Reclamano da giorni la cacciata di Hariri junior, la caduta d’un
governo corrotto, la fine d’un sistema che non li rappresenta e sono per una
volta uniti i libanesi sunniti, sciiti, cattolici, maroniti, drusi, comunità
divise in un Paese che fra le tante contraddizioni (quattro milioni di
abitanti, due milioni di profughi) condivide col premier Saad Hariri, un
destino comune per eredità paterna. Il capostipite Rafiq, imprenditore dalle
umili origini e dalle grandi pretese conseguite col protettorato saudita, mise
su un impero edilizio, bancario e delle telecomunicazioni che a inizio anni
Novanta gli consentì di guidare il Paese, traghettandolo dalla guerra civile a
un benessere di facciata ma non per tutti. Con lui la dinastia Saud mise le
mani su Beirut, incrementando anche sulla storica striscia libanese quel
confronto-scontro con l’Iran, da parte sua interessato a sostenere la corposa
comunità sciita, un quarto della popolazione. Il liberismo debitorio di Hariri
padre terminò col botto di San Valentino, il grosso attentato del 2005 che
l’assassinò assieme a numerosi collaboratori. Fra l’ingombrante presenza
dell’esercito siriano e le invasioni d’Israele il Paese visse un’ennesima fase travagliata
sino alle elezioni del 2009, vinte dalla coalizione che conduceva l’allora
neppure quarantenne Saad a guidare il governo. Lui cercò il massimo della
cooperazione fra tutte le componenti etnico-confessionali per la difesa
dell’integrità nazionale. Inizialmente ci riuscì. Però l’unità è risultata una
maschera dietro cui questioni sociali son rimaste insolute.
E’ l’accusa lanciata in queste ore per le strade della capitale, della
popolare Tripoli, agitata come lo sono le località meridionali di Sidone e
Tiro. “I politici non ci danno nulla, le
promesse non bastano” grida la gente. Le ultimissime promesse di Saad
riguardano un pacchetto di riforme che il suo gabinetto s’è affrettato ad
approntare per tamponare la piazza, ma l’illusione difficilmente funzionerà. Certo
una protesta scoccata per una tassa introdotta sulla messaggeria WhatsApp, pur
in linea con la società due punto zero, appare sovradimensionata. Eppure se da
una parte mostra la giovane età delle masse in agitazione denota un malcontento
per tanto altro: tassazione generalizzata e condizioni economiche
problematiche, a cominciare dalle possibilità di lavoro. Il debito pubblico che
il Rafiq della ricostruzione faceva salire già nei Novanta, continua a
incrementare, per certi aspetti senza motivo anche perché il figliuolo,
tutt’altro che prodigo, s’è fatto cogliere con vizietti d’ogni genere, fra cui
quelli dei costosissimi doni all’amante mannequin a carico, sostengono i
detrattori sebbene lui smentisca, delle disastrate casse statali. Ma i guai per
Hariri junior travalicano la passione per le modelle in bikini, riguardano la
sperequazione fra impegni statali disattesi e sperpero di denaro, nella conservazione
di quello che giovani oppositori additano come un sistema politico clientelare,
una moderna proposizione del padronaggio feudale.
In questi giornate nella Beirut dell’attacco al sistema,
nell’Hamra dello struscio o nelle aree monumentali che fanno da salotto
cittadino e anche nella periferia sud di Dahieh, l’immenso sobborgo-roccaforte
di Hezbollah, s’è vista la gente di strada che resta fuori dagli apparati di
gruppo e di partito. Capire come svilupperà quest’attacco al cielo delle
leadership da parte d’una cittadinanza stanca dei politici è tutto da scoprire.
Il premier contestato fa trapelare misure tampone per rimpinguare le finanze
che sembrano contentini di facciata: dimezzare gli stipendi dei funzionari (e
creando malcontento fra costoro), privatizzare il settore delle
telecomunicazioni, rimaneggiare quello elettrico. La più oculata appare quella
di servirsi di un’unità di tecnici, ma nella casta c’è chi torce il naso. Di
fatto il sostegno maggiore che Hariri riceve proviene dai bastioni del Partito
di Dio. Il segretario generale Hassan Nasrallah parlando della protesta s’è
dichiarato contrario alla caduta del governo. E un po’ tutti i partiti -
ovviamente il Movimento Futuro, le Forze Libanesi, il Partito socialista
progressista, Amal - si sono stretti attorno al premier contestato per salvare
se stessi, visto che l’aria che tira esprime la volontà di togliersi di mezzo
un tabù. Magari non del tutto quello dei gruppi etnico-confessionali, ma della
loro cogestione affiliativa e clientelare, finora panacea per la convivenza che
però crea la frattura fra i vertici e la popolazione. Nell’incerto domani s’ipotizza
anche il lasciare la piazza, finora pacifica e colorata, a un controllo
dell’esercito. Proporrebbe quell’orizzonte sconosciuto a tanti ragazzi nati nel
Terzo millennio. Ma certi episodi denunciati in queste ore: militanti di Amal
che strattonano e minacciano taluni manifestanti possono intimorire chi non ha
dimenticato lo spettro della guerra civile.
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