Due settimane or sono quello scontro con tre automobili lungo
le Corniche che aveva fatto esplodere un’auto-bomba proprio davanti l’Istituto
Nazionale Oncologico del Cairo, provocando venti vittime e una cinquantina di
feriti, era stato attribuito al movimento
Hasm. Così hanno dichiarato le autorità di polizia e di governo. Quella frangia
jihadista, attiva dal 2016, era finora nota soprattutto per gli agguati
falliti: nell’agosto di tre anni fa al Gran Mufti egiziano, Ali Gomaa, un mese
dopo ad Abdel Aziz, assistente del procuratore generale, quindi a novembre 2016
al giudice Aboul Fotouh, uno dei tre magistrati che avevano condannato l’ex
presidente islamista Morsi. Tutti attentati non andati a segno. Qualcosina al
gruppo armato era riuscita: colpire a morte sei poliziotti nell’area
monumentale di Giza proprio alla fine dell’anno della comparsa sulla scena
“politico-esplosiva”. Poi null’altro, mentre diventavano obiettivo di retate
poliziesche suoi presunti membri finiti in questi anni nelle carceri speciali
d’Egitto oppure falciati per via, durante azioni antiterroristiche. Alcuni
giovani accusati di farne parte sono stati fermati anche nei giorni scorsi,
così che gli apparati della sicurezza, incentivati e protetti dal presidente al
Sisi, possano vantare la tanto sbandierata efficienza.
Sulla finalità dell’ultimo attentato, che ovviamente non
doveva verificarsi nel luogo dell’esplosione e doveva colpire non si sa chi,
c’è silenzio totale. Mentre l’Hasm con un comunicato nega l’azione bombarola, apparati
interni ed esterni al Paese sostengono la sua vicinanza alla Fratellanza
Musulmana, che a sua volta si dice estranea al gruppo e a qualsiasi strategia
politica armata. Ma bombe maldestramente attivate oppure pilotate dai
mukhabarat la quotidianità egiziana continua a vivere la ben nota emergenza
senza alcun cambiamento di rotta. E oppositori o giovani libertari finiscono in
galera per la sola ragione d’esistere o il sospetto di contestazioni che ormai
non sono più pubbliche a seguito del pesante clima persecutorio. Il gruppo che
aveva denominato “piano Speranza” la propria azione continua a subire
carcerazioni preventive, anche se non fa nulla, recenti sono gli arresti di
giornalisti e avvocati dei diritti che s’erano interessati a quel programma. Le
storie di giovani reclusi da loro raccolte ripetevano cliché drammaticamente
noti: torture sessuali che conducono chi le subisce a stati depressivi da
suicidio, decessi dovuti ad assenza di cure mediche adeguate. Del resto è accaduto
all’ex presidente Morsi, figurarsi quel che può succedere a detenuti qualsiasi.
Giovani egiziani che studiano all’estero e sono in contatto coi coetanei in
loco, barcamenandosi fra social e censure, riescono ad avere via Istagram alcune notizie di piccoli e
grandi abusi.
Parte del materiale è fotografico, immagini scattate coi
cellulari che tante guardie tollerano in cambio di denaro. Chi può paga e si
tiene lo smartphone con cui mostra compagni di cella e se stesso, chiedendo aiuto
se finisce in punizione in quelle specie di tombe da un metro per uno. Comunque
non tutti restano sepolti vivi in galera, qualcuno con accuse meno gravi viene
liberato, oppure i magistrati zelanti col regime praticano l’altalena di
‘arresto, rilascio, riarresto’ volta a estorcere delazioni o rivelazioni seppure
inventate pur di uscire dal circolo vizioso di fermo e arresto. Lo scopo è fiaccare
resistenze e spingere gli interessati a non interessarsi di nient’altro che la
propria incolumità psico-fisica. Nel Paese del terrore di Stato che è diventato
l’Egitto estraniarsi dalla realtà, far finta che l’orrore non esista è un
viatico offerto dal governo alla massa silente. Che può diventare più numerosa
di quella, in fondo minoritaria, avvinta al sistema vincente. Sisi, che prova a
imitare altri presidenti votati al presidenzialismo pur non avendone un pari
carisma e restare in sella sino al 2034, vanta adesioni al 97%. Ma di fronte a
un elettorato pari al 40% degli aventi diritto. Percentuale gonfiata secondo
organismi internazionali che gli attribuiscono un realistico 25% e sospettano
ampi brogli sui 21 milioni di consensi dichiarati nella rielezione del marzo
2018.
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