martedì 27 giugno 2023

Afghanistan, la piaga della tossicodipendenza

 


Un terzo della popolazione afghana (12 milioni di persone, ndr) si droga. Questo sostiene uno dei tossicodipendenti raggiunto dai microfoni di Al Jazeera e spiega chi sono costoro. Molti li conosce, sono disperati come lui che vivono ai margini d’una società sempre più povera, afflitta, disperata. La povertà innanzitutto, la mancanza di occupazione, qualcosa da fare, coltivare, costruire, vendere. Questa massa informe si riunisce sempre più numerosa in luoghi sempre più diffusi. Quindici anni addietro era Pul-e Shukta e il suo ponte, in un’area della Kabul occidentale, ora i punti di ritrovo sono tanti, frequentatissimi, nel loro oblìo e dolore. Di frequente si raccolgono i cadaveri di coloro che crepano fumando oppio e derivati, corpi resi inerti e fragili da astinenza da cibo, ma non da droghe. Anche corpi di trentenni che mostrano il doppio degli anni. Raccolti in un panno sollevato da braccia pietose o semplicemente solidali, e ancora in grado di connettere, verso compagni di inalazioni che un giorno via l’altro producono confusione, alterazione, delirio, decessi a catena. I volti, emaciati, sudati, luridi, feriti da chissà quanti colpi dati e presi in risse attorno a una dose che circola accanto ai ‘cacciatori di drogati’. Che picchiano anch’essi e catturano gente in una sorta di pattugliamento itinerante. Eppure risulta a fin di bene. Li conducono in una specie di prigione-ospedale, a prima vista sembra più la prima che il secondo. Dichiara mille posti-letto e non è una creazione recente, risale al 2015. Sorge in un’ex base militare statunitense ed è intitolata nientemeno che a Ibn Sina (Avicenna) il filosofo, matematico e medico vissuto, fra il 980 e il 1037, in quello che è oggi l’Uzbekistan. La denominazione illustre non solleva il sito dal suo stato di dolore. La differenza è che il controllo dell’ingresso, fino a due anni or sono gestito dalle divise dell’esercito di Ghani, è in mano ai kalashnikov dei  taliban. In difficoltà nello smaltire un crescente via-vai di arrivi. 

 


Perché se i numeri citati all’inizio potrebbero essere esagerati, l’ultima statistica diffusa nel 2015 da Unodc, l’Agenzia Onu che s’occupa di sostanze stupefacenti, parlava di un quasi raddoppio delle cifre di tossici nell’Afghanistan esaminato, Kabul e poco più, da 1,9 milioni a 3,7 milioni abbondanti. Gli otto anni trascorsi senza più rilevazioni, il cambio di regime, il baratro economico di uno Stato inesistente, la sospensione di una buona fetta di aiuti umanitari, l’anno e mezzo di emergenza alimentare, l’isolamento internazionale fanno uscire di senno non solo i disperati, ma tanti afghani che non sognano più nulla e se sognano vedono un orizzonte nerissimo. Se parla il responsabile del centro, un comandante talebano di nome Mawlavi, dice che le droghe sono vietate nella cultura islamica. La nenia è nota: divieto assoluto in tutte le province dell’Emirato. Di certo non solo il consumo, che nonostante la desolazione di cui parliamo, è limitato, perché l’oppio e l’eroina prodotte viaggiano per il mondo, rifornito all’80% da queste terre. Sono vietate coltivazione, lavorazione e commercio. Tutto in teoria. I fatti dicono altro. Ci fu un tempo, col primo Emirato del mullah Omar, che la produzione cui attingevano i mujaheddin, i Signori della guerra e quelli degli affari, si bloccò. Ma dall’epoca dell’Enduring Freedom, dell’occupazione Nato e dei governi imposti da Washington tutto è ripreso. E continua così, nonostante le versioni di comodo talebane. L’Islam vieta l’oppio, ma i turbanti chiudono gli occhi e aprono le tasche, perché non è un segreto che essi stessi lucrino sui traffici. Ovviamente non solo loro. Anzi, il business delle mafie della droga, internazionali e trasversali, unisce Oriente e Occidente, iraniani, russi, turchi, greci, italiani, albanesi (la lista è lunga e può proseguire) e tanti clan solidali. Dalle mafie alle curve degli stadi, come certificano gli ammazzamenti delle cronache. Il tossico disperato rastrellato da ronde della sicurezza di Kabul, viene perquisito, privato di pipette e siringhe, e pure di qualche moneta e telefono. In fila, spesso scalzo, non perché sia privato di calzature, semplicemente non ne ha, procede nella struttura dove gli si offrono sandali, vestiti puliti da indossare dopo una doccia. 

 



L’acqua, il sapone scivolano su corpi sempre scheletrici, li assistono volontari del cui servizio la gestione talebana fa vanto. Si può pensare a soggetti, quasi tutti di sesso maschile, derelitti, senza famiglia e senza Dio. Non è così. Molti di loro sono padri, in tanti pregano, se non sono in preda a deliri. Ma c’è anche chi impreca Allah. Sono finiti risucchiati nel circolo della dannazione per una crescente sfiducia nella vita che avevano davanti agli occhi. Sniffano abbarbicati ai pali anche ex ufficiali dell’Afghan Securities Forces che fu di Karzai, conoscendo o forse no, dipende dall’età, quel che faceva Wali, il fratello narcotrafficante del presidente. Lavàti, rasati, vestiti i ricoverati passano alle attenzioni del personale sanitario, certo le crisi d’astinenza risultano difficili da gestire. Chi ce la fa tenta un recupero della vita, intesa come stato minimo di salute, altri restano in un limbo, fra i tentativi medici e le maniere forti delle guardie talebane. C’è chi tenta il suicidio, chi si chiede quale futuro gli riserva l’Emirato, chi sostiene di sentirsi in galera. Ma nei momenti d’incontro collettivi che la direzione propone c’è anche chi afferma di voler uscire dalla schiavitù dell’oppio e pensare alla salute. Alla salute, sì. Pur davanti a difficoltà alimentari ed esistenziali. Sembra una rinascita. Forse per alcuni lo sarà. Il momento comune semplice ed efficace, nella permanenza nello spazio di Avicenna che dura una mesata, è quello dei pasti. Il riso fumante può inebriare più di vecchi fumi, perché appare un frammento di normalità mangiare un piatto caldo a chi racconta d’aver mangiato topi. Le donne di questi uomini persi, se mogli e madri, dicono d’aver condotto avanti la prole, come potevano, ora che il lavoro s’è azzerato. Hanno smarrito i mariti, non ne hanno notizie, sebbene alcuni gettavano l’esistenza a due chilometri da casa. C’è possibilità di visitarli durante il recupero, il direttore Mawlavi ha disposto incontri nella giornata del venerdì. Sperando che, fra una preghiera e l’altra, gli ospiti si risollevino. Proprio i pazienti che reagiscono hanno chiari i motivi della caduta agli inferi: guerra, povertà, mancanza di lavoro e di prospettive. A loro la volontà di Allah non basta.

martedì 20 giugno 2023

Cisgiordania, la morte quotidiana

 


Sei morti, oltre novanta feriti ieri nella ‘Jenin dei martiri’ che continua ad aumentare il numero di quest’ultimi al pari di presenze sempre più numerose nel campo profughi. E’ che nella Cisgiordania assediata ovunque, e asfissiata dalle crescenti colonie illegali, non esistono né uno straccio di normalità né tregue. E la gente, assediata in casa, vaga su territori militarizzati, senza avere pace nell’anima e futuro nella quotidianità. Mentre Mustafa Barghouti, segretario dell’Iniziativa Nazionale Palestinese, così commentava le uccisioni di ieri: “Non è uno scontro a fuoco fra due fazioni. E’ una guerra criminale che l’esercito israeliano, molto più equipaggiato, sta conducendo contro i civili di Jenin, usando elicotteri Apache, caccia F16, blindati di terra e quantità illimitata di polvere da sparo”, giunge la vendetta palestinese che fredda quattro coloni presso l’insediamento illegale di Eli. Il luogo è distante da Jenin, sorge su una collinetta presso l’autostrada numero 60,  sopra Gerusalemme e Ramallah, un sito incuneato fra i villaggi palestinesi di As-Sawiya e Qaryut. Eli esiste da quarant’anni, è dedicato a un sacerdote biblico. Con questo genere d’insediamenti condannati anche dalle Nazioni Unite e capaci di ospitare ormai 750.000 persone, Israele ruba la terra e la vita del popolo dirimpettaio, facendo fare il lavoro sporco all’oltranzismo dei coloni, tutti armati e dal grilletto facile, che nelle marce per l’insediamento di ‘nuovi cittadini’ mettono in prima fila donne e pargoli indottrinati nel più fanatico dei programmi: riprendersi una terra considerata propria ed eliminare la presenza araba. Eliminarla fisicamente. Così viene sotterrata anche la farsa degli Accordi di Oslo, che mai hanno determinato un vero Stato palestinese, obbligato a vivere sotto la minaccia delle armi di Israel Defence Forces e spinto a una resistenza eterna che è vita e morte, propria e altrui, in una spirale infinita. L’odierno attacco palestinese è giunto presso una stazione di servizio e mentre Natanyahu chiede una consultazione immediata sulla sicurezza, l’estrema destra sua alleata spinge per un’operazione militare su larga scala, ben peggiore di quel ch’era accaduto ieri. Il portavoce di Hamas dalla Striscia di Gaza giustifica le uccisioni dei coloni come “risposta ai crimini d’occupazione”. 


 

domenica 18 giugno 2023

Dal Belucistan, sperando di non morire

 


Sarà impossibile ricostruire il preciso numero dei migranti annegati al largo dell’ellenica Pylos per le carenze o le goffe manovre compiute nella notte del 12 giugno scorso dalla locale Guardia costiera che aveva intercettato l’imbarcazione dov’erano stipate fra le seicento e le settecento persone. Ma simili ‘incidenti’ - di cui si racconta il tragico epilogo solo nelle situazioni nelle quali superstiti o soccorritori ricostruiscono a grandi linee l’accaduto - sono la punta dell’iceberg di altre sciagure non documentabili perché il carico umano affonda senza lasciare traccia, almeno nei primi giorni seguenti la catastrofe. Fra le famiglie colpite dalla scomparsa dei cari quelle pakistane risultano sempre più coinvolte dal crescente numero dei migranti, in prevalenza giovani, spinti dal caos interno a lasciare le province d’origine. Nel 2022 l’Organizzazione mondiale delle migrazioni poneva i pakistani in 13° posizione fra chi attraversa il Mediterraneo cercando approdo fra Grecia, Italia, Spagna per sperare d’essere accolto in qualche Paese dell’Unione. Quest’anno il loro ranking di migrazione salirà perché a carovita, disoccupazione, alluvioni s’aggiungono le ulteriori tensioni politiche e l’instabilità interna. L’Autorità Federale d’Investigazione di Islamabad conosce da molto tempo le direttrici migratorie e pure la rete dei trafficanti che le tracciano, le rinnovano, le mutano. Secondo il maggior quotidiano pakistano Dawn un nodo di smistamento è nel Belucistan, che con i suoi spazi aperti verso l’Iran consente di variare le rotte alle organizzazioni del racket. La città di Naukundi è un punto di raccolta per chi proviene da nord, dal Gujarat, o dal centro, Multan e Quetta. Per la cronaca la località ha dato i natali all’attuale presidente del Senato, Sadiq Sirjani, esponente dell’omonima tribù che risulta istruita e ben inserita nei ranghi politici e amministrativi.  

 

L’elezione di Sirjani è stata sostenuta anche dal partito dell’ex presidente Khan, Tehreek-e Insaf, che da oltre un anno infiamma il Paese con proteste contro la dismissione dall’incarico del proprio leader. C’è da chiedersi quanto gli uomini della politica alta, di ogni gruppo, controllino il sottobosco della politica locale che accetta l’illegalità del racket di esseri umani. Oppure tutti tollerino tutto in base alle disfunzioni interne che spingono tanta gioventù a sognare in un domani altrove e le loro famiglie a finanziarne il viaggio d’una speranza che può trasformarsi in un incubo. I maggiori percorsi, noti alle suddette autorità e alle forze dell’ordine, sono: da Karachi verso Taftan, quindi verso Zahedan (la capitale della provincia iraniana del Sistan-Beluchistan) fino al confine turco e oltre. Un altro va da Karachi al Sistan-Beluchistan attraverso i distretti di Kech e di Lasbela. Un altro ancora da Quetta per il Beluchistan occidentale fino alle città di confine di Taftan, Mashkel, Rajay. La frontiera con l’Iran supera i 900 chilometri e, a detta dell’organismo d’investigazione, manca un numero adeguato di guardie di confine per un’adeguata interdizione. Sicuramente fra le guardie c’è chi chiude entrambi gli occhi davanti a profferte di denaro. E non si tratta di semplici agenti. Comunque dai rapporti su fermati e arrestati, c’è un buon numero di respingimenti via terra, per questo la via del mare appare più sicura, perlomeno a lasciare il Paese. Una rotta è dal mega porto di Karachi verso il Golfo di Oman con approdo a Dubai, ma poi la destinazione d’approdo è quella libica, con tutto ciò che comporta lo stazionamento nei centri di raccolta e l’incognita del proseguimento del viaggio. Più breve è la navigazione da Gwadar, il porto della mercanzia cinese per l’Occidente. Chi ci arriva e non trova il passaggio in barca - direzione sempre Dubai e la Libia - tende a ‘conquistare’ il Medioriente e l’Europa via terra, finendo, se tutto gli va bene, nella famigerata rotta balcanica che si blocca in Bosnia. Quelli che s’imbarcano da Tobruk, o da altri lidi, non importa se libici o tunisini, rischiano la tragedia del peschereccio Adriana.

domenica 11 giugno 2023

Tunisia, Meloni prosegue la campagna d’Africa

 


Ci si può domandare se il mortifero abbraccio fra la premier Meloni e il presidente tunisino Saïed, che nell’odierno viaggio si consolida con la benedizione della presidente della Commissione europea von der Layen, sia dettato dall’approccio pragmatico di entrambi (tener lontani gli sbarchi per Palazzo Chigi, monetizzare aiuti per quello di Cartagine) o dal comune dna attorno a questioncine come “la sostituzione etnica del proprio popolo” che dovrebbe ricondurre non solo chi la pronuncia ma addirittura chi la pensa a uno studio perlomeno elementare della Storia. Di fatto la febbre degli incontri che vede la premier d’Italia volare ripetutamente a Tunisi si collega all’isolamento del dittatore denominato RoboCop per la metallica insensibilità verso tutto, tranne che per la foja di potere. Ma i due si cercano perché pensano di servirsi l’uno dell’altro. Alla nostra presidente del Consiglio può far comodo l’uomo d’acciaio che s’impegna a tenere lontana dal Canale di Sicilia la migrazione disperata delle fasce subsahariane. Poi “l’assedio” alla Fortezza Italia, che pure reclama manodopera estera, può giungere dalle coste turche e greche, dalla rotta balcanica, ma questo convince ancor più Meloni della giustezza della propria campagna d’Africa poiché la Tunisia è un interlocutore bisognoso e disponibile. Da parte sua Saïed deve stare al gioco, non ha altre possibilità, visto che il Fondo Monetario Internazionale, come ha fatto in altre epoche con altri regimi locali (Burqiba, Ben Ali), dà per ricevere. Sul piatto stavolta mette 1,7 miliardi di euro in cambio di riforme, che restano generiche, ma dovrebbero riguardare una restituzione di dignità al Parlamento calpestato dal golpe bianco di fine 2019 e la limitazione o soppressione dei sussidi usati come specchietti per le allodole di un consenso comunque marginale. Alle elezioni dello scorso dicembre ha votato un milione di cittadini sugli oltre nove iscritti ai seggi. Il presidente-golpista è ossessionato dai migranti considerati criminali, ma pure da rivolte interne e cerca di stringersi attorno, oltre alle Forze della forza, settori privilegiati e pure disastrati, lanciando quest’ultimi nella caccia al negro che usurpa le già scarse possibilità di vita interna.

 

Tramontate le fasi industriali - tratti salienti del colonialismo storico, di quello di ritorno e di quello praticato dai satrapi della politica come il “socialista” Ben Ali legato al clan della consorte Trabelsi nello sfruttamento d’ogni risorsa dai fosfati, alle spiagge - il turismo resta l’unica risorsa. Ma oltre a ridursi sensibilmente per l’immagine d’uno Stato incapace di essere tale, gli investimenti turistici hanno da tempo scelto altri lidi, dalla Turchia alle monarchie del Golfo attrezzatesi nel diversificare le rendite del petrolio. Purtroppo per la propria dignità - che un’indomita opposizione cerca di tenere alta subendo repressione e galera, ma che non ha saputo interpretare né nella versione governativa del progressismo laico né in quella dell’Islam politico - l’odierna Tunisia è un luogo di disperazione. Fra gli autoctoni, specie giovani, che cercano, sperano, sognano di attraversare i 150 chilometri che li separano da Lampedusa, e i disperati o furbi italiani che cercano riparo dal fisco nazionale. La comunità di Hammamet e dintorni s’amplia, non solo della presenza di nostalgici in pellegrimaggio permanente al buen retiro di quel che fu capo latitante, ma fra i pensionati (gran parte sono ex servitori dello Stato in uniforme) che qui possono valorizzare la propria quiescenza con una ritenuta minima, rispetto alla quota dovuta nel Belpaese. Fisco maligno dicono e agiscono di conseguenza. Poi c’è qualcuno che su questo ha organizzato il personale business offrendo, a pagamento s’intende, le dritte giuste per conseguire lo status di pensionato detassato, incentivando, ma solo per chi lo vuole, l’altro mercato del turismo sessuale. Si tratta d’un contorno minimo rispetto alle masse della disperazione migratoria con cui si misura la grande politica. Ma tornando al duetto Meloni-Saïed, nel chi accontenta chi, e accontenta se stesso, il futuro può oscurarsi più per l’apprendista stregona del fantomatico “piano Mattei” che per il metallico RoboCop. Nessun accordo può frenare lo sconforto di centinaia di milioni di africani, specie se questo non prevede soluzioni lavorative dignitose da adeguare nei Paesi subshariani e inserimenti altrettanto dignitosi nell’Europa cui serve manodopera. Tali presupposti mancano visto che la supervisione Ue sceglie di applicare multe, anziché obblighi ai Paesi membri che non accettano migranti. La nostra penisola, dunque, può continuare a vedere flussi di barchini, in quanto Saïed non regolerà un bel niente. Al più continuerà ad ammassare cadaveri come nell’ospedale-obitorio di Sfax e se le strade ribolliranno senza possibilità di asfaltarle, volerà via come fece Ben Ali.

martedì 6 giugno 2023

L’Afghanistan delle vedove sole

 


La vita delle vedove senza figli nell’Afghanistan, ancor più talebano, è un rovo spinoso nel quale districarsi lascia graffi e ferite che restano silenziate. I drammi quotidiani sono talmente tanti che situazioni simili paiono inezie, anche perché risultano una “normalità” diffusa. Già ai tempi della guerra civile - quindi una trentina d’anni e due generazioni addietro - molte afghane restavano senza marito, una condizione protratta sotto l’occupazione della Nato. La morte violenta in quel Paese più che una variabile era una costante. Ovviamente non per tutti, ma i cospicui numeri dei decessi bellici, sono sempre passati in secondo piano.  Non solo quelli causati da signori della guerra, miliziani taliban e jihadisti, ma in parte anche quelli prodotti dai  democratici soldati occidentali autori dei cosiddetti “danni collaterali”. Le cifre approssimative venivano fornite da un’apposita agenzia dell’Onu. Poi, come dappertutto, si muore per malanni e questi aumentano dove la povertà e l’insicurezza sono di casa. Mutato da un biennio l’orizzonte politico, sappiamo delle difficoltà economiche e alimentari d’una nazione che resta nell’oblìo degli stessi aiuti umanitari, cosicché trentacinque milioni di afghani pagano le colpe d’un regime che non hanno scelto, come non sceglievano le soluzioni imposte dalla Nato. Resta la vita grama delle vedove, un’esistenza dura anche durante le presidenze Karzai e Ghani, che raggiunge l’acme per chi supera i quarant’anni e difficilmente trova un nuovo consorte. Gli uomini cercano ragazze giovani con cui avere una prole. Perpetuare e ampliare la consuetudine d’una certa interpretazione della Shari’a che costringe la donna a essere accompagnata, fuori dal perimetro domestico, da un maschio di famiglia - il mahram - comporta a chi è lontana dal territorio d’origine, dove normalmente risiedono i parenti, difficoltà insuperabili. Queste donne sono gravate dall’impossibilità addirittura del sostentamento, poiché  non possono recarsi ad acquistare cibo e spesso non hanno denaro per procurarselo a causa delle restrizioni lavorative imposte dal nuovo Emirato. Senza nessuna occupazione, senza uomini di famiglia, senza figli queste vedove si riducono a sostare per via immerse nel proprio burqa a sperare nel pio gesto della zakat da parte di passanti e acquirenti del bazar. Solitamente si tratta d’un nân, offerto in aggiunta a quello comperato per la famiglia che madri caritatevoli offrono alle sventurate. Sembra un paradosso eppure rappresenta l’ennesimo momento buio d’una popolazione abbandonata al cinismo della politica che calzando il turbante, la divisa, il doppiopetto se ne infischia del presente e del futuro.   

domenica 4 giugno 2023

Turchia, i quattro assi di Erdoğan

 


Economia, Esteri, Difesa, Rappresentanza sono le punte di diamante su cui fa leva il presidente Erdoğan per il cammino del nuovo governo turco formato a neppure una settimana dalla sua riconferma. Diciassette dicasteri, una sola ministra, Mahinur Özdemir Göktaş, alla Famiglia e Servizi sociali. Mehmet Şimşek, Hakan Fidan, Yaşar Güler, Cevdet Yilmaz i nomi degli uomini che lo sosterranno in quelle funzioni. Uomini fidatissmi che fanno dire ai politologi come il quartetto sia la chiave di volta per la Turchia del futuro. Poi, si sa,  come le scelte del sultano siano sempre foriere di sorprese e ribaltoni, ma per ora le personalità scelte rispondono a necessità immediate. Mehmet Şimşek è stato già ministro delle Finanze dal 2009 al 2015 e pure vice-premier dal 2015 fino al 2018, quando a seguito della riforma presidenzialista la carica di primo ministro è stata abolita. Viene da un paesino della provincia di Batman, area e anima kurda nella sua stessa numerosa famiglia d’origine. Ha studiato economia alla Gazi University di Ankara per poi dedicarsi alla politica. E per offrire un contributo tecnico al partito di riferimento, l’Akp, ha avuto rapporti con Deutsche-Bender Securities e Ubs Securities. Fra il 2014 e il 2015 anni in cui il Paese registrò un rallentamento economico derivante anche dalle tensioni interne e soprattutto dalla caduta del valore monetario della lira verso il dollaro, Şimşek sostenne il governo ma ritenne che l’economia potesse ulteriormente oscillare. Certo, non s’oppose alle sontuose spese per la costruzione del nuovo palazzo presidenziale bollate dall’opposizione come un insulto alle criticità nazionali. Nel 2018 Erdoğan al vertice del ministero gli preferì il genero Albayrak, finito in una diatriba per speculazioni e poi defenestrato. Hakan Fidan è stato per oltre un decennio il gran capo del Mıt, i servizi d’Intelligence della Turchia dell’Akp. E’ laureato in Scienze politiche e proviene dall’esercito dov’era sottufficiale durante i governi liberisti del kemalismo. E’ stato il presidente a sceglierlo come consulente per la sicurezza per poi porlo al vertice dell’Agenzia. Sua la task-force che nel biennio 2010-12 ha tenuto i famosi ‘colloqui di pace’ nel supercarcere di İmrali col leader kurdo Öcalan lì detenuto. Per quei contatti alcuni membri della magistratura volevano incriminare Fidan. Nel 2015 per un breve periodo aveva abbandonato gli incarichi investigativi per entrare in politica nelle file dell’Akp, ma dopo un po’ desistette. Si vociferò che fosse lo stesso presidente a dissuaderlo, considerandolo più utile alla causa nel ruolo di esperto di spionaggio. Dopo il tentato golpe del 2016 si è interessato a ricostruire gli elenchi della rete gülenista presente fra apparati della sicurezza e delle forze dell’ordine che ha subìto l’epurazione del governo. Nel dicastero degli Esteri sostituisce un altro politico vicinissimo al sultano, il moderato Çavuşoğlu. Il più anziano del quartetto è Yaşar Güler, coetaneo del presidente, uomo del fare militare dunque attivo sui fronti bellici. Negli ultimi anni s’è occupato di quello siriano e iracheno con gli effetti geostrategici voluti da Erdoğan. Una vita trascorsa nell’esercito dove, dopo gli studi nell’Accademia militare, ha scalato vari livelli della carriera raggiungendo, dopo il comando generale del 4° Corpo d’armata, l’incarico di Capo dello Stato Maggiore. Anche Cevdet Yilmaz proviene dall’est, originario del distretto di Bingöl, che nel 2016 è stato teatro di attentati e scontri a fuoco fra militari e militanti del Pkk. E’ d’origine zaza dunque kurda ed è un tecnico prestato alla politica. Laureato in Scienze economiche e amministrative ha affinato negli Stati Uniti le relazioni internazionali, ma è da un quindicennio nell’agone politico, prima come deputato al Meclis, e dal 2011 al 2016 come ministro dello Sviluppo. Il compito di vice-presidente che Erdoğan gli assegna è sicuramente una vetrina interna, visto che il grande capo sarà spesso occupato nei consessi mondiali.