Non conosciamo tuttora il nome del migrante respinto
che ha deciso di farla finita appena ricondotto a Kabul. Si sa che era un
ventitreenne e da otto viveva in Germania. Su di lui e altri 68 rifugiati in
terra tedesca era calata la mannaia del ministro di ferro Seehofer, un Salvini
teutonico che odia gli stranieri disagiati e sul tema tiene sotto scacco la
cancelliera Merkel. Il giovane sicuramente era giunto nell’area europea
attraverso le rotte balcaniche e ancor prima iraniano-turco-greca, con le varianti del caso verso sud o nord del nostro
continente, come hanno fatto altri disperati le cui storie sono finite anche
romanzate sugli scaffali delle librerie. Una la conosciamo personalmente per
aver incontrato anni addietro l’autore e protagonista (Ali Ehsani, Stanotte guardiamo le stelle, Feltrinelli) in un centro
per rifugiati. Vicenda a lieto fine questa, sebbene l’Ali piccino, fuggito
perché i suoi genitori erano morti sotto le bombe delle infinite guerre
afghane, abbia perso il fratello maggiore durante la personale odissea. Ma fra
le fughe dal travagliato Paese dell’Asia centrale di fine millennio e le
attuali ci sono di mezzo gli interventi armati statunitense e della Nato, l’Enduring Freedom e l’Isaf Mission che dovevano pacificare la
nazione, portare la democrazia, liberare la popolazione dalle grinfie di
Signori della guerra e talebani.
Balle. Coi primi le due amministrazioni Bush e Obama hanno formato
governi presieduti dai locali ‘mister Conte’, Hamid Karzai e Ashraf Ghani, dei prestanome
malleabili, maschere per poter proseguire politiche decise in altre sedi. Così l’Afghanistan
è tornato l’inferno già conosciuto durante l’occupazione sovietica e la guerra
civile, dal 1979 al 1996. Ma poi coi talebani e le suddette occupazioni
occidentali, che alimentano la guerriglia dei turbanti fatta passare come
resistenza alle truppe straniere, generazioni di bambini e ragazzi sono diventate adulte, avendo come unico
panorama pacificante le bianche vette dell’Hindu Kush. Il resto è l’antica
polvere degli altopiani afghani, la sedimentata miseria mai lenita dalla
plurimiliardaria giostra degli aiuti umanitari in una nazione mantenuta volutamente
in guerra. E soprattutto il sangue versato ogni giorno da gente che salta in
aria: per via, mentre prega in moschea, quando raggiunge il mercato per
acquistare un trancio di naan, il
pane locale. Almeno quattro progenie di afghani non conoscono che guerra,
precarietà e morte. Gliela porta la politica statunitense che chiede agli
alleati maggiori sforzi economici per le spese Nato, come ha fatto Trump a
Bruxelles.
Gliela portano i governi dell’Unione Europea che si prostrano
servili e continuano a mantenere truppe in quei luoghi, senza nulla risolvere.
E’ così da diciassette anni e potrà continuare a esserlo. Non serve neppure
recarsi sul posto, e non ci si va se non si è soldiers, businessmen, reporters
embedded. Tranne che nei casi, non numerosi, di operatori umanitari della
sanità (Emergency e dintorni) o cooperatori non collusi coi governi corrotti.
Quegli attivisti che collaborano con ong locali che si chiamano: Afceco, Hawca,
Opawc, Saajs e si prendono cura di orfani, donne abusate, ragazze da istruire,
familiari di vittime a cui promettere giustizia. Basterebbe seguire la cronaca
del travagliato Paese mediorientale per comprendere da dove fuggono e perché
decine di migliaia di ragazzi che sognano una vita diversa. Solo i più forti,
gli attrezzati idealmente e ideologicamente, riescono a restare in loco a
lottare, per provare di costruire alternative al plumbeo orizzonte che noi
occidentali e le nostre politiche d’uso e consumo contribuiamo a rinnovare.
E non è un caso che le più strutturate, le più coraggiose siano le
donne afghane. Loro che hanno poco o niente, hanno tutto da guadagnare pur in
quadro così disastrato. Fra chi, come l’ultimo suicida, pensava di averla
sfangata, di essere salito se non in Paradiso almeno d’essere uscito dal buio
originario, lo scoramento del rimpatrio forzato dev’essere stato un colpo
fatale. Dove si vedeva quel giovane uomo tornato a Kabul? A vagare in cerca
d’un lavoro che, fuori dell’arte dell’arrangiarsi con micro commerci o artigianato
povero oppure a vendere la propria esistenza alla burocrazia collusa con la
politica corrotta, può condurre solo ad arruolarsi nei corpi combattenti locali
messi su da l’Usa Forces, o affiliarsi nelle milizie talebane. Passi rivolti
alla guerra, dunque. Passi di morte. La morte l’ha trovata nell’hotel dove
attendeva d’essere ricollocato qui o là nel Paese, provincia più o meno sotto
attacco dell’Isis o a giurisdizione talebana. Il suicidio liberatore l’avrà
meditato durante l’intero volo di rimpatrio. Un tragitto nero, così diverso
dalla luce che aveva sperato di trovare nell’Europa della sua salvezza.
Nessun commento:
Posta un commento