Smobilitare
il Rojava,
sei giorni per il vuoto. Dopo le centoventi ore di tregua, Erdoğan ne strappa
centocinquanta per veder sgombrare una fascia più ridotta dello “spazio vitale”
che cercava: 75 miglia. 120 chilometri, da Tal Abyad a Ras al Ain, le località
dove l’invasione turca e dei paramilitari islamisti del Rojava sta 'lavorando’
dallo scorso 9 ottobre. E’ questo il frutto dell’accordo sancito a Sochi, dopo
molte ore di colloquio con l’omologo russo Putin. Il Sultano ottiene la
profondità voluta di 32 km non l’estensione per i circa 500 sul confine
turco-siriano, ma le sue truppe avranno via libera nei pattugliamenti dell’area
coi soldati di Mosca e per una decina di chilometri ad est e a ovest della cosiddetta
“safe zone” lo faranno assieme. Resta la minaccia di una ripresa anche
immediata dell’offensiva turca qualora le Forze siriane democratiche non
inizieranno il ritiro dalle prossime ore.
Da parte
sua il presidente siriano Asad, mostrato da una tivù fra i suoi graduati nell’ormai ridotta
linea del fronte (Idlib) dove persistono i ribelli jihadisti, definiva Erdoğan
un ladro di territorio, rivendicando per sé tutta la zona interessata
all’accordo. Le truppe pro Asad, dopo i
successi degli ultimi due anni che hanno ristabilito il controllo militare
lealista sul 60% di quello che fino al 2011 era territorio siriano, rilanciano una
giurisdizione territoriale che probabilmente continuerà a esistere solo tramite
la protezione di Mosca e l’aiuto sul campo degli iraniani. Se la diversità
d’intenti con l’ingombrante vicino turco proseguiranno potrebbero sorgere
problemi, la garanzia degli amici russi potrebbe non bastare. Sia perché il
passato potrebbe tornare, e con esso il conflitto per procura dell’islamismo
fondamentalista, sia per l’insoddisfazione kurda concentrata in un nord-est che
resta comunque territorio precario, malvisto da Ankara e mal sopportato da
Damasco.
Così,
mentre i passi militari e quelli diplomatici si dicono rivolti a un’ipotetica pace,
di fatto può consolidarsi quell’instabilità della guerra perenne che può fare
della Siria l’Afghanistan del vicino Medio Oriente. Allora ci s’interroga su
quanto durerà il presidio turco nella da loro definita ‘zona di salvezza’?
Negli otto anni di conflitto, soprattutto dal 2013, la diplomazia
internazionale prospettava una transizione con libere elezioni sotto la
supervisione dell’Onu. Asad e i fedelissimi hanno sempre rifiutato, ancor più
lo faranno ora che la sorte gli è benigna. Eppure le contraddizioni restano,
dalla rabbia degli arabo-sunniti sconfitti ed esclusi, alla forzata
prostrazione kurda che col Rojava combattente ha provato l’ebrezza di un’autogestione
per ora congelata e forse per sempre cancellata non solo per volere del nemico Erdoğan.
Negli anni i kurdi hanno imparato che il nemico può celarsi dietro le maschere
più impensate, e quel che esce da Sochi ribadisce il concetto.
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