martedì 22 ottobre 2019

Rojava, Putin-Erdoğan patto di cancellazione


Smobilitare il Rojava, sei giorni per il vuoto. Dopo le centoventi ore di tregua, Erdoğan ne strappa centocinquanta per veder sgombrare una fascia più ridotta dello “spazio vitale” che cercava: 75 miglia. 120 chilometri, da Tal Abyad a Ras al Ain, le località dove l’invasione turca e dei paramilitari islamisti del Rojava sta 'lavorando’ dallo scorso 9 ottobre. E’ questo il frutto dell’accordo sancito a Sochi, dopo molte ore di colloquio con l’omologo russo Putin. Il Sultano ottiene la profondità voluta di 32 km non l’estensione per i circa 500 sul confine turco-siriano, ma le sue truppe avranno via libera nei pattugliamenti dell’area coi soldati di Mosca e per una decina di chilometri ad est e a ovest della cosiddetta “safe zone” lo faranno assieme. Resta la minaccia di una ripresa anche immediata dell’offensiva turca qualora le Forze siriane democratiche non inizieranno il ritiro dalle prossime ore.

Da parte sua il presidente siriano Asad, mostrato da una tivù fra i suoi graduati nell’ormai ridotta linea del fronte (Idlib) dove persistono i ribelli jihadisti, definiva Erdoğan un ladro di territorio, rivendicando per sé tutta la zona interessata all’accordo.  Le truppe pro Asad, dopo i successi degli ultimi due anni che hanno ristabilito il controllo militare lealista sul 60% di quello che fino al 2011 era territorio siriano, rilanciano una giurisdizione territoriale che probabilmente continuerà a esistere solo tramite la protezione di Mosca e l’aiuto sul campo degli iraniani. Se la diversità d’intenti con l’ingombrante vicino turco proseguiranno potrebbero sorgere problemi, la garanzia degli amici russi potrebbe non bastare. Sia perché il passato potrebbe tornare, e con esso il conflitto per procura dell’islamismo fondamentalista, sia per l’insoddisfazione kurda concentrata in un nord-est che resta comunque territorio precario, malvisto da Ankara e mal sopportato da Damasco.

Così, mentre i passi militari e quelli diplomatici si dicono rivolti a un’ipotetica pace, di fatto può consolidarsi quell’instabilità della guerra perenne che può fare della Siria l’Afghanistan del vicino Medio Oriente. Allora ci s’interroga su quanto durerà il presidio turco nella da loro definita ‘zona di salvezza’? Negli otto anni di conflitto, soprattutto dal 2013, la diplomazia internazionale prospettava una transizione con libere elezioni sotto la supervisione dell’Onu. Asad e i fedelissimi hanno sempre rifiutato, ancor più lo faranno ora che la sorte gli è benigna. Eppure le contraddizioni restano, dalla rabbia degli arabo-sunniti sconfitti ed esclusi, alla forzata prostrazione kurda che col Rojava combattente ha provato l’ebrezza di un’autogestione per ora congelata e forse per sempre cancellata non solo per volere del nemico Erdoğan. Negli anni i kurdi hanno imparato che il nemico può celarsi dietro le maschere più impensate, e quel che esce da Sochi ribadisce il concetto.  

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