interna (Ziad Elelaimy, Ramy Shaath e molti altri) usando ciò che può: dai ‘social’ non offuscati, al passaparola attraverso gli esiliati in Occidente che fanno da sponda a una difesa comunque sempre più indebolita. S’è detto della persecuzione estesa agli avvocati, esempio lampante dell’illegalità del sistema egiziano che non garantisce protezione agli accusati anche quando i rilievi di polizia e magistratura mostrano lacune e pretestuosità. Toghe stesse nel mirino, dunque, con episodi reiterati. E' di questi giorni la notizia su quant'è accaduto a Esraa Abdelfattah, impegnata a tutelare diritti umani nell’Egitto brutalizzato dal “sistema Sisi”. Esraa ha subìto il protocollo precedentemente descritto: sequestro da parte di agenti della Sicurezza Nazionale, maltrattatamenti fino a un tentativo di strangolamento, minacce affinché non rivelasse l’accaduto pena ulteriori sevizie. Quanto dovrà durare il sostegno politico occidentale all’Egitto dell’orrore?

martedì 15 ottobre 2019

Rojava, fermare l’aggressione per cancellare l’utopia


Forse si fermerà, forse, l’esercito invasore che Erdoğan considera un difensore della nazione turca, tanto da accettarne le manine fascistoidi a mo’ di ‘Lupo grigio’ esibite per le telecamere dai soldati della mezzaluna. Nei contatti segreti che emissari turchi, siriani, iraniani più le Intelligence occidentali intrecciano in queste ore per stabilire l’immediato futuro, probabilmente è già scritto lo stop per la ‘Fonte di pace’, che comunque ha provocato qualche decina di morti in divisa, indeterminate vittime civili kurde, siriane, turche per il fuoco incrociato da un confine all’altro, più trecentomila sfollati in fuga verso il sud abitato e anche desertico. Se così sarà, e non è scontato, il Sultano, regista dell’operazione, può ascrivere il successo dello schiaffo gettato in faccia all’Occidente, scherno schivato dagli Stati Uniti che Trump gira sugli alleati d’Europa, sostenendo che pensino loro alla nuova fiammata in quel tratto mediorientale non del tutto pacificato, né ripulito dall’Isis. L’America in fuga dalle guerre rognose si mette da parte, e indirettamente ribadisce che l’arbitro indiscusso del caos siriano resta Vladimir Putin, ovviamente supportato dal suo stratega della diplomazia Lavrov. Dalla settimana di avanzamento a sud dei carri di Ankara restano, per ora, oltre alle sparatorie letali e le fughe descritte, il passo delle Unità kurde verso l’esercito di Asad, salito a nord a presidiare le terre chiamate Rojava, non si sa se in futuro a tollerarle.
La tutela a questo fronteggiamento, che non deve degenerare in conflitto turco-siriano, è fornita dal Cremlino e dall’alleato iraniano, che magari a Erdoğan direbbe e farebbe quel che non si può fare per non riaccendere un conflitto su troppi fronti, come la lotta per bande conosciuta per anni e sedata con la sconfitta dei miliziani di Al Baghdadi. Eppure questa sistemazione precaria che vede: i legittimisti di Asad sigillare il Rojava, i combattenti kurdi allearvisi giocoforza per non morire sotto le cannonate turche, il presidente turco sperare di collocare grazie ad accordi internazionali in una fascia lunga ben 480 km un congruo numero di profughi siriani presenti sul proprio territorio (metropoli comprese, come gli 800.000 di Istanbul), potrebbe a breve diventare lo stato di fatto  sancito da Putin, Rohani ed Erdoğan per sgonfiare questa crisi. E li vedrebbe d’accordo: il Sultano in veste d’ideatore della soluzione, il presidente russo in qualità di cerimoniere-pacificatore del caos siriano (ricavando dal regime salvato il favore geostrategico dei sommergibili nucleari a Tartus), il presidente iraniano, da tempo sotto tutela  del partito Pasdaran, a tener vivo l’asse con Asad per sostenere la forza organizzativa di Hezbollah. Tutto noto. Le novità riguardano il futuro del Rojava, giocato a dadi da questi signori a detrimento dell’utopia kurda, e l’incognita perversa del jihadismo,
Dove finiranno i dodici-quindicimila (un migliaio sono già liberi causa bombardamenti delle prigioni) combattenti dell’Isis? Riformeranno locali milizie, nonostante l’ipotesi d’un territorio del Daesh da controllare sembri sradicata? E quelli fra loro che sono combattenti stranieri non pare possano tornare a casa: almeno ufficialmente i governi di vari Paesi Ue non li vogliono. Né tantomeno gli Usa son disposti a provvedere con una soluzione simile ai qaedisti internati a Guantanamo. Solo Erdoğan sostiene di poter trattare anche questo problema, in cambio della “sistemazione del confine meridionale”. Così nei giorni o nelle settimane seguenti i kurdi potrebbero perdere definitivamente l’amato Rojava a seguito di patteggiamenti. Nella peggiore delle ipotesi verrebbero sradicati dai luoghi abitati, com’è accaduto a molte etnìe dell’area, nella migliore dovrebbero condividerla con insediamenti arabo-siriani creati lì per spezzare l’esperimento democratico che ne ha animato l’impegno e l’esistenza dell’ultimo decennio anche a costo della vita. La mescolanza delle etnìe produce effetti diversi, un pezzo della guerra civile siriana è stata combattuta anche attorno a esse, nella contrapposizione fra arabo-sunniti e alawiti e non solo. Se dal perverso progetto del Sultano potesse scaturire un effetto novità: la convivenza e la solida relazione attorno all’utopia democratica fra laici e credenti di varie fedi, essa sì sarebbe una vera ‘Sorgente di pace’ contro certi tiranni che ancor’oggi decidono su tavoli grondanti di sangue il futuro di quelle genti. 

sabato 12 ottobre 2019

Siria, la lunga sporca guerra sui civili


I costi umani della guerra sporca - ora contro i kurdi, negli anni passati contro siriani sunniti anti Asad e siriani alawiti pro Asad, e cristiani e drusi, diciamo la guerra che la gente di Siria ha subìto prima di aver scelto - contano otto anni di sangue, lutti, fughe, miseria. Numeri pazzeschi fra morti (oltre mezzo milione) e profughi (otto milioni). Finora c’è stato di tutto. Porcherie di eserciti invasori e autoctoni, di milizie dei tagliagole che i fedeli islamici non chiamano neppure jihadisti, additando l’usurpazione che costoro fanno del jihadh trasformandolo da fondamento coranico a fondamentalismo interpretativo. Mercenari d’ogni risma e partigiani di varie bandiere, insieme alle kurde del Rojava ultimamente insidiate, quelle dei miliziani Hezbollah a difesa dei propri spazi in Libano e di uno Stato amico, dei ‘consiglieri’ pasdaran, delle Intelligence di potenze mondiali addestratrici d’ogni milizia islamista oppure legittimista. E le ingerenze Nato o russe, volte a stabilizzare situazioni e regimi  secondo precisi interessi geostrategici, altro che sostegno ai diritti e ai popoli sovrani. E’ andata così anche in altri periodi, col Medio Oriente costruito sulle mappe tramite accordi segreti, guerre-lampo, annientamenti e trasmigrazioni etniche, parecchie taciute o negate di fronte alla cinica indifferenza di chi ne è solo sfiorato.
Certo, che l’ulteriore vampata di bombe in una terra già straziata, la dispersione di centomila kurdi nella pianura che dopo Raqqa e l’Eufrate diventa deserto rosso, rappresenta una nuova tragedia umana e politica. Perché quelle Unità di difesa del popolo attaccate dalla mezzaluna armata di Erdoğan nulla possono a reale protezione di questo popolo contro l’aviazione e i mezzi corazzati turchi. E il disegno di Ankara, incentrato sul palese ricatto dell’immigrazione siriana orientabile verso i confini d’Europa si regge sulla cattiva coscienza del ceto politico continentale che insulta il Sultano ma si serve del suo contenitore di profughi senza neppure saldarne i debiti. Le estorsioni sono esecrabili come lo è la viltà, e in questo l’intero quadro del dramma siriano ha presentato e continua a farlo la parata di propagandisti d’ogni fronte, più o meno precostituito, con tanto di prove vere o taroccate che non salvano nessuno, perché nessuna delle numerose componenti in lotta ha ragioni assolute sulla sua sponda. Tutti si sono macchiati di orrori, recitando a soggetto a proprio favore, mentendo sulle proprie colpe e additando quelle altrui. Non è cerchiobottismo sostenere che nella macelleria siriana nessuno può vantare coscienza e mani pulite. Alcuni, sicuramente i sedicenti jihadisti dell’Isis o prossimi a loro, si sono macchiati di nefandezze e hanno trovato un fronte variegato che li ha combattuti.

Sicuramente i kurdi, la guerra contro i civili, l’hanno finora più subìta che praticata, ma in certi combattimenti anti Isis s’è sparato anche sulla gente rimasta, per scelta o disperazione, dietro ai miliziani. Nulla a che vedere con le stragi aeree, per asfissia da armi chimiche (usate da chi, ciascuno ha accusato gli avversari, e in alcuni casi nessuna commissione d’inchiesta dell’Onu o di Damasco è riuscita a indagare a fondo), per fame come in taluni assedi di quartieri e città. Era il marzo 2011: negli sviluppi d’una rivolta alla linea d’un governo, trasformatasi presto in guerra civile, quindi nel disegno di disgregazione d’uno Stato nazionale, negli scontri su un territorio diventato gigantesco campo di battaglia, l’esercito disarmato di milioni di abitanti della Siria, gente di varia etnìa e religione o credenti d’una democrazia laica come quella sognata nel Rojava, è diventato il bersaglio delle ragioni e degli interessi dei contendenti. Così i presidenti, attenti ai confini da difendere come sosteneva Asad mentre il suo popolo si dissanguava, oppure rivendicando limiti da varcare per crearsi lo spazio vitale contro presunti “terroristi”, come tuona in queste ore Erdoğan, praticano quel terrorismo di Stato che non preserva la propria gente, la sacrifica sull’altare potere. Il proprio.

giovedì 10 ottobre 2019

Turchia: guerra al Rojava


Fuggire da Ras al Ain sotto un cielo violaceo e una pioggia di fuoco è quello che i civili, stavolta in gran parte kurdi, coinvolti nell’ennesimo atto dell’infinita guerriglia e guerra di Siria non meritano. Dove possono riparare costoro? Non certo oltre quel confine, terra dell’invasore turco. Allora a sud lungo l’immensa pianura che non pone ostacoli naturali, ma separa entità geopolitiche e progetti ben differenti. Quello del territorio del Rojava non è amato a nord, come a sud per ciò che dichiara e pratica: autodeterminazione popolare difesa con le armi. E quelle armi leggere con cui i militanti Ypg, che il guerrafondaio Erdogan chiama terroristi, hanno combattuto e battuto i miliziani dell’Isis per quattro lunghi anni, poco possono a difesa della propria comunità se la battaglia si scatena con artiglieria e bombardamenti aerei. Esercito e aviazione turca le hanno usate ieri portando sgomento, rabbia, danni e morte. Si contano parecchie distruzioni e una decina di morti, seppure i sono dati risultano frammentari. Gli alleati-sfruttaturi delle Unità di difesa del popolo, statunitensi innanzitutto e di riflesso i comandi Nato, restano ambigui nonostante le dichiarazioni parolaie di non abbandonare a se stessi i kurdi, combattenti e non. Di fatto, quel che è accaduto nei tre giorni scorsi: annuncio di ritiro delle truppe da parte di Trump e parziale smentita hanno rappresentato il lasciapassare americano all’azione di forza turca. Seppure quest’ultima potrebbe essere l’avvio della soluzione che il Sultano medita da tempo: azzerare la presenza organizzata (militare e civile) dei kurdi ai confini meridionali, scardinando l’esperienza del Rojava con l’alibi della lotta al terrorismo e il consenso delle potenze straniere, sicuramente statunitense ed europee. L’ipocrisia di quest’ultime annuncia necessario la riunione del Consiglio di Sicurezza Onu, ma di fatto nulla ferma quel che Erdoğan ha patteggiato in fatto di milioni di profughi e magari, in un prossimo futuro, dei duemila  miliziani dell’Isis prigionieri.

Lui prende tutti per potersi prendere tutto. Resta l’incognita russa, molto coinvolta sullo scenario siriano per i normali interessi di parte, come del resto fa ogni potenza. Putin e il suo principe della diplomazia Lavrov, salvatori di Asad per le contropartite strategico-militari che ne ricevono, dovranno decidere se mettersi di traverso al tacito accordo Usa-Turchia per il cuscinetto di “sicurezza” nei territori del Rojava. Quest’intervento, ripetiamo, potrebbe restare limitato, ma di fronte alla legittima difesa dell’Ypg potrà creare decine di migliaia di profughi e ulteriori eccidi di combattenti e civili non tanto contro le milizie turkmene islamiste che appoggiano sul terreno l’avanzata dell’esercito turco, quanto sotto i missili che l’aviazione della mezzaluna sgancia su ciò che si muove a nella spianata dal confine incerto. Però il beffardo nome “Fonte di pace” che scimmiotta le angherie del peggiore sionismo verso l'altra popolazione vessata e frammentata di Palestina, sta trovando consensi ad Ankara. Consensi larghi che travalicano quella metà dei turchi fedele alle strategie del Sultano. E’ di queste ore il consenso che il partito d’opposizione Chp rivolge all’occupazione militare presentata come un’operazione antiterroristica. Il segretario del partito repubblicano Kılıçdaroğlu ha dichiarato di “pregare affinché l’azione giunga il prima possibile a un completo successo, senza perdite per i nostri eroici soldati”. E l’altra figura d’opposizione l’ex lupa Akşener, che nei mesi scorsi aveva rubato la scena all’anziano leader dei ‘Lupi grigi’ leader Bahçeli, senza peraltro togliergli molti voti ha detto “Quando l’artiglieria turca inizia a sparare, ciascuno tace”.  Insomma la nazione turca si stringe attorno all’amato e odiato Sultano. E l’unica voce di vera opposizione nel Paese viene ulteriormente braccata, con nuovi arresti a esponenti del Partito democratico dei popoli, al solito accusati di sostegno al “terrorismo” del Pkk, e allo stesso combattentismo kurdo in Rojava.

martedì 8 ottobre 2019

Foreign figthers, spettro e cura del fondamentalismo


Col via vai di annunci e posizioni (per la cronaca un’odierna nota della Casa Bianca ridimensiona il cinguettìo con cui ieri Trump parlava di ritiro dei soldati statunitensi dallo scenario della Siria settentrionale) è riapparso il tema dei prigionieri jihadisti rinchiusi in varie carceri. Ieri si faceva riferimento a quelli detenuti dai kurdi, che contro costoro hanno combattuto, liberando aree come quella di Raqqa e dove, accanto ai miliziani in armi, sono stati catturati anche i familiari con tanto di donne e prole. Per costoro si dibatte da tempo di una ricollocazione nelle rispettive nazioni che risultano diverse. Infatti l’internazionale del jihadismo - con radici corpose in taluni Paesi del Maghreb (Marocco, Tunisia) come testimonia l’origine di chi negli anni scorsi, oltreché sui campi di battaglia siriano e iracheno, ha colpito anche città d’Europa, Turchia, Russia, Stati Uniti - conta tanti combattenti in varie nazioni centroasiatiche. Molte delle ex Repubbliche sovietiche: Kazakistan, Tajikistan, Turkmenistan mentre un cospicuo numero, calcolato in oltre tremila miliziani, proviene dall’Uzbekistan. Per costoro si parla di reinserimento, rieducazione con interventi di carattere psicologico, sociale, addirittura teologico accanto a un orientamento verso una normalità di vita attraverso il lavoro. Però alcuni Stati asiatici hanno introdotto nel proprio ordinamento giuridico una sorta di respingimento dei jihadisti dalle aree d’origine, proprio per salvaguardare la comunità da presenze pericolose sia per manifestazione di teorie e pratiche fondamentaliste, sia per reclutamento a scopo di terrorismo.

La ricercatrice dell’Istituto di relazioni internazionali di Praga, Elena Zhirukhina, in un suo intervento riportato dall’Ispi, indica situazioni come quella del Kirghizistan che nel 2016, tramite un referendum abrogativo di un articolo della sua Costituzione, ha attuato la cancellazione dell’inviolabile diritto alla cittadinanza in caso di crimini efferati come, appunto, il terrorismo. Anche in Uzbekistan la legge sulla cittadinanza già prevedeva cancellazioni in caso di danni per il Paese e crimini contro la pace e la sicurezza. Comunque, nel maggio scorso, con l’operazione “kindness” sono stati riportati in patria 156 uzbeki, oltre cento di loro sono bambini, le restanti donne. L’iniziativa era a carico dello Stato, assicura ai rimpatriati assistenza medica, psicologica e finanziaria. Il Tajikistan ha promosso addirittura un’amnistia per quei foreign fighters che riconoscevano il proprio operato come azioni criminali. Cosicché lo scorso anno 160 combattenti sono rientrati e il locale ministero dell’Interno ha studiato e selezionato i casi. Sebbene l’orientamento della nazione sia recuperare da prigioni e campi stranieri prevalentemente i figli dei combattenti. Proprio i minori sono la nota dolente di tante storie di miliziani provenienti dalle battaglie nel Daesh. Nati da relazioni volontarie oppure figli di stupri imposti alle popolazioni conquistate e sottomesse, portano sulla pelle una violenza primaria e secondaria, senza averne responsabilità. I governi delle nazioni citate cercano di recuperare, soprattutto, queste vite. Ma il processo di riabilitazione, qui come altrove, risulta complesso e costoso, occorrono fondi e strutture. Asia e Africa hanno maggiori difficoltà nel reperirle, l’Occidente meno, ciò che maggiormente gli serve è la volontà di realizzare un simile passo, viste la paura e l’ostilità che aleggia innanzitutto nell’opinione pubblica. Una paura che la politica cavalca. 

lunedì 7 ottobre 2019

Usa, via dalla Siria


Messaggia Trump: “E’ ora di uscire da questa ridicola guerra tribale infinita e portare i nostri soldati a casa…”. Così gli americani iniziano il ritiro dal nord della Siria, non è chiaro se con un manipolo simbolico o con tutte le truppe lì presenti. Su quel terreno per tre anni avevano sostenuto i combattenti del Rojava kurdo nell’azione di contrasto e riconquista dei territori occupati dai jihadisti dell’Isis. Tutti ricordano le controffensive delle Ypg per riprendersi non solo l’enclave di Kobanê, ma anche la città di Raqqa, divenuta nei progetti dell’autonominato califfo Al Baghdadi la capitale dello Stato Islamico. Questo ritiro offrirebbe all’esercito turco campo libero per eventuali azioni di pulizia militare contro le milizie delle Unità di Protezione del Popolo, mal sopportate anche da Damasco e considerate da Erdoğan un ramo del Pkk, che la Turchia combatte militarmente e perseguita legalmente, come nel caso del leader Öcalan prigioniero da vent’anni. Da mesi il presidente turco ripete che il suo esercito può intervenire senza preavviso in quei luoghi perché non può tollerare gruppi ‘terroristi’ ai confini. Per accattivarsi consensi interni e internazionali fra le sue proposte c’è quella di creare nelle zone da occupare strutture dove convogliare una parte (si pensa a due milioni) dei tre milioni e mezzo di profughi siriani attualmente accolti in territorio turco. Per il governo di Ankara quest’area dovrebbe essere lunga 480 km e profonda diciannove miglia (30 km).

Le unità kurde sono allertate doppiamente, sia per la battaglia da sostenere contro la possibile invasione dell’esercito della mezzaluna, sia per un ritorno di fiamma dei miliziani dell’Isis. Insomma si corre il rischio di vanificare almeno in parte i successi conseguiti contro i jihadisti, tanto che un annuncio ufficiale del fronte kurdo ha definito l’uscita statunitense “una pugnalata”. I russi, protettori di Asad e da tempo in buoni rapporti con Ankara, hanno comunque dichiarato che un aspetto prioritario resta quello di preservare l’integrità territoriale siriana. E nel gioco delle parti nessuno dello staff erdoğaniano sostiene di mettere in discussione tale unità territoriale, visto che le principali aree d’intervento riguarderebbero i territori del Rojava kurdo, lì dove i lealisti di Asad non mettono piede.  Eppure la Turchia ribadisce l’intento di ridisegnare il nord del Paese confinante anche con azioni militari unilaterali, qualora le aspettative generali non coincidessero con le proprie. Secondo una lettura di taluni osservatori la smania turca di fare e strafare coincide con la comprensione che l’amministrazione Trump cerca di allentare l’impegno militare in varie aree mediorientali, dall’Afghanistan verso ovest. C’è poi la questione dei prigionieri jihadisti. Solo Turchia e Stati Uniti si sono posti il problema, l’Unione Europea latita. Si potrebbe rimpatriarli? Ma le dinamiche non sono chiare e poi molti di costoro sono detenuti dai kurdi che, abbandonati da tutti, dovranno programmare soluzioni.  

domenica 6 ottobre 2019

Iraq, la voce degli ayatollah


Non hanno nulla da perdere. Lo gridano, lo rivendicano i manifestanti di Baghdad, Nassirya, Bassora e adesso che i morti salgono ufficiosamente a più di cento, mentre il ministero dell’Interno non conferma né smentisce e soprattutto non offre cifre ufficiali, le piazze non recedono dalla protesta che prosegue ormai da sei giorni. Il premier Adel Abdul Mahdi è in difficoltà, dice di non poter far miracoli, ma guida da un anno e mezzo un governo che non ha cambiato l’andamento delle precedenti gestioni, tutte accusate di emarginazione della componente sunnita, di ruberie e corruzione.  Vista la determinazione dei contestatori il partito di Muqtada al-Sadr, Saeroon, che sosteneva pur con riserva il governo, ora si smarca e oltre allo sciopero generale chiede apertamente le dimissioni d’un premier che dal contenimento della protesta è passato alla repressione feroce, visto che diverse vittime sono state colpite da cecchini. Oltre a denunciare una cronica carenza d’investimenti e lavoro, bassi salari nei casi di manodopera primaria, le voci intervistate in questi giorni da Al Jazeera denunciano diffuse condizioni di sopravvivenza a 5-6 dollari al giorno e dicono: “Vogliamo che l’attuale leadership irachena sia posta sotto processo per l’abbandono e la mancanza di servizi verso gli strati più umili” che, nonostante le risorse petrolifere di cui la nazione dispone, risultano in caduta libera.  
Anche i settori privati restano sottosviluppati, così il Paese continua a girare solo attorno all’economia del petrolio. Si tratta della classica condizione da Stato redditiere che non riesce, né viene aiutato dai sedicenti istituti di sviluppo delle risorse come la Banca Mondiale, a costruire quella differenziazione finanziaria interna e rilanciarsi. Il personale tecnico intermedio avvicinato in queste ore difficili da giornalisti di agenzie d’informazione presenti in loco conferma il distacco fra le intenzioni parolaie dell’attuale Esecutivo e i dati reali. In più certi analisti fanno notare come si siano compiuti solo mutamenti di facciata, introducendo tecnocrati che di fatto non pianificano così tutto resta inattivo, come durante il triennio dello scontro coi jihadisti dell’Isis oppure durante la fase precedente al ritiro statunitense (2007-2011), epoca in cui le fazioni sciita e sunnita si scontravano direttamente e indirettamente. Situazione protrattasi anche nel biennio seguente. Ma sull’onda della protesta, che non si richiama ad alcun partito, si muove anche una figura carismatica di alto profilo teologico. E’ l’ottantanovenne ayatollah Ali al-Sistani, un marja al taqlīd della religione sciita, uno dei più autorevoli chierici in vita, che nella giornata di preghiera di venerdì scorso ha invitato i politici a comprendere le ragioni dei manifestanti anziché reprimerli. Una presa di posizione che spiazza Mahdi e può rafforzare la pretesa sciita (e iraniana) sulle sorti irachene.