Fuggire da Ras al Ain sotto un cielo violaceo e una pioggia di fuoco
è quello che i civili, stavolta in gran parte kurdi, coinvolti nell’ennesimo
atto dell’infinita guerriglia e guerra di Siria non meritano. Dove possono
riparare costoro? Non certo oltre quel confine, terra dell’invasore turco.
Allora a sud lungo l’immensa pianura che non pone ostacoli naturali, ma separa
entità geopolitiche e progetti ben differenti. Quello del territorio del Rojava
non è amato a nord, come a sud per ciò che dichiara e pratica:
autodeterminazione popolare difesa con le armi. E quelle armi leggere con cui i
militanti Ypg, che il guerrafondaio Erdogan chiama terroristi, hanno combattuto
e battuto i miliziani dell’Isis per quattro lunghi anni, poco possono a difesa
della propria comunità se la battaglia si scatena con artiglieria e
bombardamenti aerei. Esercito e aviazione turca le hanno usate ieri portando
sgomento, rabbia, danni e morte. Si contano parecchie distruzioni e una decina
di morti, seppure i sono dati risultano frammentari. Gli alleati-sfruttaturi
delle Unità di difesa del popolo, statunitensi innanzitutto e di riflesso i
comandi Nato, restano ambigui nonostante le dichiarazioni parolaie di non
abbandonare a se stessi i kurdi, combattenti e non. Di fatto, quel che è
accaduto nei tre giorni scorsi: annuncio di ritiro delle truppe da parte di
Trump e parziale smentita hanno rappresentato il lasciapassare americano
all’azione di forza turca. Seppure quest’ultima potrebbe essere l’avvio della
soluzione che il Sultano medita da tempo: azzerare la presenza organizzata
(militare e civile) dei kurdi ai confini meridionali, scardinando l’esperienza
del Rojava con l’alibi della lotta al terrorismo e il consenso delle potenze
straniere, sicuramente statunitense ed europee. L’ipocrisia di quest’ultime
annuncia necessario la riunione del Consiglio di Sicurezza Onu, ma di fatto
nulla ferma quel che Erdoğan ha patteggiato in fatto di milioni di profughi e
magari, in un prossimo futuro, dei duemila miliziani dell’Isis prigionieri.
Lui prende tutti per potersi prendere tutto. Resta l’incognita
russa, molto coinvolta sullo scenario siriano per i normali interessi di parte,
come del resto fa ogni potenza. Putin e il suo principe della diplomazia
Lavrov, salvatori di Asad per le contropartite strategico-militari che ne
ricevono, dovranno decidere se mettersi di traverso al tacito accordo
Usa-Turchia per il cuscinetto di “sicurezza” nei territori del Rojava. Quest’intervento,
ripetiamo, potrebbe restare limitato, ma di fronte alla legittima difesa
dell’Ypg potrà creare decine di migliaia di profughi e ulteriori eccidi di
combattenti e civili non tanto contro le milizie turkmene islamiste che
appoggiano sul terreno l’avanzata dell’esercito turco, quanto sotto i missili
che l’aviazione della mezzaluna sgancia su ciò che si muove a nella spianata
dal confine incerto. Però il beffardo nome “Fonte di pace” che scimmiotta le
angherie del peggiore sionismo verso l'altra popolazione vessata e frammentata
di Palestina, sta trovando consensi ad Ankara. Consensi larghi che travalicano
quella metà dei turchi fedele alle strategie del Sultano. E’ di queste ore il
consenso che il partito d’opposizione Chp rivolge all’occupazione militare
presentata come un’operazione antiterroristica. Il segretario del partito
repubblicano Kılıçdaroğlu ha dichiarato di “pregare
affinché l’azione giunga il prima possibile a un completo successo, senza
perdite per i nostri eroici soldati”. E l’altra figura d’opposizione l’ex
lupa Akşener, che nei mesi scorsi aveva rubato la scena all’anziano leader dei
‘Lupi grigi’ leader Bahçeli, senza peraltro togliergli molti voti ha detto “Quando l’artiglieria turca inizia a sparare,
ciascuno tace”. Insomma la nazione
turca si stringe attorno all’amato e odiato Sultano. E l’unica voce di vera
opposizione nel Paese viene ulteriormente braccata, con nuovi arresti a
esponenti del Partito democratico dei popoli, al solito accusati di sostegno al
“terrorismo” del Pkk, e allo stesso combattentismo kurdo in Rojava.
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