Nell’Egitto dei rapimenti, dove il domani di tanta, troppa gente è
in forse e l’esistenza è sempre in bilico, chi mostra dissenso, sia conosciuto o meno, rischia sempre. I feloul ruffiani
fanno confidenze nei commissariati. I baltagheyah
magari ti seguono e ti provocano finché qualche mukhabarat t’affianca mentre sei per via, t’infila in un’auto
civetta, e se cerchi di evitarlo e provi a ribellarti, ti pesta davanti ai passanti intimoriti da
armi spianate che li avvertono di “un’operazione antiterroristica di massima
sicurezza”. L’infamia si ripete nel Paese dove i Sisi e i Ghaffar hanno
trasformato la conduzione del quotidiano nell’ordinaria accettazione di
sopruso, violenza, morte. Realtà che governanti parolai, come quelli di casa
Italia ma non solo, condannano teoricamente oppure fan finta di non vedere,
mentre gli affari trattati dai Descalzi (affari dell’Eni e pure personali)
marciano senza intralci, perché geoeconomia e geopolitica non conoscono morale.
Ogni princìpio di legalità è morto da tempo assieme a Regeni Giulio e agli
scomparsi e assassinati d’Egitto che il regime del Cairo continua ad alimentare.
Variando, come abbiamo già denunciato, l’arco repressivo, proponendo perfino la “morbidezza”
della galera a tempo, che accoppa lentamente lasciando la vita in sospeso fra
l’infame detenzione che hai conosciuto e un possibile ritorno a tempo
indeterminato nel buco nero.
Campione, ahilui, di prigionia (fra i giornalisti, sui militanti pesano pene più lunghe) è da 1028 giorni il cronista
di Al Jazeera Mahmoud Hussein,
assimilato alla Fratellanaza Musulmana solo perché proponeva servizi su questa
componente politica egiziana colpita dalla repressione dal golpe militar-civile
del 2013. Ultimamente la mannaia autoritaria è tornata a colpire il noto
attivista Alaa Abd al Fattah, riportato in uno dei bracci speciali della prigione
cairota di Tora dopo aver scontato cinque anni di detenzione. Così il tam-tam di
sostegno è ripartito per i nomi noti dell’opposizione interna (Ziad Elelaimy,
Ramy Shaath e molti altri) usando ciò che può: dai ‘social’ non offuscati, al
passaparola attraverso gli esiliati in Occidente che fanno da sponda a una difesa comunque
sempre più indebolita. S’è detto della persecuzione estesa agli avvocati,
esempio lampante dell’illegalità del sistema egiziano che non garantisce protezione
agli accusati anche quando i rilievi di polizia e magistratura mostrano lacune
e pretestuosità. Toghe stesse nel mirino, dunque, con episodi reiterati. E' di
questi giorni la notizia su quant'è accaduto a Esraa Abdelfattah, impegnata a
tutelare diritti umani nell’Egitto brutalizzato dal “sistema Sisi”. Esraa ha subìto il protocollo precedentemente descritto: sequestro da parte di agenti
della Sicurezza Nazionale, maltrattatamenti fino a un tentativo di
strangolamento, minacce affinché non rivelasse l’accaduto pena ulteriori
sevizie. Quanto dovrà durare il sostegno politico occidentale all’Egitto
dell’orrore?
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