mercoledì 18 luglio 2018

Il Pakistan sceglie il premier fra jihadisti e clanisti


Fatto fuori l’ex primo ministro Nawaz Sharif per vie legali, con una condanna a dieci anni per corruzione, il Pakistan, bomba geopolitica del Grande Medio Oriente, si avvia al voto del prossimo 25 luglio. Il forte partito di governo, la Lega musulmana, presenta fra gli altri un candidato recentemente graziato Shahid Abbasi, a conferma d’un andirivieni dalle galere. Ma ciò che gli osservatori sottolineano è la variegata presenza di gruppi e leader estremisti, vicini al jihadismo d’ogni tipo, dai talebani dissidenti che rinfocolano il Daesh centrasiatico (Tehreek-i Labbaik), a formazioni vicine a Lashkar-i-Jhangvi, considerate terroriste non solo dal cartello internazionale che dice di combatterle, ma da se stessi, vista la quantità di attentati contro la popolazione civile che vanno a compiere. Il principale obiettivo di questi gruppi sono i fedeli della minoranza sciita, spesso però sotto le esplosioni di camion-bomba e kamikaze restano anche tanti cittadini pakistani, che per oltre il 90% appartengono alla Umma sunnita. A una figura controversa, tempo addietro arrestato proprio per prossimità col jihadismo sanguinario filo qaedista, è stato concesso di presentarsi alle elezioni.
E’ Aurangzeb Farooqi, capo del raggruppamento Ahe Sunnat Wal Jamaal considerato appunto la maschera politica dei miliziani di Lashkar-i-Jhangvi. Un partito ammesso alle urne nonostante persegua una campagna di radicalismo confessionale caratterizzata da aperte manifestazioni d’odio verso le altre fedi. Tendenza che va molto al di là dell’impegno coranico verso i cosiddetti kafir. I passi che hanno portato la Commissione elettorale a chiudere entrambi gli occhi davanti a simili presenze ufficiali vanno ricercati nella continua ingerenza nella vita politica del Paese di quelle eminenze grigie che sono l’esercito e soprattutto l’Intelligence Isi. Entrambi perseguono da decenni interessi spesso contrapposti, appoggiando politici diversi pur di ottenere la conservazione d’un eccezionale potere di corpo, a seconda dei casi in accordo o in contrasto fra loro. Difficile dire se siano più potenti le Forze Armate o i Servizi di Islamabad, di fatto dall’epoca del golpe del generale islamista Zia-ul Haq la sfera politica coi vari Bhutto, Musharraf, Sharif ha rappresentato solo la facciata dietro la quale agisce, in maniera indipendente, l’apparato della forza.
Che ha propri interessi politico-economici, agendo da lobby, seppure lascia alla politica spazio per quell’affarismo di clan familiari che spesso conduce figure di primo piano (l’ultimo è Nawaz Sharif, ma pensiamo a mister 10% Ali Zardari, marito di Benazir Bhutto) ad avere seri problemi con la giustizia per colossali ruberie. Ai danni d’una popolazione in crescita esponenziale, oggi supera i 200 milioni di abitanti, con sacche amplissime di povertà e problemi sociali d’ogni genere. Su queste purulente piaghe s’inserisce la propaganda del radicalismo religioso che riesce a superare la stessa opposizione di organismi internazionali che provano a contrastare finanziamenti a tali componenti, anche quando passano come sostegni per iniziative culturali e religiose. Non è un segreto che le madrase del deobandismo pakistano sono una fucina per quella tipologia di argomenti ripresi anche da candidati come Farooqi, ma tant’è. La politica interna ammette la sua e altre discutibili candidature e, come su tutto, potrebbe tranquillamente esserci lo zampino dei militari. Costoro, in certe fasi, hanno compiuto lotte serratissime al jihadismo, e per questo sono stati oggetto di attentati indiretti, come quelli odiosi attuati nel 2014 a Peshawar nella scuola frequentata dai pargoli degli ufficiali.  
Ma l’ondivago e più ampio gioco di potere vede in altre fasi, accordi, protezioni, sostegno e addestramento di talebani - come accade nei territori delle Fata - soprattutto in funzione disgregativa verso il vicino e di per sé caotico Afghanistan, su cui i governanti pakistani hanno mire di subordinazione, molto più dei taliban. Pur con l’aperta presenza di fondamentalisti dichiarati, la corsa alla carica di primo ministro pone in testa tre figure ‘perbene’ che piacciono all’Occidente, due delle quali appartengono agli immarcescibili clan gestori della vita pubblica. Il fratello del premier incriminato, Shehbaz Sharif, ricco di famiglia e comunque forte dell’industria Ittefaq, colosso dell’acciaio e della metallurgia, che dirige in prima persona. Il figlio d’un altro corrotto o mister corruzione, il citato tangentista Zardari. La nemesi storica non deve inficiare il presente di Bilawal Bhutto Zardari, ma clan e interessi di famiglia incombono. Quindi il candidato che sembrerebbe più free: Imran Khan, ex campione di cricket, già asceso sulla scena politica attorno al 2011. Analisti giudicarono i suoi programmi un guazzabuglio di idee, fra riforme para classiste, ben viste solo dalla destra conservatrice, e un vago populismo. Più l’ombra, mai smentita, dell’appoggio dei militari. Che danno e ovviamente prendono, con tutti, in ogni occasione.

martedì 17 luglio 2018

La Turchia si libera dell’emergenza, non dell’ingerenza


Il presidenzialismo assolutista studiato, cercato, ottenuto da Recep Erdoğan con l’ostinazione e il trasformismo con cui ha scioccato il mondo, mette ai suoi piedi tutti i settori del Paese. In questi giorni in cui si prepara un decreto di uscita dall’emergenza post golpe (rinnovata per sette volte nel corso di due anni), ne giungono altri riguardanti gangli economico-finanziari, istituzioni militari e culturali, tutti posti sotto strettissima ‘osservazione’. Vengono addirittura sciolti veri pilastri del laicismo culturale kemalista come l’Opera e i Balletti di Stato, il Teatro di Stato; veranno sostituiti da nuove entità le cui nomine di vertice spettano alla presidenza, non di particolari enti, ovviamente della Repubblica turca. Lo stesso Consiglio Superiore per la vigilanza, che aveva competenze ispettive su istituzioni pubbliche e private, eccezion fatta che per gli ambiti militari e giudiziari, subirà trasformazioni. I controlli s’allargheranno alle stesse istituzioni militari, al di là del rango fino alle alte gerarchie.

Scuole delle Forze armate, la Fondazione dell’apparato della sicurezza, le industrie che si occupano della difesa saranno oggetto delle verifiche del nuovo Consiglio. Il ministero delle Finanze avrà occhio e mani su Banca Centrale, Ziraat Bank e Halkbank, così come una serie di strutture (Agenzia di Supervisione e Regolamento Bancario e simili) verranno gestite dal ministro competente. Un tempo i ministeri coinvolti erano più d’uno. Un controllo ferreo più che dello Stato, del governo e soprattutto del sistema presidenzialista che può collocare uomini di propria totale fiducia nei ruoli chiave. Il settore dell’educazione, terreno in cui il gülenismo del movimento Hizmet aveva creato una rete fittissima di presenze e relazioni fra i suoi adepti, dopo lo stravolgimento operato con migliaia di arresti e decine di migliaia di rimozioni e dimissioni forzate, è in piena ristrutturazione. Le università vedranno collocati ai vertici rettori selezionatissimi, non tanto sul fronte delle competenze, quanto su quello delle obbedienze. Sarà l’occhio del presidente a scegliere i dirigenti degli atenei, per una certezza di omologazione al libero pensiero della nazione turca di modello erdoğaniano.

Un sistema al momento assolutamente vincente, e non solo elettoralmente. La forza del leader islamico che si fa nazione sta nella rete di alleanze interne e internazionali. Quelle globali lo hanno riposizionato, dopo la crisi di tre anni fa, nell’aggrovigliato scacchiere mediorientale. Il rapporto cordiale con l’omologo, anche in capo populistico-autocratico, Vladimir Putin, attualmente lo pone in una posizione di forza davanti a Trump medesimo. Che deve sciogliere il nodo delle forniture militari difensive previste dalla Nato (missili Patriot), aggirato dall’accordo per l’acquisizione del sistema russo S-400. Da gran giocatore d’azzardo qual è, per un ripensamento pare che Erdoğan chieda in cambio al presidente Usa la testa (nel senso di estradizione) di Fethullah Gülen. Se il baratto dovesse riuscire - sarà difficile, ma la folle idea vellica la vanità geopolitica del sultano - lui porterebbe al cospetto del popolo turco l’attentore all’unità patria. Un colpo di teatro opposto al colpo di stato. In questo il presidentissimo si supera, quasi giustificando l’ingerenza in materia teatrale.

lunedì 16 luglio 2018

Gaza, gli occhi oltre la morte di Amir e Luay


Crepare sul tetto d’una costruzione abbandonata, perché sottoposta come tutte le case di Gaza, al fuoco di artiglieria, caccia e droni, è stato per Amir e Luay, trentuno anni in due, un passo scandaloso oltre che letale. Perché stare su un tetto sotto le bombe che arrivano da ogni parte? Perché e come non starci, in quell’area stipata di persone e di pericolo di morte che è la Striscia di Gaza. Dove l’aggressione è strisciante, s’infiamma e prende tregua per poi riversarsi ancora più violenta come un uragano in minuti lunghi come giorni. Lì dove l’esercito di Tel Aviv da quarantott’ore ha ripreso a bombardare fitto come non faceva da quattro anni. L’alibi è ristabilire la sicurezza degli attigui villaggi israeliani messa in forse dell’intensificato lancio di razzi della Jihad islamica che condivide con Hamas le azioni militari sui 40 km di terra, assediati dal cielo, dal mare e dai confini. La frontiera con Israele, in subbuglio dal 30 marzo per le manifestazioni di protesta denominate “Marcia per il ritorno”, s’è trasformata nell’ennesimo cimitero e ha visto cadere, settimana dopo settimana, centotrentotto palestinesi. Tanti giovanissimi, come Amir e Luay, e giornalisti e personale paramedico presi a fucilate dai cecchini con la licenza di uccidere ribadita più volte da Netanyahu e Lieberman.
I governi del mondo non si pronunciano sulla carneficina, le mobilitazioni degli attivisti, di associazioni per i diritti e umanitarie sono tante, però non bastano e soprattutto non fermano ciò che la geopolitica ha trasformato in cinismo criminale, in quella e altre aree mediorientali. I giorni sulla Striscia sono sospesi anche quando il sole rallegra e riscalda la vita, tutto può sfuggire di mano in un attimo. C’è la guerra, palese o strisciante, ma come tener fermi, a riparo centinaia di migliaia di ragazzi? Non puoi proteggere neppure i bambini in edifici attrezzati, i pochi bunker vengono spiati coi droni e spianati coi razzi potentissimi degli amici americani. Tutto azzerato d’intorno, perché secondo la democrazia israeliana in quello spazio ridotto in lager l’insicurezza degli assediati deve procedere con la loro umiliazione e perdita di dignità. Disprezzo per il popolo considerato nemico, nessuna pietà neppure per due ragazzi piazzati su un tetto, forse a giocare, forse ad allontanare lo sguardo dalle chiusure d’un orizzonte che la comunità internazionale tiene serrato, sostenendo che Gaza può restare bloccata nel destino che altri le decidono. Amir e Luay alzavano gli occhi dalla polvere per sperare, probabilmente sollevavano la testa, imitando le decine di migliaia di fratelli e sorelle che da oltre cento giorni vanno e vengono da quelle barriere, da quel filo spinato della vergogna che Israele irrora di sangue innocente.

giovedì 12 luglio 2018

Berlino-Kabul, rimpatrio fatale


Non conosciamo tuttora il nome del migrante respinto che ha deciso di farla finita appena ricondotto a Kabul. Si sa che era un ventitreenne e da otto viveva in Germania. Su di lui e altri 68 rifugiati in terra tedesca era calata la mannaia del ministro di ferro Seehofer, un Salvini teutonico che odia gli stranieri disagiati e sul tema tiene sotto scacco la cancelliera Merkel. Il giovane sicuramente era giunto nell’area europea attraverso le rotte balcaniche e ancor prima iraniano-turco-greca,  con le varianti del caso verso sud o nord del nostro continente, come hanno fatto altri disperati le cui storie sono finite anche romanzate sugli scaffali delle librerie. Una la conosciamo personalmente per aver incontrato anni addietro l’autore e protagonista (Ali Ehsani, Stanotte guardiamo le stelle, Feltrinelli) in un centro per rifugiati. Vicenda a lieto fine questa, sebbene l’Ali piccino, fuggito perché i suoi genitori erano morti sotto le bombe delle infinite guerre afghane, abbia perso il fratello maggiore durante la personale odissea. Ma fra le fughe dal travagliato Paese dell’Asia centrale di fine millennio e le attuali ci sono di mezzo gli interventi armati statunitense e della Nato, l’Enduring Freedom e l’Isaf Mission che dovevano pacificare la nazione, portare la democrazia, liberare la popolazione dalle grinfie di Signori della guerra e talebani.
Balle. Coi primi le due amministrazioni Bush e Obama hanno formato governi presieduti dai locali ‘mister Conte’, Hamid Karzai e Ashraf Ghani, dei prestanome malleabili, maschere per poter proseguire politiche decise in altre sedi. Così l’Afghanistan è tornato l’inferno già conosciuto durante l’occupazione sovietica e la guerra civile, dal 1979 al 1996. Ma poi coi talebani e le suddette occupazioni occidentali, che alimentano la guerriglia dei turbanti fatta passare come resistenza alle truppe straniere, generazioni di bambini e  ragazzi sono diventate adulte, avendo come unico panorama pacificante le bianche vette dell’Hindu Kush. Il resto è l’antica polvere degli altopiani afghani, la sedimentata miseria mai lenita dalla plurimiliardaria giostra degli aiuti umanitari in una nazione mantenuta volutamente in guerra. E soprattutto il sangue versato ogni giorno da gente che salta in aria: per via, mentre prega in moschea, quando raggiunge il mercato per acquistare un trancio di naan, il pane locale. Almeno quattro progenie di afghani non conoscono che guerra, precarietà e morte. Gliela porta la politica statunitense che chiede agli alleati maggiori sforzi economici per le spese Nato, come ha fatto Trump a Bruxelles.
Gliela portano i governi dell’Unione Europea che si prostrano servili e continuano a mantenere truppe in quei luoghi, senza nulla risolvere. E’ così da diciassette anni e potrà continuare a esserlo. Non serve neppure recarsi sul posto, e non ci si va se non si è soldiers, businessmen, reporters embedded. Tranne che nei casi, non numerosi, di operatori umanitari della sanità (Emergency e dintorni) o cooperatori non collusi coi governi corrotti. Quegli attivisti che collaborano con ong locali che si chiamano: Afceco, Hawca, Opawc, Saajs e si prendono cura di orfani, donne abusate, ragazze da istruire, familiari di vittime a cui promettere giustizia. Basterebbe seguire la cronaca del travagliato Paese mediorientale per comprendere da dove fuggono e perché decine di migliaia di ragazzi che sognano una vita diversa. Solo i più forti, gli attrezzati idealmente e ideologicamente, riescono a restare in loco a lottare, per provare di costruire alternative al plumbeo orizzonte che noi occidentali e le nostre politiche d’uso e consumo contribuiamo a rinnovare.
E non è un caso che le più strutturate, le più coraggiose siano le donne afghane. Loro che hanno poco o niente, hanno tutto da guadagnare pur in quadro così disastrato. Fra chi, come l’ultimo suicida, pensava di averla sfangata, di essere salito se non in Paradiso almeno d’essere uscito dal buio originario, lo scoramento del rimpatrio forzato dev’essere stato un colpo fatale. Dove si vedeva quel giovane uomo tornato a Kabul? A vagare in cerca d’un lavoro che, fuori dell’arte dell’arrangiarsi con micro commerci o artigianato povero oppure a vendere la propria esistenza alla burocrazia collusa con la politica corrotta, può condurre solo ad arruolarsi nei corpi combattenti locali messi su da l’Usa Forces, o affiliarsi nelle milizie talebane. Passi rivolti alla guerra, dunque. Passi di morte. La morte l’ha trovata nell’hotel dove attendeva d’essere ricollocato qui o là nel Paese, provincia più o meno sotto attacco dell’Isis o a giurisdizione talebana. Il suicidio liberatore l’avrà meditato durante l’intero volo di rimpatrio. Un tragitto nero, così diverso dalla luce che aveva sperato di trovare nell’Europa della sua salvezza.


martedì 10 luglio 2018

Sinai: i sogni, la rabbia


Il Sinai, regione egiziana dalla storia antica, da quella biblica alle travagliate vicende dell’occupazione israeliana con la ‘guerra dei sei giorni’, è un volto marginale ma ampiamente realistico dell’Egitto voluto dal generale Sisi. Un Paese spaccato e represso che mostra scenari contrapposti e contraddittori, come la sua desertica penisola perla del turismo. Circa mezzo milione di abitanti, fra stanziali e beduini, divisi nei 25.500 kmq dell’area settentrionale che s’affaccia sul Mediterraneo con 339.000 abitanti,  e i 150.000 residenti della più ampia fascia meridionale (33.000 kmq). L’area è da tempo afflitta dalla presenza di gruppi jihadisti di vecchia e nuova formazione. S’iniziò, subito dopo il golpe del luglio 2013 e soprattutto del massacro della moschea Rabaa Al Adawiya (dalle mille alle duemila vittime in un solo giorno, mai rivelata la cifra esatta) con una parte della Fratellanza Musulmana lì uccisa, quindi criminalizzata, che passava alla lotta armata contro l’esercito. Sebbene il jihadismo, fondamentalista e non, abbia accresciuto le milizie in quella zona, per vie proprie.
Per sostenere l’immagine di forza e sicurezza lanciata a sostegno della sua persona, il generale diventato presidente, ha proposto in più occasioni un repulisti ‘antiterroristico’ del Sinai, riportando ripetuti fallimenti. Certo, in vari casi si sono registrate catture e uccisioni di miliziani reali o presunti, che comunque non hanno prodotto l’estirpazione dei fenomeni violenti rivolti contro l’esercito, con azioni armate, e la popolazione attraverso attentati. Nell’ultimo biennio, seguendo il copione apparso in più aree mediorientali, anche il Sinai conta un gruppo di un neocreato Isis locale, spina nel fianco del regime, poiché ne evidenzia i limiti di efficacia militare e ne sbugiarda la presunzione di controllo del territorio. La strage del novembre 2017 nella moschea di El Rawda, nel Sinai settentrionale a 45 km dal capoluogo El Arish, compiuta con bombe all’interno e mitragliatrici esterne, ha rappresentato una carneficina senza precedenti (300 civili uccisi). L’attentato rientra nella strategia del terrore attuata dal Daesh che mette Sisi davanti all’incapacità di esercito e polizia di filtrare la regione. Visti i comportamenti conseguenti, resta pur sempre il dubbio che la volontà di tamponare il terrorismo non sia così piena come si enuncia, la repressione riguarda altre figure e situazioni.

Un terrorismo vivo consente al generale di perpetuare lo stato d’assedio lì e in tutto il territorio nazionale. Per il Sinai Sisi ha varato dallo scorso febbraio ‘l’operazione 2018’ con cui ha infarcito ogni sua pubblica apparizione durante la campagna elettorale di primavera. Una consultazione vinta col 92% dei consensi, a fronte d’una presenza alle urne del corpo elettorale inferiore al 30% e soprattutto senza avversari, visti lo scoraggiamento e l’eliminazione di sei candidati. L’operazione Sinai 2018 nulla ha potuto contro nuovi attentati, quello all’aeroporto di El Arish, a 50 km dalla Striscia di Gaza, ma tanto sta facendo contro la popolazione civile e lavoratrice. Le località di Sheikh Zuweid, El Arish e Rafah, questa a ridosso del confine palestinese, continuano a registrare demolizioni di abitazioni e fattorie, il 90% delle quali sono state rase al suolo. In più agricoltori e la gente del Sinai settentrionale devono fare i conti col blocco dei Tir (per ragioni di sicurezza, nel timore trasportino esplosivo) che comporta da mesi carenze di approvvigionamento alimentare. In tanti casi i contadini hanno creato, negli anni a loro spese, le strutture ora distrutte dai militari e non riceveranno risarcimenti.
I media di regime non trattano granché la questione, né riferiscono sui reiterati raid aerei dell’aviazione israeliana e di quella degli Emirati Arabi Uniti che “aiutano” le demolizioni dal cielo, a suon di bombe. Organizzazioni umanitarie hanno denunciato tali operazioni e le vittime civili che producono; da parte sua Il Cairo copre ogni cosa, sostenendo si tratti di guerra al terrorismo e all’improrogabile necessità di creare una zona cuscinetto sul sempre infuocato confine di Gaza. L’informazione locale, rieducata dal modello Sisi, considera tali iniziative un dono al benessere nazionale (sic). All’interno di questa tendenza ‘benefattrice’ si pone il faraonico piano del capo di Stato che, come altri omologhi della grandiosità autocratica, ha già prodotto il secondo canale di Suez e prevede una nuova capitale a sud-est dall’attuale. In più s’interfaccia al funambolico sviluppo di città nel deserto previsto sulla lingua di mare del golfo di Aqaba: i sauditi di Bin Salman in quei luoghi hanno progettato Neom, a metà fra la metropoli d’affari e la località turistica e mondana.
Una giostra di grattacieli e fantasmagorie per riconvertire i petrodollari e fargli intraprendere percorsi affaristici differenti. Il principe Saud prevede d’estendere la città anche sulla sponda del dirimpettaio e ha già impegnato 500 miliardi di dollari. Programmati hotel e villaggi turistici iper lussuosi per vip e ricconi d’alto bordo da far sorgere su entrambe le coste, il lato egiziano s’estenderebbe a nord di Sharm El Sheikh. Eppure c’è chi dubita dell’effettiva realizzazione del progetto in terra d’Egitto e chi crede che introdurrà un’ulteriore ingerenza saudita nel Paese, com’è accaduto con la vicenda delle isole Tiran e Sanafir, finite, in cambio di denaro, agli sceicchi che ne fanno luoghi di svago e porti franchi, con conseguenti paradisi fiscali. Fra nord e sud del Sinai, dunque, gli orientamenti divergono. Il mal comune degli abitanti locali è rappresentato, come per il resto degli egiziani, da nuove tasse, raddoppio del prezzo del carburante, azzeramento dei sussidi governativi per i ceti meno abbienti. Più tutte le incertezze economiche presenti, nonostante e ben oltre queste opere, spesso private e inavvicinabili per lo stesso cittadino medio, figurarsi per il terzo della popolazione (30 milioni di persone) che vive in povertà.

sabato 7 luglio 2018

L’attivista Cattafesta e il regime che non vuole intrusioni


Dopo dodici giorni Cristina Cattafesta è rientrata in Italia. La presidente del Cisda, fermata il 24 giugno a Batman (Turchia) dov’era in qualità di osservatrice elettorale invitata dal Partito Democratico dei Popoli, quindi trasferita in un centro di migrazione ed espulsione a Gaziantep, è stata restituita ieri all’affetto dei familiari e delle sue compagne. Il fermo, operato da agenti delle forze dell’ordine in base a controlli detti di routine, in realtà si è diretto su figure ben individuate quali erano gli osservatori internazionali, coinvolti a vigilare sulla regolarità delle elezioni. In diverse località del sud-est, dove si concentra l’elettorato kurdo, c’erano stati fermi a seguito di controlli simili. Nessuno, però, era stato trattenuto. Il blocco dell’attivista italiana, nota nell’ambiente della cooperazione internazionale per il lavoro svolto con l’ong Cisda (Coordinamento italiano sostegno donne afghane), è parso rivolto a ostacolare la presenza degli osservatori nei seggi. Ha, altresì, assunto il sapore d’un monito lanciato dal governo dell’Akp agli operatori dei diritti: la vostra presenza non è gradita nella Turchia a una dimensione creata a suon di repressione dal presidentissimo Erdoğan.
Il doppio successo ottenuto alle elezioni di due settimane fa blinda un regime che ormai usa il Parlamento solo come maschera di una democrazia, ma lo mutila delle funzioni operative in virtù d’un presidenzialismo totalitario. Con esso Erdoğan controlla la sfera legislativa e quella giudiziaria, oltre alle forze armate e tutti gli apparati della sicurezza nazionale. Lo spostamento ancora più a destra del partito Akp già di per sé conservatore, l’alleanza col nazionalismo parafascista dei ‘Lupi grigi’ che, coi voti del Mhp ha consentito un anno fa di far passare nel Maclis la riforma costituzionale varando il presidenzialismo ora vigente,  e lo scorso 24 giugno ha rilanciato verso un successo elettorale il partito di maggioranza, diventa di fatto un ulteriore soffocamento per il pluralismo. In realtà il multipartitismo in Turchia esiste. Formalmente non ci sono né partito unico, né quelle dittature militari che il Paese ha conosciuto in più occasioni dagli anni Sessanta in poi. Però l’opposizione, le altre formazioni politiche vivono sulla pelle un’oppressione per non essere conformi alla maggioranza elettorale.
Soprattutto l’opposizione di sinistra e filo kurda ha subìto nell’ultimo biennio una compressione della libertà politica ed esistenziale, com’è accaduto al co-presidente Hdp Demirtaş incarcerato, assieme a decine di deputati del suo gruppo, con l’imputazione, mai provata, di prossimità al Partito Kurdo dei Lavoratori (Pkk), considerato un’organizzazione terroristica. Ciononostante alle recenti consultazioni il sostegno alle liste Hdp della copiosa minoranza kurda è stato ampiamente confermato da un 11.5% che ne fa la terza forza politica interna. Eppure la linea repressiva erdoğaniana, forte d’un ampio consenso nel Paese, vuole cancellare questa diversità, incarcerarla, ghettizzarla, intimorirla, isolarla da contatti di solidarietà internazionale. Perciò  si cerca di bloccare simili rapporti, di limitarli o impedirli. Per questo Cristina Cattafesta è stata pretestuosamente internata per dodici giorni, quale lugubre monito per il futuro suo e di qualsiasi attivismo partecipe. Il messaggio dice: non venite in Turchia, non ficcate il naso nel nostro sistema, altrimenti rischiate fermi o arresti. Le indirette imputazioni possono essere la volontà di vedere e sapere, di raccontare come il sultano tratta quei sudditi che non si sottomettono alla sua autocrazia.

giovedì 5 luglio 2018

Ghani, il partito talebano e il sogno di pacificazione


Nella macro politica di Kabul il tema che tiene banco anche più di sicurezza e Tapi (il gasdotto transnazionale) è l’apertura politica ai talebani, divenuta la vera ossessione del presidente Ghani. Se la prima questione mette a nudo l’incapacità governativa di controllare alcunché, e la seconda l’ennesimo mega progetto da cui la popolazione trarrà benefici nulli, l’ipotesi del dialogo coi miliziani coranici è l’incompiuta difficile da compiere. E neppure tanto nuova. Rifà il verso a quanto già si era tentato otto e sette anni addietro, quando la Cia di mister Panetta e l’allora presidente Karzai proposero ai talebani tavoli d’incontro, separati e unitari, da cui ci si aspettava un’uscita dalla palude in cui erano finite la muscolare Enduring Freedom e l’ambivalente Isaf mission. Già all’epoca le posizioni della galassia talebana erano diversificate, ma accanto agli irriducibili della rete di Haqqani, l’Alto Consiglio della Pace, creato per l’occasione, colloquiando coi turbanti doveva prendere atto di alcune loro richieste irrinunciabili: ritiro delle truppe d’occupazione, revisione della Costituzione considerata insufficientemente islamica, cancellazione dalla lista nera del terrorismo mondiale, rilascio di prigionieri in mano ad americani e governo afghano. La posta talebana era alta, altissima, come la personale considerazione di non pensarsi partito elettorale.
Quindi, nel 2012, tutto si bloccò per l’oscuro episodio omicidio di Burhanuddin Rabbani, un’esecuzione avvenuta nella sua abitazione kabuliota, e mai chiarita. Si ventilò l’ipotesi della mano della dissidenza talib, oppure dell’Intelligence pakistana che poco gradiva un inserimento “istituzionale” talebano a Kabul fuori da proprie ingerenze. Molto pragmatico apparve uno dei leader talib della Shura di Quetta (Mansour) che avrebbe voluto proseguire gli incontri nonostante il lutto, invece tutto di fermò. Comunque già all’epoca i talebani puntavano a essere riconosciuti come parte del conflitto, più che come partito. Dalla sua nascita il movimento degli studenti coranici armati incarnava il ruolo di resistenti contro il caos prodotto dai signori della guerra, e si dichiarava non interessato al potere. Certo, una volta conquistata la capitale (nel 1996) e instaurato l’Emirato islamico la musica cambiò e mutò tragicamente per la stessa popolazione che aveva creduto nella buona fede dei taliban che ostacolavano lo strapotere vessatore dei warlords. Studiosi di quelle frange fanno notare come nella gestione, pur contraddittoria dell’amministrazione statale, i talebani mutarono approccio a tal punto che, dopo la sconfitta (ottobre 2001) e nei periodi precedenti la formazione di nuovi governi (Rabbani, poi Karzai), pur concentrati quasi esclusivamente sulla sua ristrutturazione militare, tenevano in vita una sorta di governo-ombra.
Comunque, insediati al potere o lontani da esso, i talebani non si comportavano come un partito, non seguivano gli schemi rappresentati in altre aree dall’islam politico. E fuori da tale prospettiva essi non si sentono attratti da processi elettorali per conquistare consenso fra la popolazione.  Acquistano seguito nel ruolo di difensori della legge islamica, magari autocelebrandosi come resistenti ai soprusi occidentali e degli infedeli oppure l’ottengono con la coercizione, incutendo timore fra la gente. La prospettiva del voto non gli appartiene, differentemente dalle molte formazioni islamiste che in varie fasi uniscono kalashnikov e scheda nell’urna, meglio se taroccata o macchiata da violenze e brogli. Come peraltro fanno quei gruppi politici cui Stati Uniti e Unione Europea inventano un’anima democratica. Perciò lo scenario che da oltre un anno Ashraf Ghani espone, non solo non è nuovo e può risultare infruttifero come già fu, ma cerca solo un alibi alle prossime consultazioni per: tenere congelati il sistema dell’occupazione strisciante, gestire i mercati delle armi nel Grande Medioriente, controllare i traffici dell’oppio in combutta coi signori degli affari locali e mondiali, reiterare la sagra degli aiuti umanitari miliardari, conservare il controllo militare geostrategico nel cuore dell’Asia. Non si tratta di robetta da poco.
Per la cronaca, che diventa storia, i talebani, proprio nella fase seguente all’avvìo degli incontri del 2011, s’erano ‘occidentalizzati’ aprendo una sede diplomatica presso una delle più scaltre e intraprendenti petromonarchie del Golfo: il Qatar. Poi, come ricordato, i colloqui scemarono, ma l’ufficio a Doha non venne chiuso. E da quella sede nel 2014, quando le fazioni di Ghani e Abdullah si fronteggiavano l’un contro l’altra armate, accusandosi reciprocamente di brogli elettorali, il portavoce talebano esprimeva tutto il disprezzo per quella finta democrazia basata su elezioni (truccate) e Parlamento (costellato di signori della guerra, di affaristi e di corrotti). I turbanti sceglievano di stare fuori da quella Loya Jirga. Tuttora non si pronunciano su questioni come riforma del Parlamento e pluralismo politico, restando il Convitato di pietra del panorama politico nazionale. Non esibiscono monopoli politici, accettano tatticamente anche dialoghi con interlocutori che disprezzano, come Ghani, con le ambascerie di chi non amano (Hekmatyar). Diventano attori quando mostrano un pentimento, parlando di giusta via per i diritti umani (sic), di educazione per le donne. Comunque la loro organizzazione e il fine restano prettamente militari, anzi spererebbero di ripristinare l’Emirato Islamico d’Afghanistan con le armi, cosa che i geostrateghi ritengono difficile. Così nel Paese dell’Hindu Kūsh tutto resta in bilico, immerso nel conflitto logorante e latente, davanti a un abbandono definitivo americano che non arriva e a un sogno di pacificazione solo immaginato.