Dopo dodici giorni Cristina Cattafesta è rientrata in Italia. La
presidente del Cisda, fermata il 24 giugno a Batman (Turchia) dov’era in
qualità di osservatrice elettorale invitata dal Partito Democratico dei Popoli,
quindi trasferita in un centro di migrazione ed espulsione a Gaziantep, è stata
restituita ieri all’affetto dei familiari e delle sue compagne. Il fermo,
operato da agenti delle forze dell’ordine in base a controlli detti di routine,
in realtà si è diretto su figure ben individuate quali erano gli osservatori
internazionali, coinvolti a vigilare sulla regolarità delle elezioni. In
diverse località del sud-est, dove si concentra l’elettorato kurdo, c’erano
stati fermi a seguito di controlli simili. Nessuno, però, era stato trattenuto.
Il blocco dell’attivista italiana, nota nell’ambiente della cooperazione
internazionale per il lavoro svolto con l’ong Cisda (Coordinamento italiano
sostegno donne afghane), è parso rivolto a ostacolare la presenza degli
osservatori nei seggi. Ha, altresì, assunto il sapore d’un monito lanciato dal
governo dell’Akp agli operatori dei diritti: la vostra presenza non è gradita
nella Turchia a una dimensione creata a suon di repressione dal presidentissimo
Erdoğan.
Il doppio successo ottenuto alle elezioni di due
settimane fa blinda un regime che ormai usa il Parlamento solo come maschera di
una democrazia, ma lo mutila delle funzioni operative in virtù d’un
presidenzialismo totalitario. Con esso Erdoğan controlla la sfera legislativa e
quella giudiziaria, oltre alle forze armate e tutti gli apparati della
sicurezza nazionale. Lo spostamento ancora più a destra del partito Akp già di
per sé conservatore, l’alleanza col nazionalismo parafascista dei ‘Lupi grigi’
che, coi voti del Mhp ha consentito un anno fa di far passare nel Maclis la
riforma costituzionale varando il presidenzialismo ora vigente, e lo scorso 24 giugno ha rilanciato verso un
successo elettorale il partito di maggioranza, diventa di fatto un ulteriore
soffocamento per il pluralismo. In realtà il multipartitismo in Turchia esiste.
Formalmente non ci sono né partito unico, né quelle dittature militari che il
Paese ha conosciuto in più occasioni dagli anni Sessanta in poi. Però
l’opposizione, le altre formazioni politiche vivono sulla pelle un’oppressione
per non essere conformi alla maggioranza elettorale.
Soprattutto l’opposizione di sinistra e filo kurda ha subìto
nell’ultimo biennio una compressione della libertà politica ed esistenziale,
com’è accaduto al co-presidente Hdp Demirtaş incarcerato, assieme a decine di
deputati del suo gruppo, con l’imputazione, mai provata, di prossimità al
Partito Kurdo dei Lavoratori (Pkk), considerato un’organizzazione terroristica.
Ciononostante alle recenti consultazioni il sostegno alle liste Hdp della
copiosa minoranza kurda è stato ampiamente confermato da un 11.5% che ne fa la
terza forza politica interna. Eppure la linea repressiva erdoğaniana, forte d’un
ampio consenso nel Paese, vuole cancellare questa diversità, incarcerarla,
ghettizzarla, intimorirla, isolarla da contatti di solidarietà internazionale.
Perciò si cerca di bloccare simili
rapporti, di limitarli o impedirli. Per questo Cristina Cattafesta è stata
pretestuosamente internata per dodici giorni, quale lugubre monito per il
futuro suo e di qualsiasi attivismo partecipe. Il messaggio dice: non venite in
Turchia, non ficcate il naso nel nostro sistema, altrimenti rischiate fermi o
arresti. Le indirette imputazioni possono essere la volontà di vedere e sapere,
di raccontare come il sultano tratta quei sudditi che non si sottomettono alla
sua autocrazia.
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