venerdì 30 agosto 2019

Doha: gli Usa preparano l’Afghanistan talebano


C’è un fragile cuore filo governativo nell’Afghanistan del presente, quello certificato dal presidente Ghani e dal vice Abdullah che sembrano non contare nulla nell’Afghanistan del futuro. E poi diremo perché. E’ il cuore che appare bianco nelle carte del controllo del territorio, mappe da sempre cangianti e negli ultimi anni a favore dei taliban. Non sono neppure province intere, ma frazioni di provincia quelle sotto la giurisdizione del maggiore fallimento statunitense nel Paese occupato: l’Afghan National Army, un’armata Brancaleone di grandi numeri incapace di combattere senza il supporto dei marines. Sono aree che costoro controllano, e non si sa per quanto, nei governatorati di Ghowr, Daykondi, Bamian, Samangan e Balkh. Nella stessa super blindata Kabul, gli attentati, e dunque la presenza jihadista, esistono e si ripetono. Poi ci sono le roccaforti talebane vecchie e nuove: Helmnd, Ghazni, Kunar, Kunduz, Sar-e Pul e ora anche l’ex feudo Nato di Farah. Perciò le zone contese, un buon 40% dei territori, sono in tali condizioni da un triennio, e questo spiega benissimo perché le delegazioni diplomatico-militari statunitensi stiano da mesi a Doha a trattare coi turbanti. Perché l’Afghanistan dei desideri non esiste, né reggono più i governi-fantoccio. Sono andati avanti per otto anni col volto di Karzai, comunque radicato col suo clan per quanto divisivo dei Popalzay, ma con l’uomo della Banca Mondiale il bluff è imploso.
Così il rude cuore dell’America trumpiana, pur nascondendo sotto il tappeto una parte polverosa della realtà, batte imponendo la trattativa col soggetto intrattabile agli occhi di quell’Afghanistan smarrito e debole che sempre spera in un futuro. Sono mesi che gli strateghi della Cia e i diplomatici alla Khalilzad, spezzano il capello in quattro per un piano che giunto al traguardo prevederà due punti sostanziali: il ritorno nei luoghi di potere (governo, parlamento) del fanatismo talib che s’aggiungerà al fondamentalismo tuttora presente in quelle Istituzioni. In cambio della promessa dei talebani ortodossi dialoganti a Doha di non fornire basi e aiuti al combattentismo stile Qaeda, di cui essi stessi sono stati parte. Va in porto una vecchia norma: se non puoi battere un nemico, fattelo amico. Altre vicende, pur dibattute come il ritiro delle truppe statunitensi, rimarranno nel vago poiché la decina di basi aeree, funzionali alle strategie geo militari del Pentagono in quella fascia dell’Oriente, non prevede smobilitazione. Del resto è l’unico risultato utile ottenuto in diciotto anni di campagna afghana. Le stesse elezioni presidenziali, rinviate da oltre un anno per ragioni di sicurezza, e che non piacciono a nessun interlocutore, risulterebbero parziali proprio per le enormi limitazioni territoriali cui  l’organizzazione elettorale va incontro. Il furbetto Abdullah ha annunciato il personale disimpegno dalle consultazioni di fine settembre, adducendo un sostegno al piano di pacificazione e facendo intendere che il tavolo degli accordi, giunto alla nona sessione, non tiene in nessun conto quella scadenza.
Un percorso peraltro sempre rissoso, contestato e contestabile, per brogli presunti o realizzati, come Abdullah medesimo ebbe a vivere con Ghani nell’estate del 2014. Si rischiò uno scontro armato fra la fazione tajika che sosteneva il primo e i pashtun sodali del secondo, divenuto presidente per volere della Casa Bianca. Nel modello di Paese nuovo, che l’Occidente americano ed europeo hanno forzatamente proposto con l’occupazione mascherata da ‘missione di pace’, tanto per restare sulla  questione delle etnìe non c’è mai stata alcuna pianificazione o proposta di  cooperazione. Anzi, l’annoso tribalismo etnico utilizzato dai Signori della guerra assieme all’uso della fede quale strumento divisivo e offensivo, sono stati avallati un anno via l’altro dai governi locali che dovevano cambiare il volto del Paese. Così i seminatori di sopraffazione e morte hanno avuto vita facile. Anziché essere perseguiti per i crimini commessi negli anni Novanta, sono addirittura stati promossi vicepresidenti. In compagnìa di altri boss della politica armata si sono arricchiti accaparrandosi aiuti internazionali; purtroppo organismi mondiali fra cui strutture dell’Onu hanno permesso che attraverso la politica locale tutto ciò accadesse a danno delle comunità che s’impoverivano. Oggi i manovratori seduti ai tavoli di Doha e Mosca, garantendo i propri affari e spartendoli coi gaglioffi vecchi e nuovi della politica afghana (ex warlords, ex e neo taliban) preparano l’ennesima ribalta a svantaggio della popolazione. La chiamano pacificazione, ma ennesimi venti di guerra si preannunciano per i deboli di sempre, bambini e donne in prima fila.

martedì 27 agosto 2019

La Turchia rimuove tre sindaci kurdi


Adnan Selçuk Mızraklı, Ahmet Türk, Bedia Özgökçe Ertan erano stati eletti al primo turno delle recenti amministrative turche, quelle in cui il partito di governo Akp ha perduto le maggiori città del Paese. I tre guidavano rispettivamente: Dıyarbakır, Mardin e Van. Pochi giorni fa un intervento del ministro dell’Interno li ha rimossi dall’incarico in base alle leggi speciali sulla sicurezza e il terrorismo entrate in vigore dopo il tentativo di golpe del luglio 2016 e non più cancellate. Con queste misure il presidente Erdoğan ha compiuto un fenomenale repulisti in molti settori della nazione. Esercito, polizia, magistratura, amministrazione pubblica, istruzione e università hanno conosciuto un ricambio di personale con arresti, pensionamenti, dimissioni d’ufficio e ‘volontarie’ subìte da decine di migliaia di cittadini. Nell’occhio del ciclone la rete Hizmet dei cosiddetti fethullaçi, i seguaci di Fethullah Gülen, che sono spariti (almeno quelli noti all’Intelligence interna) in tutte le strutture in cui erano collocati in ruoli anche di prestigio. Ma l’apparato di regime erdoğaniano ha usato quel tragico evento che, comunque produsse 290 vittime e 1440 feriti, per colpire l’opposizione, specie quella da lui maggiormente temuta del Partito Democratico dei Popoli.

Che dal novembre 2016 vede il co-presidente Selahattin Demirtaş in galera, come peraltro una dozzina di deputati del partito per la rimozione dell’immunità parlamentare, cui si sono aggiunte accuse di presunti legami “col terrorismo del Pkk”. Nella condizione di recluso Demirtaş ha partecipato alle presidenziali del 2018 (8.4% i suffragi ottenuti) e la situazione sua e dei compagni di partito ha spinto la “Corte Europea” a condannare la Turchia per la violazione di alcuni articoli della Carta dei diritti dell’uomo e una compressione della democrazia nel Paese. I tre sindaci rimossi avevano ampiamente vinto la consultazione nei propri distretti col 62.93%, 56.24% 53.83% di voti, infliggendo a tre candidati dell’Akp giunti secondi dal 28% al 13% di distacco. Finora non era accaduto nulla, specie dopo la batosta ricevuta a Istanbul dal partito di maggioranza. Lì Erdoğan aveva spinto per ripetere un confronto che il suo candidato e uomo di governo Yıldırım, aveva perduto contro l’astro nascente del partito repubblicano: Ekrem İmamoğlu. Questi in prima battuta era avanti di dodicimila preferenze poi, col ritorno alle urne il 23 giugno, ha scavato l’abisso di ottocentomila schede a suo favore. Uno smacco che ha lasciato il segno, con la spinta offerta dalla comunità kurda della metropoli che, anziché astenersi, ha dato fiducia allo sfidante capace di battere il regime.

Ora in pieno agosto giunge la reprimenda del dicastero dell’Interno che cerca pretesti nelle misure antiterrorismo per limitare il profondo radicamento della comunità kurda nelle terre abitate e amministrate con rigore dagli esponenti dell’Hdp. Nonostante gli annosi boicottaggi delle risorse finanziarie spettanti a quei distretti che Ankara spesso ritarda oppure cancella. Peraltro figure come Türk ben conoscono le azioni repressive. Durante i molteplici arresti del 2016 anche lui finì detenuto, venendo rilasciato dopo quattro mesi solo per le precarie condizioni di salute. Eppure non s’è fermato, s’è rispeso per la sua gente. La rimozione da sindaco e quella dei colleghi del sud-est non è una novità nella cronaca politica turca anche recente, il pretesto di cavilli burocratici è stato già usato. S’aggiunge l’intento di svilire le scelte di rappresentanza di quella comunità, rendendo vano il cospicuo patrimonio elettorale e magari inducendo fra gli elettori un senso di frustrazione per un’inutilità di orientamento del voto su persone che rischiano d’essere messe fuorigioco da “motivi di sicurezza nazionale”. La mossa del regime è anche quella di logorare la fiducia dei kurdi sulla possibilità di darsi figure di riferimento e strumenti di contropotere locale.

giovedì 22 agosto 2019

Cent’anni di Afghanistan



“… A nessun potere straniero sarà permesso d’interferire internamente ed esternamente con gli affari afghani, e se dovesse accadere sono pronto a tagliargli la gola con questa spada”. Con tali parole re Amanullah si rivolgeva ai dignitari di Kabul, e agli stessi agenti britannici presenti, pochi mesi prima che il Paese dell’Hindu Kush strappasse una propria dignità nazionale all’Impero di Giorgio  V, ottenendo ufficialmente l’indipendenza il 19 agosto 1919. Quel giorno venne firmato il trattato che poneva fine alla terza guerra afghana contro l’esercito britannico, durata in realtà solo un mese. Ora che la popolazione patisce guerre che si succedono da decenni quella dichiarazione risuona come amara se non addirittura beffarda. Eppure il regno (1919-29) di Amanullah Shah, sovrano illuminato, molto amato dai sudditi dell’epoca - e favorevolmente valutato da storici e attuali attivisti democratici che ne visitano la tomba a Jalalabad - dev’essere considerata una fase d’innovazione anche nel Terzo millennio che non mostra toni progressisti e non pacifica ancora nulla. Anzi. Amanullah, pur ricoprendo la carica di emiro, scontentò chierici e capi tribali. I passi riformatori intrapresi con la promulgazione nel 1923 d’una Costituzione paritaria per i generi, un codice di famiglia garantista che vietava matrimoni fra anziani e giovanissime, la creazione d’un tribunale per eventuali torti subìti dalle donne, rappresentano un riferimento positivo successivamente smarrito. Il sovrano, coadiuvato dalla consorte che ripetutamente si mostrava in pubblico senza velo, pur riconoscendo la religione islamica, mirava a porre la nazione e la sua gente al passo con la contemporaneità. L’inserimento femminile nel piano per una diffusa istruzione popolare, confermavano quell’impressione progressista che lo stesso Lenin ebbe di lui, intrattenendo un breve rapporto epistolare.

In realtà l’interesse del leader comunista sull’operato di Amanullah riguardava l’opposizione afghana all’Impero britannico, da lì la simpatia che il bolscevico e russo Vladimir Ilic nutriva per chi contrastava il principale avversario di Mosca, in quel frangente sostenitore delle Armate bianche e per oltre un secolo nemico numero uno nel cosiddetto “Grande Gioco” asiatico. Il re dell’indipendenza afghana non può essere annoverato fra i rivoluzionari, ma metteva di buon umore Lenin quando, nel 1921, firmava un trattato che “appoggiava la lotta dei popoli d’Oriente”. Per quanto, in occasione d’una rivolta sostenuta dai sovietici contro l’emiro del Bukhara, Amanullah ospitò a Kabul il suo omologo spodestato. Come pure diede rifugio ai ribelli islamici basmachi fuggiti dall’area di Bukhara e del Turkestan dopo la repressione dei loro moti. Il contatto con un innovatore seppur autoritario come Kemal Atatürk avvenne nella dinamica dei nuovi assetti mediorientali caratterizzati da spinte e ‘spine’ autoctone delle  nascenti nazioni e delle leadership che si confrontavano. L’ispirazione del movimento dei “Giovani afghani”, di cui Amanullah fece parte, erano le idee moderniste e panislamiche propugnate dai “Giovani turchi”. Se si vuol cercare un comune denominatore fra i due politici, lo si trova nella reciproca volontà da fedeli islamici di perseguire un modello di Stato laico. Ma ulema naqshabandi e pashtunwali erano decisamente più forti del clero e delle tradizioni ottomane e Amanullah ne subì le conseguenze finendo spodestato da un crescente moto di protesta guidato da un tajiko, detto figlio del portatore d’acqua (Baccà-ye Saccaò). Il re progressista fuggì in Europa e lì rimase.  Riparò in Italia e morì nel 1960.

Occorre ricordare che, differentemente dai “Giovani turchi” dotati d’una struttura paramilitare e rodati dalla pratica, gli afghani riformatori non godevano di simile organizzazione. Comunque il rivoltoso Baccà-ye ebbe vita breve, fu rimosso da un parente di Amanullah, Nadir Khan, più accomodante verso gli ulema e fautore nel 1931 d’una nuova Carta costituzionale. Chi lo seguì, il diciannovenne figlio Zahir Shah (1933-73), riprese il percorso modernizzatore di Amanullah sul terreno di scolarizzazione e diritti civili, occupandosi poi delle carenze citate: esercito e burocrazia che negli anni Cinquanta vennero rafforzati. E’ il periodo ricordato dagli storici interni quale nuova ondata riformatrice, che con la Costituzione del 1964 legalizzava partiti politici e libera stampa. Pur definendo l’Islam sacra religione dell’Afghanistan, limitava il riferimento ai princìpi della Shari’a come elementi fondanti delle leggi parlamentari. E’ di quella fase la divisione bicamerale, con una camera bassa (Wolesi Jirga) che eleggeva ogni quattro anni i suoi rappresentanti e un senato (Meshrano Jirga) i cui membri erano scelti nei consigli distrettuali e per un terzo venivano nominati dal sovrano. In quella circostanza le donne ebbero il riconoscimento di far parte dell’elettorato. Ovviamente non era tutto rose e fiori, le elezioni dell’anno seguente furono accolte con freddezza dalla popolazione. La percentuale di votanti fu scarsa, la partecipazione delle donne bassissima, pochissime furono le elette. I gruppi etnici sulla spinta di capi tribali e ulema continuavano a orientare i comportamenti delle persone inserite nelle comunità. L’assenza di lavoratori tipici del capitalismo avanzato, gli operai di fabbrica, per mancanza d’industrializzazione, gli strati rurali spesso ribelli e repressi creavano una profonda dicotomia fra vertice e base della nazione.

Anche la formazione del Partito popolare democratico dell’Afghanistan, ispirato da princìpi socialisti, che poteva trarre spunti dal riformismo illuminato della monarchia e poi del sistema repubblicano, rimase vittima della schematica rigidità d’una tarda visione “terzo-internazionalista” ingessata nelle sue teorie, ben distanti dal materialismo dialettico dei padri del comunismo teorico. Mentre prendeva piede il movimento islamico, sull’onda delle predicazioni di Sayyid Qutb (l’egiziano condannato a morte da Nasser) e del teologo pakistano Abul Maudidi, fondatore egli stesso di quella Jamiat-e Islami in cui si ritrovarono Burhanuddin Rabbani, e pure Massud e Hekmatyar, prima della divisione che li portò a combattersi nella guerra civile, seguita al ritiro sovietico dopo otto anni d’invasione. Il travagliatissimo quarantennio della Repubblica Islamica Afghana è indubbiamente più conosciuto rispetto ai precedenti periodi che hanno conosciuto fasi anche di stabilità e minore tensione. Certamente le generazioni vissute fra le due guerre mondiali, evitate dall’Afghanistan, la prima per ragioni d’età quindi per acutezza e opportunità politica di quello Zahir regnante per quattro decenni, hanno conosciuto un’esistenza meno drammatica delle generazione che da metà anni Settanta sono nate nei campi profughi conoscendo solo guerre e scempi. E il presente che, in tanti dicono di voler pacificato, non ha risolto contraddizioni geopolitiche, etniche, culturali, religiose che altre figure,  chiamate khan, s’erano comunque poste provando a offrire soluzioni. I “colloqui di pace” ora in atto, le elezioni presidenziali del prossimo settembre sembrano le maschere per continuare a proseguire massacri, sebbene gli ultimi li stiano praticando i jihadisti del Khorasan. Ma in questo secolo i massacratori della gente afghana sono stati tanti. E continuano a esserlo.

domenica 18 agosto 2019

Massud jr, la politica nuova del signorino della guerra


Inizia con un amarcord l’operazione d’un futuro afghano ammantato della retorica del passato. Così dopo The Times, il nostrano Corriere della Sera mostra in prima pagina un Ahmad Massud bambino accanto a papà Shah, il “leone del Panshir”, prima che due falsi giornalisti, di fatto kamikaze qaedisti, lo facessero saltare in aria con la scusa d’un’intervista. Si richiama il progetto attuale dell’unico maschio Massud, che ha sei sorelle, è vissuto a Londra, ha studiato nel locale King’s College, ha ottenuto un master in politica internazionale, s’è pure formato nell’Accademia militare di Sandhurst, e dopo diciott’anni è tornato nel Panshir. Si dice che parli ai tajiki delle tribù locali, ponendosi nientemeno che il sogno di diventare un leader per l’intero Afghanistan, magari presentandosi alle presidenziali del prossimo settembre. Se non ci fossero di mezzo il nome e la seconda comunità etnica del Paese, che però non va al di là del 21% della popolazione, l’iniziativa non farebbe notizia. Perché nella realtà il progetto di Massud jr appare impraticabile, non tanto perché fuori dalla cinica agenda detta da Washington, che da oltre un anno patteggia coi talebani i prossimi passi per governare le varie province afghane, ma perché proprio i trascorsi politici di Massud padre, rievocano una doppia metastasi mai risolta che tuttora affligge quella nazione assieme all’occupazione straniera: lo strapotere del tribalismo etnico e dei signori della guerra. 
La figura, pur celebratissima, di Shah Massud è divisiva per quel che fece, naturalmente non solo lui, dopo la resistenza alle truppe sovietiche che nel dicembre 1979 entravano a Kabul. Se negli anni della guerriglia si guadagnò gli onori delle cronache umiliando l’Armata Rossa nella nativa valle, accompagnato peraltro da un mujaheddin che i russi temevano ancor più, il dinamitardo Abdul Haq, il mito del cosiddetto “Che Guevara islamico” fu un’invenzione della stampa internazionale. Francese soprattutto, con cui Massud aveva facilità di comunicazione per la conoscenza linguistica, ma anche italiana, basata quest’ultima sui racconti di quell’ottimo narratore che è stato Ettore Mo, proprio sul Corsera. Shan Massud, accogliente, meditativo, acculturato diventava la figura dell’islamista buono; niente a che vedere con la perversione di Hekmatyar, il rude opportunismo di Dostum, i fanatismi opposti di sunniti (Sayyaf) e sciiti (Mazari). Eppure egli stesso era un signore della guerra, che detta così appare un’ovvietà visto che era un mujaheddin, ma egualmente un uomo di potere. L’altra faccia del leone venne fuori durante la guerra civile del quadriennio 1992-96, quando i Warlords per prendere Kabul, massacravano civili a non finire. Incuranti di sangue, lutti, distruzioni, per nulla diversi dagli invasori di ogni epoca. Altro che ideali, altro che Che.
Nel corso d’un reportage di alcuni anni addietro incontrammo testimoni vecchi e meno anziani di quei giorni tremendi. Ci diceva Ubaid Ahmad, membro della locale ong Hawca che si occupa di rifugio per donne abusate “Ero bambino, ma ricordo,  ricordo tutto. Di nascosto m’affacciavo fuori di casa. Lo sguardo era calamitato dall’artiglieria che cannoneggiava sul fronte opposto. Sulla montagna occidentale era posizionata quella di Massud che batteva costantemente la spianata sottostante e le alture opposte occupate da Sayyaf e Mazari… Lì vivevamo in centinaia di migliaia. L’assedio durò quattro anni, il numero dei morti non si conoscerà mai. Cifre approssimative li avvicinano a 80.000. Anni addietro, durante gli scavi compiuti nella zona del Politecnico, vennero alla luce fosse comuni dov’erano interrati i cadaveri di probabili prigionieri. Tutti passati per le armi. Da chi non è facile stabilirlo per mancanza di testimonianze certe”.  I partiti e le fazioni armate erano i soliti: Jamiat di Massud, Hezb di Hekmatyar, Ittehad di Sayyaf, Hezb di Mazari. Sempre loro, i signori della morte. Per chi volesse sapere anche a ritroso, sebbene da anni la vicenda sia conosciuta, l’Afghan Indipendent Human Rights Commission produsse una “Mappa dei conflitti afghani dal 1978” che elencava nomi e responsabili di decine di migliaia di vittime dall’epoca dell’invasione sovietica sino al 2001.
Nero su bianco c’erano i nomi di cinquecento uomini ai vertici della catena di comando, fra cui il ‘compianto’ Massud, Dostum (attuale vicepresidente di Ghani), due vicepresidenti dell’era Karzai: Fahim e Khalili e altri. Il rapporto finì nel dimenticatoio, il curatore Nader Nadery, rischiò la pelle. Venne allontanato da Karzai dopo che il vicepresidente Fahim in un incontro pubblico così lo accoglieva: “Dovremmo semplicemente crivellargli la faccia con trenta colpi”. Signori della guerra vecchi e rinnovati, niente di più. Accanto alle loro storie ci piacerebbe leggere sui grandi media quelle dell’oscuro lavoro di attivisti democratici che da anni, chiedendo giustizia per gli orrori trascorsi e cercano un reale domani per la massa degli oppressi. Nei giorni di permanenza a Kabul nel 2013 visitammo la sede del Saajs (Social Association Afghanistan Justice Seekers). Raccontava la presidente Weeda Ahmad: Il Saajs è nato nel 2007, dopo una grande manifestazione che i familiari delle vittime dei Warlords tennero nella capitale. Da anni raccogliamo testimonianze dei sopravvissuti alle stragi, abbiamo iniziato a Kabul e proseguito a Herat, ampliando il lavoro nelle province di Nangarhar, Parwan, Paktiya, Balkh, Bamyan. Non è stato facile, la gente non ci conosceva e non si fidava, temevano ritorsioni. Poi l’aiuto di abitanti, come il signor Esatollah, ci ha aperto molte più porte di quanto pensassimo. La gente chiede giustizia, ma la geopolitica internazionale frena, vanificando il lavoro svolto anche in collaborazione con Onu e Unama. La geopolitica ripropone vecchi schemi, si chiamino taliban, Massud o attori di ripetute stragi (come l’ultima rivendicata dallo Stato islamico, con 63 vittime, 200 feriti durante un  banchetto matrimoniale nella comunità hazara) di cui giunge notizia mentre scriviamo…

sabato 17 agosto 2019

L’Egitto fra terroristi e terrorizzati


Due settimane or sono quello scontro con tre automobili lungo le Corniche che aveva fatto esplodere un’auto-bomba proprio davanti l’Istituto Nazionale Oncologico del Cairo, provocando venti vittime e una cinquantina di feriti,  era stato attribuito al movimento Hasm. Così hanno dichiarato le autorità di polizia e di governo. Quella frangia jihadista, attiva dal 2016, era finora nota soprattutto per gli agguati falliti: nell’agosto di tre anni fa al Gran Mufti egiziano, Ali Gomaa, un mese dopo ad Abdel Aziz, assistente del procuratore generale, quindi a novembre 2016 al giudice Aboul Fotouh, uno dei tre magistrati che avevano condannato l’ex presidente islamista Morsi. Tutti attentati non andati a segno. Qualcosina al gruppo armato era riuscita: colpire a morte sei poliziotti nell’area monumentale di Giza proprio alla fine dell’anno della comparsa sulla scena “politico-esplosiva”. Poi null’altro, mentre diventavano obiettivo di retate poliziesche suoi presunti membri finiti in questi anni nelle carceri speciali d’Egitto oppure falciati per via, durante azioni antiterroristiche. Alcuni giovani accusati di farne parte sono stati fermati anche nei giorni scorsi, così che gli apparati della sicurezza, incentivati e protetti dal presidente al Sisi, possano vantare la tanto sbandierata efficienza.  
Sulla finalità dell’ultimo attentato, che ovviamente non doveva verificarsi nel luogo dell’esplosione e doveva colpire non si sa chi, c’è silenzio totale. Mentre l’Hasm con un comunicato nega l’azione bombarola, apparati interni ed esterni al Paese sostengono la sua vicinanza alla Fratellanza Musulmana, che a sua volta si dice estranea al gruppo e a qualsiasi strategia politica armata. Ma bombe maldestramente attivate oppure pilotate dai mukhabarat la quotidianità egiziana continua a vivere la ben nota emergenza senza alcun cambiamento di rotta. E oppositori o giovani libertari finiscono in galera per la sola ragione d’esistere o il sospetto di contestazioni che ormai non sono più pubbliche a seguito del pesante clima persecutorio. Il gruppo che aveva denominato “piano Speranza” la propria azione continua a subire carcerazioni preventive, anche se non fa nulla, recenti sono gli arresti di giornalisti e avvocati dei diritti che s’erano interessati a quel programma. Le storie di giovani reclusi da loro raccolte ripetevano cliché drammaticamente noti: torture sessuali che conducono chi le subisce a stati depressivi da suicidio, decessi dovuti ad assenza di cure mediche adeguate. Del resto è accaduto all’ex presidente Morsi, figurarsi quel che può succedere a detenuti qualsiasi. Giovani egiziani che studiano all’estero e sono in contatto coi coetanei in loco, barcamenandosi fra social e censure, riescono ad avere via Istagram alcune notizie di piccoli e grandi abusi.
Parte del materiale è fotografico, immagini scattate coi cellulari che tante guardie tollerano in cambio di denaro. Chi può paga e si tiene lo smartphone con cui mostra compagni di cella e se stesso, chiedendo aiuto se finisce in punizione in quelle specie di tombe da un metro per uno. Comunque non tutti restano sepolti vivi in galera, qualcuno con accuse meno gravi viene liberato, oppure i magistrati zelanti col regime praticano l’altalena di ‘arresto, rilascio, riarresto’ volta a estorcere delazioni o rivelazioni seppure inventate pur di uscire dal circolo vizioso di fermo e arresto. Lo scopo è fiaccare resistenze e spingere gli interessati a non interessarsi di nient’altro che la propria incolumità psico-fisica. Nel Paese del terrore di Stato che è diventato l’Egitto estraniarsi dalla realtà, far finta che l’orrore non esista è un viatico offerto dal governo alla massa silente. Che può diventare più numerosa di quella, in fondo minoritaria, avvinta al sistema vincente. Sisi, che prova a imitare altri presidenti votati al presidenzialismo pur non avendone un pari carisma e restare in sella sino al 2034, vanta adesioni al 97%. Ma di fronte a un elettorato pari al 40% degli aventi diritto. Percentuale gonfiata secondo organismi internazionali che gli attribuiscono un realistico 25% e sospettano ampi brogli sui 21 milioni di consensi dichiarati nella rielezione del marzo 2018.