venerdì 30 agosto 2019

Doha: gli Usa preparano l’Afghanistan talebano


C’è un fragile cuore filo governativo nell’Afghanistan del presente, quello certificato dal presidente Ghani e dal vice Abdullah che sembrano non contare nulla nell’Afghanistan del futuro. E poi diremo perché. E’ il cuore che appare bianco nelle carte del controllo del territorio, mappe da sempre cangianti e negli ultimi anni a favore dei taliban. Non sono neppure province intere, ma frazioni di provincia quelle sotto la giurisdizione del maggiore fallimento statunitense nel Paese occupato: l’Afghan National Army, un’armata Brancaleone di grandi numeri incapace di combattere senza il supporto dei marines. Sono aree che costoro controllano, e non si sa per quanto, nei governatorati di Ghowr, Daykondi, Bamian, Samangan e Balkh. Nella stessa super blindata Kabul, gli attentati, e dunque la presenza jihadista, esistono e si ripetono. Poi ci sono le roccaforti talebane vecchie e nuove: Helmnd, Ghazni, Kunar, Kunduz, Sar-e Pul e ora anche l’ex feudo Nato di Farah. Perciò le zone contese, un buon 40% dei territori, sono in tali condizioni da un triennio, e questo spiega benissimo perché le delegazioni diplomatico-militari statunitensi stiano da mesi a Doha a trattare coi turbanti. Perché l’Afghanistan dei desideri non esiste, né reggono più i governi-fantoccio. Sono andati avanti per otto anni col volto di Karzai, comunque radicato col suo clan per quanto divisivo dei Popalzay, ma con l’uomo della Banca Mondiale il bluff è imploso.
Così il rude cuore dell’America trumpiana, pur nascondendo sotto il tappeto una parte polverosa della realtà, batte imponendo la trattativa col soggetto intrattabile agli occhi di quell’Afghanistan smarrito e debole che sempre spera in un futuro. Sono mesi che gli strateghi della Cia e i diplomatici alla Khalilzad, spezzano il capello in quattro per un piano che giunto al traguardo prevederà due punti sostanziali: il ritorno nei luoghi di potere (governo, parlamento) del fanatismo talib che s’aggiungerà al fondamentalismo tuttora presente in quelle Istituzioni. In cambio della promessa dei talebani ortodossi dialoganti a Doha di non fornire basi e aiuti al combattentismo stile Qaeda, di cui essi stessi sono stati parte. Va in porto una vecchia norma: se non puoi battere un nemico, fattelo amico. Altre vicende, pur dibattute come il ritiro delle truppe statunitensi, rimarranno nel vago poiché la decina di basi aeree, funzionali alle strategie geo militari del Pentagono in quella fascia dell’Oriente, non prevede smobilitazione. Del resto è l’unico risultato utile ottenuto in diciotto anni di campagna afghana. Le stesse elezioni presidenziali, rinviate da oltre un anno per ragioni di sicurezza, e che non piacciono a nessun interlocutore, risulterebbero parziali proprio per le enormi limitazioni territoriali cui  l’organizzazione elettorale va incontro. Il furbetto Abdullah ha annunciato il personale disimpegno dalle consultazioni di fine settembre, adducendo un sostegno al piano di pacificazione e facendo intendere che il tavolo degli accordi, giunto alla nona sessione, non tiene in nessun conto quella scadenza.
Un percorso peraltro sempre rissoso, contestato e contestabile, per brogli presunti o realizzati, come Abdullah medesimo ebbe a vivere con Ghani nell’estate del 2014. Si rischiò uno scontro armato fra la fazione tajika che sosteneva il primo e i pashtun sodali del secondo, divenuto presidente per volere della Casa Bianca. Nel modello di Paese nuovo, che l’Occidente americano ed europeo hanno forzatamente proposto con l’occupazione mascherata da ‘missione di pace’, tanto per restare sulla  questione delle etnìe non c’è mai stata alcuna pianificazione o proposta di  cooperazione. Anzi, l’annoso tribalismo etnico utilizzato dai Signori della guerra assieme all’uso della fede quale strumento divisivo e offensivo, sono stati avallati un anno via l’altro dai governi locali che dovevano cambiare il volto del Paese. Così i seminatori di sopraffazione e morte hanno avuto vita facile. Anziché essere perseguiti per i crimini commessi negli anni Novanta, sono addirittura stati promossi vicepresidenti. In compagnìa di altri boss della politica armata si sono arricchiti accaparrandosi aiuti internazionali; purtroppo organismi mondiali fra cui strutture dell’Onu hanno permesso che attraverso la politica locale tutto ciò accadesse a danno delle comunità che s’impoverivano. Oggi i manovratori seduti ai tavoli di Doha e Mosca, garantendo i propri affari e spartendoli coi gaglioffi vecchi e nuovi della politica afghana (ex warlords, ex e neo taliban) preparano l’ennesima ribalta a svantaggio della popolazione. La chiamano pacificazione, ma ennesimi venti di guerra si preannunciano per i deboli di sempre, bambini e donne in prima fila.

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