martedì 18 febbraio 2025

L'occhio turco sulla nuova Siria

 


Ahmet Davutoğlu, già docente all’Università Beykent di Istanbul, è stato ministro degli Esteri negli anni d’oro dell’erdoğanismo dilagante (2009-2014). Da fidatissimo del capo l’ha anche sostituito nell’incarico di Primo Ministro (2014-2016), quando il leader dell’Adalet Kalkınma Partisi  si lanciò nella prima avventura presidenziale, diventando il 12° Capo di Stato turco, carica tuttora ricoperta da undici anni. L’idillio politico fra i due s’interruppe nella primavera 2016, periodo di crescenti tensioni interne per le ingerenze nella guerra in Siria, l’acuirsi del conflitto con la comunità kurda, i molteplici contrasti col movimento ğülenista, accusato poi del fallito golpe nel luglio di quell’anno. Dopo un triennio di stallo Davutoğlu ha fondato un gruppo politico (Gelecek Partisi) che si è presentato alle elezioni nel 2023, riscuotendo il magro bottino di dieci deputati, sui seicento presenti nel Meclisi. Ovviamente questo partito è all’opposizione dell’attuale governo islamico-nazionalista incentrato sull’alleanza fra Akp e Mhp, propone un ritorno al sistema parlamentare, sostenendo anche i diritti delle minoranze linguistiche. In un recente intervento incentrato sulla Siria l’occhio del professore prestato alla politica, e poi rimasto in quest’ambito, spazia su quella che era la sua specialità: le relazioni internazionali, per le quali da ministro degli Esteri aveva formulato un piano fatto proprio da Ankara, intitolato “zero problemi coi vicini”. Non è durato a lungo. Fra i vicini, sul confine meridionale lungo più di 900 km c’è la Siria, all’epoca Repubblica araba guidata da Bashar Asad. Ora, a due mesi dal suo disarcionamento definitivo che ha interrotto tredici anni di sanguinosissima guerra civile e guerra per procura da parte di altre nazioni fra cui la stessa Turchia, oltreché di milizie islamiste, jihadiste compreso l’Isis, e reparti kurdi nel Rojava, il nuovo gruppo di potere legato a Tahrir al-Sham per mano del leader Ahmad al-Sharaa sta guidando una transizione della nazione. 

 

La premessa Davutoğlu per il futuro immediato parla di “faro di pace e stabilità nella regione, la cui vera prova sta nella costruzione d’una nazione giusta e stabile”. Per un nuovo ordine occorre introdurre sette pilastri: identità nazionale; rispetto delle diversità; reinserimento dei rifugiati; rilancio di economia e sviluppo; garanzia di libertà e giustizia in un quadro costituzionale; nuove istituzioni; relazioni internazionali. Bisogna imparare dalla storia recente “Il crollo dei regimi baathisti di Saddam Hussein in Iraq e degli Asad in Siria è dovuto principalmente alla loro dipendenza dal settarismo che ha ostacolato lo sviluppo d’un senso condiviso di cittadinanza”. Perciò “Deve essere formata un'assemblea di riconciliazione nazionale che sia in grado di rappresentare tutte le comunità etniche: arabi, kurdi, turkmeni, sunniti, alawiti, drusi, cristiani. Gli alawiti non devono essere esclusi o sottoposti a misure di ritorsione per i crimini commessi da un regime che li favoriva”. E’ vitalegarantire il ritorno a condizioni di vita normali per aiutare coloro che hanno perso i propri cari, bambini orfani e prigionieri che hanno trascorso anni in detenzione”.  Risulterà strategico “unificare la spina dorsale della Siria (il cruciale corridoio Aleppo-Hama-Homs-Damasco-Daraa) e le sue ali (la zona costiera del Levante e la regione mesopotamica a est dell'Eufrate) in un'unica struttura di sicurezza, costituita dai gruppi di resistenza insieme al personale militare leale, formalizzati in una necessaria gerarchia militare”. La nazione e la sua gente necessitano di rilancio economico e quindi serve “recuperare i beni saccheggiati dai clan Asad e Makhlouf; eliminare gli embarghi imposti dalla politica internazionale;  sostenere agricoltura, industria e produzione energetica. La Mezzaluna fertile in cui una parte della Siria s’estende può favorire riforme avanzate di produzione biologica, la pacificazione territoriale e il bisogno di lavoro potranno offrire manodopera disponibile a investimenti d’impresa, mentre la posizione geografica fa del Paese un corridoio ottimale che collega la penisola araba al Mediterraneo e via terra attraverso la Turchia all’Europa. Il territorio pianeggiante ridurrà i costi del trasporto tramite l’implemento d’infrastrutture stradali e ferroviarie, utili a rilanciare turismo culturale e religioso, visto il patrimonio artistico di ampie aree”. 

 

C’è da sorridere all’ottimismo di Davutoğlu che comunque non perde il passo del realismo politico. Ricorda che “Senza un abbraccio di pluralismo confessionale, culturale, politico tutto può restare un sogno”. Serve prestissimo “stabilire    un ordine pubblico civile, riattivare il sistema giudiziario, promuovere la riconciliazione nazionale e redigere una nuova Costituzione. Provvedere a un giusto processo ai responsabili di crimini contro l'umanità, ed evitare le rese di conti con uccisioni extragiudiziali capaci di continuare a frantumare la popolazione”. Così la geopolitica internazionale può venire incontro all’auspicabile rinascita siriana “eliminando gli embarghi, riaprendo le ambasciate, sanando l’irregolarità di occupazioni come quelle israeliane nella regione di Quneitra e sulle alture del Golan. A Sharaa e alla sua cerchia ristretta dico: questa vittoria non appartiene solo a voi, ma anche alle centinaia di migliaia di martiri che hanno dato la vita durante la guerra. Resistete alla tentazione di isolarvi in palazzi lussuosi. Rimanete tra il popolo. Ai Paesi della regione e ai loro leader, dico: la Siria appartiene ai siriani. Non create sfere d’influenza tramite pregiudizi etnici.  L'Iran, che ha sostenuto il regime di Asad, deve evitare di esacerbare il caos. Garantire una nuova amministrazione che stabilisca stabilità diventa anche un suo interesse. Per Stati Uniti e Russia il compito più urgente è quello di ottenere una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'Onu che tuteli  l'integrità territoriale siriana. Il contributo più significativo di Mosca alla pace interna consisterebbe nel sollecitare l’ospitato Asad ad astenersi da dichiarazioni e azioni che potrebbero danneggiare questo cruciale processo di transizione”. Quindi il suo Paese: “Quando si parla di Ankara il rapporto fra Turchia e Siria è molto più importante di un semplice legame di vicinato; esso è fondato sulla fiducia reciproca e sul rispetto. La Turchia dovrà agire con un piano strategico chiaro e si schiererà dalla parte della Siria, favorendo un futuro pacifico e prospero. La Turchia non ha mai cercato di ottenere il dominio politico o un guadagno economico dalla Siria e non lo farà mai (sic!)”. Chissà se il nuovo corso di Damasco ci crede, e se presterà orecchio alle riflessioni del superato visir di Erdoğan.   

giovedì 13 febbraio 2025

Laila, il vigore della giustizia

 


Nel vederla così da lontano, di sfuggita, senza leggere cartelli e osservare foto, sembrerebbe una barbona o nel più poetico dei flash una riedizione di certe protagoniste di film del muto, fiammiferaia o fioraia, magari cieca. La vecchina infreddolita davanti la cancellata d’uno dei palazzi delle Istituzioni londinesi è l’indomita Laila Soueif, una delle maggiori docenti di matematica dell’Università del Cairo. Cosa faccia lì, infreddolita e spossata è presto detto: protesta con uno sciopero della fame lungo centotrentotto giorni, contro la carcerazione del figlio Alaa Abdel Fattah, indebitamente detenuto nelle prigioni egiziane, nonostante abbia terminato di scontare una condanna. La protesta è rivolta contro il presidente egiziano Al Sisi, con una chiamata di correo anche per il premier britannico Starmer, visto che Alaa e lei stessa sono anche cittadini del Regno Unito. In altre situazioni, per altri cittadini l’inquilino di Downing Street si sarebbe mosso a loro difesa? E’ tutto da valutare. Sono bastati pochi mesi dalla formazione del suo esecutivo, dopo il successo elettorale d’inizio estate, e il politico che aveva avviato la carriera fra i laburisti puntando sulla difesa dei diritti umani, e che dopo un’esperienza in magistratura si presentava agli elettori come serio sostenitore dei princìpi giuridici e delle leggi, sta facendo della real politik in voga l’arma per conservare il consenso. Quello interno e quello internazionale. Così s’è tuffato nella lotta all’immigrazione ‘irregolare’, e dopo aver apprezzato la linea Meloni per il “collocamento” di migranti in Albania, ha iniziato a realizzare trasferimenti forzosi dei migranti, alla maniera trumpiana con tanto di catene e aerei per i trasbordi. Può un leader laburista che imita il peggior Blair spendere una parola per il caso Alaa? Lo dubitiamo. Ma c’inchiniamo alla tenacia di mamma Laila, indebolita nel fisico da quel genere di protesta estrema che lascia solchi profondi non solo sulla pelle bensì nel fisico, debilitandolo. Specie se il digiuno è ripetuto, come lei ha fatto a lungo e più volte, seguendo le traversie giudiziarie del figlio. Pare una nonnina Laila nei suoi sessantanove anni non ancora compiuti, eppure ha la forza dirompente d’una ventenne, la determinazione d’una combattente, la passione d’una madre, la tenacia d’una donna.

lunedì 10 febbraio 2025

Gerusalemme, il pericolo dei libri

 

Sconsolato osserva, Mahmoud, prima d’essere fermato e poi arrestato. Avvilito guarda i poliziotti che scrutano, sequestrano libri o li gettano a terra. E’ nella sua libreria a Gerusalemme est gestita col fratello ed ereditata dal padre Ahmed Muda, ex insegnante che lavorava nei campi profughi di Shu’fat, un’area periferica non così lontana dal centro. Cosa cercano i poliziotti? Libri. E lì ne trovano, sulle  vicende millenarie della città, dei suoi abitanti arabi, della loro storia passata e recente, delle sofferenze vecchie e nuove, dei loro diritti violati e calpestati. Già questo basta per irritare lo Stato israeliano che invia i suoi uomini in missione antiterrorismo. Finché, proprio nel reparto delle letture infantili, spunta fuori un testo pericolosissimo, un fumetto da colorare, vista la sua funzione didattica e iconografica. Il colpo va a davanti a un titolo esplosivo che recita: Dal fiume al mare. E’ lo slogan usato dai palestinesi per indicare il sogno d’un proprio Stato così esteso, e che Israele considera distruttivo per se stesso, dunque conseguentemente terrorista. Ecco un buon motivo per portar via Mahmoud e suo nipote Ahmed, librai terroristi. Si fa così senza lasciare tregua alla storia d’un nemico da far sgombrare da case, quartieri, campi profughi, da cancellare pure dai libri. Ché Netanyahu e Trump hanno fretta. 


 



sabato 8 febbraio 2025

Tunisia, il volto nero del Piano Mattei

 


Settanta pagine roventi come i drammi che testimoniano per bocca di trenta diseredati della migrazione finiti nelle grinfie della Guardia Nazionale tunisina. Costituiscono il rapporto-denuncia (‘State Trafficking’) raccolto da un gruppo di ricercatori, che per ragioni di sicurezza vuole restare anonimo, presentato una decina di giorni fa al Parlamento Europeo dai deputati Strada, Salis, Orlando, Sippel, Strik, Galàn. Racconta quella tratta dei migranti, con tanto di violente reclusioni e deportazioni, che alcuni media denunciano da almeno due anni e che molti altri media preferiscono ignorare. Soprattutto in Tunisia e in Italia. Per non guastare la festa al tanto sbandierato “piano Mattei” caro al Primo ministro italiano Meloni di cui s’avvantaggia il governo autoritario di Tunisi. Nei giorni immediatamente precedenti la divulgazione in sede europea del citato report, i telegiornali italiani ricordavano con enfasi gli ulteriori accordi stabiliti dai due Paesi tramite i rispettivi ministri degli Esteri Tajani e Nafti. Investimenti in campo economico che riguardano agricoltura ed energia. Nell’agroalimentare le collaborazioni sono di vecchia data e avevano, tanto per evidenziare qualche aspetto speculativo che riguarda taluni nostri produttori di presunto olio extravergine d’oliva, precedenti di acquisto in Tunisia di materia prima o di prodotto finito, spacciato per olio italiano Evo, che non era né italiano e neppure extravergine. Ma queste sono truffe, peraltro realizzate con partner anche d’altre aree geografiche. Gli accordi presenti concernono uno scambio agronomo-tecnologico fra le due nazioni. Mentre Terna, colosso nostrano di trasmissione di energia elettrica,  ultimamente ha inaugurato a Tunisi la “Terna Innovation Zone” primo hub africano che rafforza il partenariato fra i due Paesi. 

 

La nota di presentazione parla: “di rafforzare l’ecosistema dell’innovazione a sostegno dell’imprenditorialità locale legata alla transizione energetica e digitale”.  Fra gli intenti anche quelli di formazione avanzata di giovani ingegneri e tecnici. Bisognerà vedere con quale ritorno economico soggettivo per queste figure professionali, che le statistiche relative alla migrazione intellettuale dal Paese maghrebino calcolano a cifre elevatissime (70%) proprio a seguito dei bassi salari interni (300-400 euro mensili). Invece ‘State Trafficking’ report ci pone davanti alla peggior prosa dopo i versi poetici che decantano l’idillio fra Meloni e Saïed. I trenta denuncianti raccontano quel che gli è accaduto, ciò che hanno visto e subìto assieme a centinaia di vessati come loro. Tutto a opera della Guardia Nazionale tunisina, della locale Guardia di Frontiera, dello stesso esercito, i cui militari agiscono indossando la divisa oppure in borghese, coprendosi con maschere durante le azioni più truculente. Un aspetto del contrasto alla concentrazione di migranti, in gran parte subsahariani, che si raccolgono attorno alla città costiera di Sfax, è la distruzione dei campi informali lì creati da chi stazione in attesa d’un imbarco, esclusivamente di fortuna. E rischiosissimo. Vengono fermate e arrestate i soggetti più diversi: studenti, lavoratori con o senza documenti di soggiorno, persone con passaporto tunisino o con documenti rilasciati dall’Unhcr. I cacciatori di migranti puntano  soprattutto alla cattura di individui di colore con un approccio definito predatorio dagli autori dell’indagine. Ai fermati si dice trattarsi d’un controllo di routine o che avranno accesso a programmi di rimpatrio volontario. In vari casi l’operazione viene camuffata come una loro “protezione dalla popolazione locale che potrebbe aggredirli”. Chi viene arrestato non può ricorrere a difensori legali. Frequenti sono il sequestro e la distruzione di documenti a coloro che li posseggono.  

 

Qualsiasi protesta viene sedata con la violenza, i denuncianti parlano di percosse con bastoni e spranghe cui s’aggiungono minacce, privazioni di cibo e acqua. Il personale carcerario perquisisce periodicamente i detenuti alla ricerca soprattutto di telefoni cellulari che potrebbero  essere usati per documentare il trattamento subìto. Mentre le perquisizioni alle donne si trasformano in molestie o abusi sessuali.  Alcuni fermi avvengono in mare, la Guardia Costiera avvicina l’imbarcazione di fortuna sequestrandone il motore, se c’è una reazione da parte dei migranti scatta la minaccia di rovesciare la barca. I traslochi verso i luoghi di detenzione quasi sempre avvengono di notte, gli agenti a bordo degli autobus o camion che trasportano i migranti celano il volto. Il trasferimento nei famigerati campi libici - vero spettro per tutti, anche perché ormai il passaparola ha demonizzato quella rotta - è il caso più temuto. Però domandare se quella è la destinazione può produrre reazioni violente dei carcerieri. In talune circostanze chi osava chiederlo è stato abbandonato  lungo il percorso. Fra gli intervistati c’è chi ha riferito d’aver visto sotterrare migranti deceduti dopo violentissime  percosse in fosse comuni, vicino ai campi di detenzione. E poi in mezzo al deserto c’era l’ossessione della “gabbia”, il recinto animalesco dove si poteva finire in attesa della propria compravendita. In cambio di denaro, hashish, carburante i guardiani tunisini cedono i migranti ai carcerieri libici. Il prezzario del turpe commercio schiavistico va dai 40 ai 300 dinari tunisini. Dai dodici euro in su per i giovani maschi, ottanta euro per le donne. Un po’ di più se sono madri d’un bambino. Un’offerta conveniente. Chissà se nei dialoghi fra Meloni e Saïed certi particolari sul trattamento dei migranti sono circolati.

giovedì 6 febbraio 2025

Gaza, dopo le bombe il resort

 


Davanti alla massa di sfollati tenuti assieme da identità, ideali e lutti si materializza l’esca per sbarazzarsi di loro con la lusinga d’un futuro. Anziché morire in una prossima guerra israeliana per ogni famiglia palestinese è più opportuno riparare altrove. Lancia mellifluo il messaggio Donald Trump, orgoglioso delle sue proposte spiazzanti amplificate ed esaltate dai media amici. Ma il presidente americano non lo fa in una festa privata nella villa di Mar-a-Lago, lo dice ufficialmente in conferenza stampa dopo aver accolto a braccia aperte il premier Netanyahu. Che è, sarebbe, ricercato dalla Corte Penale Internazionale per crimini di guerra, però il primo cittadino statunitense non dà importanza al mandato di cattura, come fanno peraltro altri grandi del mondo. A Netanyahu, al suo governo, alla destra d’Israele, ma pure all’oppositore Gantz (‘proposte creative e interessanti’ le ha definite) piace il gioco subdolo dell’amico americano. Se da una parte giunge la reazione sdegnata di quel che resta della geopolitica civile e anche del mondo arabo più compromesso con l’affarismo proprio e le amicizie imperialiste, l’emergenza che durerà mesi, il logoramento delle vite sul fronte primario della sussistenza fra scorte alimentari che potrebbero nuovamente scarseggiare, quelle sanitarie egualmente tarate, le igieniche completamente assenti, una ricostruzione lontana anni, potrebbero insinuare l’idea che in fondo è meglio finire profughi sotto un tetto a migliaia di chilometri di distanza. Non nella  Giordania hashemita, ora solidale coi detestati palestinesi,  non nell’Egitto di Sisi che non vuole in casa gli odiati islamisti e rifiuta l’idea, ma in Paesi come quelli (Irlanda, Norvegia, Spagna) che il ministro della Difesa di Tel Aviv Katz dice “obbligati per legge” ad alloggiare gli abitanti della Striscia.

 

Con loro chissà quanti altri in Europa o altrove possono diventare accoglienti verso due milioni di persone, dal momento che nel decennio scorso dalla Siria sono “traslocati” in sette milioni. Quella che sembra una boutade, tipica del trumpismo che straparla su tutto, potrebbe avere applicazioni pratiche. Se non nell’immediato e sulla fantasmagoria d’una nuova riviera nel Mediterraneo, nell’intreccio col piano B di Israele che risulta più efficace delle guerre finora intraprese: allontanare i palestinesi occupandogli terra e case, impedendogli l’esistenza, negandogli di bere e mangiare, finanche di respirare, togliendogli ogni spazio con i coloni. Perché continuare a sopravvivere dove non si può vivere, potranno domandarsi i figli dei figli che non scelgono di vendere cara la pelle con la determinazione  dell’Intifada? Se tutto è distruzione, se i propri rappresentanti ammessi a discutere col mondo continuano a essere gli impresentabili faccendieri alla Abu Mazen, se soprattutto lo ‘stato di diritto’ che pure questo popolo non ha mai conosciuto, viene smantellato e ridicolizzato dalle nuove leve del comando geopolitico internazionale, la soluzione di ritrovarsi in una “riserva” più o meno presentabile a migliaia di chilometri dalla propria terra promessa, può diventare realtà. E’ il fatalismo imposto dai nuovi poteri, avallato da chi fa in modo che accada perché non ha reagito davanti ai massacri dei mesi scorsi, di chi li giustifica sostenendo la tesi della giusta risposta a un precedente massacro. Questa teorizzata politica della forza, che ha molti più sostenitori degli espliciti fan, s’avvantaggia della vituperata indifferenza, letterariamente ricordata e inesorabilmente protagonista di numerosi passi della tragica Storia del Novecento. Le si aggiunge la linea del ricatto, del raggiro o dell’accettazione d’un disperante futuro, parente prossimo della disperazione quotidiana.

 

lunedì 3 febbraio 2025

Gaza, la forza d’un ritorno

 


La minuta e sentita, lenta e affaticata, polverosa ma orgogliosa marcia per il ritorno verso nord, intrapresa da decine di migliaia di gazesi dal momento del cessate il fuoco è uno dei volti della crisi che prosegue nella dolente Striscia. E’  caduta presto nel dimenticatoio della maggior parte dei media che pure ne avevano parlato, e grazie ai martoriati  operatori locali, avevano mostrato facce stravolte e pure ridenti. E’ stata superata dall’altra attualità: il rilascio cadenzato degli ostaggi israeliani, alcuni sospettosamente accondiscendenti coi carcerieri, altri atterriti dalla folla urlante, trasportati dalle milizie di Hamas verso le auto della Croce Rossa che li consegnavano ai propri cari. Operazione pattuita, barattata col rilascio d’un numero copioso di prigionieri palestinesi, di cui s’è evidenziato il lato propagandistico con cui il Movimento islamista dava sfoggio di divise e armi, controllo del luogo della liberazione e proprio ruolo centrale nella trattativa, con un messaggio esplicito al governo di Tel Aviv che per quindici mesi ha inseguito “l’annientamento” di quest’avversario politico e militare. Invece tutto sembra come prima. Politicamente lo è. Militarmente decisamente meno. Umanamente per niente, perché i lutti sono lacerazioni che durano in eterno. Eppure nel rapporto fra chi imbraccia il kalashnikov e chi tutt’attorno osserva rabbioso o curioso quell’operazione i legami non sono né spezzati né logorati. Anzi, risultano più profondi. Perciò si parla di vittoria palestinese e sconfitta di Netanyahu, una vittoria costata, finora, cinquantamila morti e incertezza sul presente e futuro. Ma tant’è. 

 

Parlare di successo per una marea itinerante fra macerie, che, nei figli e nei vecchi più fragili, può tuttora crepare di fame e freddo, sa di bestemmia della morale. Però bisogna andare oltre l’ammasso di cadaveri, ricercati per un suprematismo politico, ideologico, confessionale, razziale,  un andamento nel quale taluni Stati e regimi si rispecchiano in parte o in tutto. Purtroppo Israele li somma, uno accanto all’altro. La fiducia in un prosieguo esistenziale che nella propria saggezza antica o disperazione o fatalismo o senso della vita questi marciatori  affranti ma non piegati; questa gente che s’accuccia in tendopoli di fortuna messe su a pochi metri dai cumuli di rovine create da chi li detesta; queste famiglie insanguinate e costernate ma felici di rientrare verso casa sebbene la casa sia un ammasso di pietre o cemento, rappresenta la lezione che un cieco Israele si rifiuta di capire. Lo spettro di quel che dice di non fare - un genocidio - di ciò che israeliani ed ebrei non accettano di poter anche solo ascoltare nelle proteste contro i massacri perpetuati, appare essere l’unica folle via per estirpare una massa resistente a ogni bomba, a ogni perdita, a ogni sacrificio. Un popolo che rimane attaccato alla sua terra, accettando di sopravvivere nel nulla e nell’incertezza, nella devastazione proposta e imposta da oppressori incalliti. Volti che sperano di vivere, di sorridere nonostante gli scempi, di rilanciare la bellezza dell’ottimismo, di ricordare che il male non deve essere assoluto. Non può esserlo. Non ha spazio nella Storia, nonostante continui a riaffacciarsi.

venerdì 24 gennaio 2025

Franceschini, il meccanico performante

 


Neanche fosse il team Ferrari, che però ingaggia Hamilton per tornare a vincere, il magma progressista dell’opposizione che sogna ma non segna, come talune squadre in crisi profondissima, trova un manager che veste la tuta blu di meccanico. Lo annuncia La Repubblica, introdotta nell’officina che Dario Franceschini, ha rilevato nel quartiere romano dell’Esquilino per farne il suo ufficio. Officium in latino sta per servizio-dovere-funzione, quello che l’attuale politica tutta, in ogni angolazione, non riesce a fornire presa com’è da ‘lo proprio particulare’ come lo definiva Guicciardini, che le meschinità ataviche del genere umano aveva studiato e messo nero su bianco. Un genere ancor più particolare è il ceto politico, che nelle repubbliche seguite alla prima, sta offrendo il meglio delle meschinità di chi fa d’un servizio uno status personale. Personalissimo. Esteso alla cerchia familiare, clanista e dei cortigiani al seguito. Dario, da figliol prodigo d’un papà che fu democristiano ma almeno partigiano, ha avuto il destino segnato di chi nasce in provincia (Ferrara) e deve comunque arrivare. Lui ci ha messo del suo e già liceale era nell’Associazione Democratica d’ispirazione cattolica, avendo  nel cuore Benigno Zaccagnini e don Primo Mazzolari (partigiano anche lui). Diventa presto amministratore democristiano nella città natale, poi vola nella direziona nazionale del Movimento giovanile Dc. Dopo essersi fatto le ossa in periodici para-partito (Settantasei, Il Confronto, La Discussione) la carriera politica è in ascesa stellare. Certo, nel terremoto di Mani pulite che azzera la ‘prima repubblica’ assiste al crollo della casa di Piazza del Gesù, ma si ritrova  nel Partito Popolare Italiano, e fra correntine dello stesso, segretari di passaggio, Bianco, Marini, Castagnetti, diventa uno spalleggiatore e politico di professione, visto che la laurea in Giurisprudenza che lo fa avvocato civilista, lo impegna per un periodo brevissimo. La Grande Politica gli obnubila lo studio legale, però nel tempo gli offre un posto da Senatore. Ovviamente incontra e vive l’esperienza de L’Ulivo che lo fa Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio (1999-2001), quindi il Partito Democratico di cui è lui medesimo il segretario (2007-2009) dopo aver fatto il vice (2009). Quindi diventa Ministro (Rapporti con il Parlamento, 2013), e in tre legislature Ministro per i Beni Culturali trasformato in Cultura tout court (2014-2018, 2019-2021, 2021-2022). Respiriamo: Ecco Homo. Ora il suo genio, rimasto un po’ in disparte nell’ultimo periodo, si prende la briga di elargire consigli utili al futuro politico d’una classe perdente.  Dario lo ribadisce: “Uniti si perde”. Cosa verificabilissima, visto che gli apprendisti stregoni con cui lui stesso ha collaborato nel Pd tali magrezze elettorali possono verificarle di persona. E allora nell’odierna esternazione della citata intervista Franceschini propone all’opposizione un passo antico, forse più efficace dell’unione che non acchiappa né voti né tantomeno la guida del Paese. Fare come la Destra, un’alleanza elettorale, per fare cosa si vedrà. E se c’è chi vuole la guerra e chi no;  chi il nucleare e chi le pale eoliche, non importa. Importante è pigliare i voti, il resto si decide durante il governo. Potrebbe funzionare, poiché agli avversari tutto sommato funziona. Certo, occorre trovare chi la racconta per bene, gli altri hanno l’attrice Meloni. Servirebbe un affabulatore-presidigitatore alla Renzi, che ormai s’è bruciato (infatti Dario gli consiglia d’integrarsi generoso nel progetto). Chi sarà il conducator il nostro non lo dice. Del resto lui ha avuto la folgorazione, illumina, ma non può far tutto. Eppure un’altra cosa la pensa e la dice: estendere l’accordo a Forza Italia che orfana di Berlusconi magari potrebbe risultare meno rigida e fare il salto della quaglia. Non l’ha ancora proposto a Tajani, potrebbe convincerlo piano, piano facendogli fare il Cavallo di Troia senza che se ne accorga. Primo passo: un invito nell’officina romana a rimirare la moto che lui aveva venduto e che amici del cuore hanno recuperato, regalandogliela. I grandi ritorni valgono nella vita e nella politica. Per Franceschini il domani è scritto: basta sostituire Dc-Psi-Psdi-Pri-Pli con Pd, M5S, Avs,+Europa, Iv e se va bene Azione. E il motore truccato romba.

mercoledì 15 gennaio 2025

Tregua

 


Arriva Trump e impone la tregua, sei settimane per non morire, almeno di bombe e proiettili, non si sa se di freddo e fame. Certo, festeggiano in tanti. A Gaza tutti. Per loro che hanno almeno un ammazzato in ogni famiglia, vedere spuntare il sole senza sentire il risuono spettrale delle case sbriciolare coi corpi dentro è già molto. Continueranno a sentire il ronzio dei droni-spia, ma il blocco di quelli killer è un risultato. Si sposteranno gli sfollati, magari per rivedere da vicino i luoghi fino al 7 ottobre della quotidianità diventati ora lugubri cumuli di morte. Ma ci saranno gli arrivi di prigionieri palestinesi, dicono centinaia, cinquanta per ogni prigioniero israeliano liberato, superando in questo la percentuale applicata da Israel Defences Force per la vendetta ch’era più di trenta cadaveri per ogni kibuzzim ucciso da Hamas nel raid lontano 466 giorni. Sperano anche a Tel Aviv di ritrovare gli ostaggi, alcuni, non tutti. Dovrebbero rientrarne trentatré subito, poi si vedrà per i restanti in una giostra macabra fra chi rientra (sicuramente cinque soldatesse e due bambini) e chi rimane fuori dalla trattativa. Lacrime di gioia dei familiari che riabbracciano i cari, d’angoscia per chi resta a braccia vuote. Volti scuri e malmostosi dei fedeli dei ministri dell’ultradestra che hanno parlato anche contro il proprio premier di ‘patto col demonio’ da rifiutare, perché guerra e sterminio è il proprio programma che non necessita di dettagliarsi sul termine genocidio, una parola che è un’insignificante sottigliezza, visto pensano di riprendersi tutto ciò che occupano e distruggono: Gaza, Cisgiordania, Alture del Golan per il Grande Israele che atterra e sotterra senza consolare il nemico. Lo umilia, lo fiacca, lo azzera fino a cancellarne ogni traccia. Eppure, com’è stato per altri agguati alla gente, per altre operazioni definite guerre, Hamas non è stato distrutto, è comunque l’interlocutore di questa sosta alla morte che può riaccendersi fra poco più d’un mese. Per ora  il patrono dell’accordo, il presidente americano che si gode il potere di far fare a Netanyahu quel che gli comanda, predispone di trovar lui la soluzione a chi deve governare quel che resta di superstiti sfibrati, e se non si può prolungare in eterno il fantasma di Abu Mazen occorrerà inventare un nuovo raìs di comodo, affinché Israele possa essere per un periodo sazio della sua fame di sangue.

lunedì 13 gennaio 2025

Egitto, Mansour il vendicatore

 


C’è un islamista egiziano dal nome comune nel suo Paese, al-Mansour, che ingombra le notti del presidente Sisi. Se anche testate con l’occhio puntato sul medioriente registrano reazioni più o meno dirette alla campagna contro Sisi lanciata da mesi da tal Ahmed al-Mansour, qualche fremito l’uomo forte del Cairo deve averlo. E in effetti in un suo recente intervento ha dischiarato: “Se il vostro presidente non è buono, se c'è sangue sulle sue mani, se ha rubato del denaro, dovreste essere preoccupati per il vostro Paese. Grazie a Dio, nessuno di questi problemi esiste". Più che di timori trattasi di autoassoluzione. Eppure osservatori interni hanno messo in relazione queste frasi al tam-tam sui social lanciato da al-Mansour con l’hashtag: “E’ il tuo turno, dittatore!” slogan che valeva contro Asad e che Mansour ha mutuato contro l’ennesimo satrapo che detesta. Anche perché Ahmed è un egiziano che ben conosce, avendolo vissuto, il trapasso dalle speranze del suo Paese riposte nella cacciata di Mubarak,  l’avvìo d’un governo liberamente eletto nel 2012 (quello guidato da Morsi), le proteste davanti alla moschea Rabaa al-Adawiya dopo la rimozione forzata dell’esecutivo della Fratellanza Musulmana, e la strage del 13 agosto 2013 con oltre un migliaio di manifestanti uccisi uno a uno dalle Forze Armate dirette da Sisi. Negli interventi che posta sul web, al-Mansour sostiene di non aver mai fatto parte della Confraternita, d’essere riparato in Siria per sfuggire alla repressione interna e d’essersi poi unito alle milizie islamiste. Ora che i combattenti di Hayat Tahrir al-Sham hanno conquistato il potere a Damasco, il miliziano d’Egitto afferma ch’è giunta l’ora di spazzare via Sisi. Fin qui la propaganda, però non esplicita come. Che l’odio verso la lobby militare e il presidente in persona siano estremamente sentite nel grande Paese arabo non è una novità. Ma i motivi che lasciano da oltre un decennio al suo posto il generale sono vari. 

 

La protezione internazionale innanzitutto che, nel travagliato contesto locale, l’ha investito del ruolo d’uomo d’ordine facendolo tratto d’unione fra il vecchio laicismo militarista di cui l’Egitto esprime tuttora un modello caduto invece in Libia, Iraq, Siria, le petromonarchie sempre più attive sulla scena finanziario-geopolitica e il furore omicida e razzista d’Israele. In più Sisi continua ad avere dalla sua parte gli egiziani che sopravvivono con la “multinazionale delle Forze Armate” che dà da mangiare a milioni di famiglie i cui membri vestono la divisa o sono occupati nell’apparato statale, oppure lavorano nell’indotto della lobby estesa ad agricoltura, prodotti alimentari, edilizia, manifattura, turismo. Eppure una gran massa, più della metà dei cento milioni di concittadini, è fuori da tale cerchia. Costoro s’arrangiano, vivono come possono, non necessariamente foraggiandosi col traffico del contrabbando di talune aree come nel Sinai, ma stentando davanti a una crisi economica che morde i “non protetti”. Così Mansour si fa paladino del malcontento e serioso e minaccioso, per ora solo dai video, chiede le dimissioni dell’impostore, la liberazione dei 60.000 detenuti, la fine d’un regime. Mossa che pare velleitaria, visto che dal 2016 qualsiasi protesta pacifica è repressa, mentre inefficaci risultavano gli attentati con autobomba nelle maggiori città ed egualmente gli agguati contro i militari nel Sinai. Da anni qualunque azione non ha avuto seguito fra strati popolari oppressi, umiliati, smarriti, impauriti. L’ultimo oppositore noto, Abdel Alaa Fattah, condannato per critiche sui social meno taglienti di quelle del miliziano islamista, ha l’anziana madre in sciopero della fame da oltre cento giorni. Chiede la liberazione del figlio anche al governo britannico, vista la doppia cittadinanza dell’attivista, ma né Sisi né Starmer muovono un dito. Nella contemporaneità politica incrudelita ogni pietà è morta e questo infiamma i pensieri di Mansour e di chi progetta vendette.

martedì 7 gennaio 2025

Siria, cantieri in corso

 


Alle questioni formali, che comunque risultano sostanziali per quel che si trascinano dietro in fatto di diritti e rapporti fra i generi, su cui s’è soffermata la stampa mainstream che commentava la mancata stretta di mano fra Al Jolani-Ahmed Al Sharaa e la ministra degli Esteri tedesca Baerbock, si sommano e delineano aspetti che rivestiranno il fulcro del divenire siriano, necessariamente caratterizzato dalle volontà e i comportamenti dell’attuale ceto dirigente proveniente in toto da Hayat Tahrir al Sham, i miliziani scacciatori di Asad. La visita d’inizio anno della coppia franco-tedesca (accanto alla Baerbock c’era l’omologo francese Barrot) che l’Alta Rappresentante Ue Kallas ha rincorso come fosse una creatura che sua non era, evidenzia per l’ennesima volta gli indirizzi decisionali della politica europea provenienti non dai palazzi di Bruxelles ma da quelli berlinesi e parigini. Mentre gli europei tengono a ribadire princìpi su diritti e minoranze sui quali Al Sharaa ha ascoltato gli interlocutori, Qatar, Emirati Arabi Uniti e soprattutto Turchia hanno iniziato a trattare questioni banalmente materiali, ma assolutamente sentite dalla gente: ricostruzione edilizia di città e paesi sventrati dal pluridecennio di guerra interna e d’infrastrutture e servizi (centrali energetiche, strade, scuole, ospedali) danneggiati o polverizzati. I Paesi dei petrodollari non sono nuovi al ruolo di paladini della solidarietà all’Islam sunnita povero o disastrato, la Turchia erdoğaniana può mettere a disposizione l’apparato statale di Toki, l’azienda creata dai governi kemalisti ma ampiamente gestita dall’apparato dell’Akp dal momento della presa del potere a inizio del nuovo millennio. Toki è stata al centro di polemiche per una dirigenza votata al sostegno dell’attuale sistema di potere, ovviamente a sua volta ripagata dalle copiose commesse governative, però nel bene e nel male ha avuto un ruolo centrale nel supporto abitativo ai superstiti del tremendo terremoto del febbraio 2023 che ha contato cinquantasettemila vittime.  

 

Una delle ipotesi che il presidente turco caldeggia è la ricollocazione di ex rifugiati nella Siria della transizione. Il piano mira ad alleggerire, almeno in parte, la tensione che i 3,5 milioni di profughi creano da anni nelle metropoli anatoliche, soprattutto a Istanbul e Ankara. Un congruo numero di siriani sfollati dalle aree rurali sarebbero destinati alle terre di confine che fra Afrin-Kobane-Cizre, costituivano i cantoni del cosiddetto Rojava kurdo. Sarà possibile farlo? Se al posto delle precarie tendopoli, dove tuttora si ritrovano accampate decine di migliaia di famiglie, si dovessero profilare abitazioni più o meno strutturate la lusinga ci sarebbe eccome. Ultimo ostacolo alla “pulizia etnico-politica” è quel che resta delle Unità di Protezione del Popolo, le Ypg kurdo-siriane, che in molti punti sono ‘migrate’ a est mentre proseguono la difesa di Kobane. Che la situazione bellica interna non sia pacificata e un tratto di territorio continui a vedere presenze armate a ‘macchia di leopardo’ è confermato da notizie di reiterati scontri fra le due fazioni maggioritarie contrapposte in questi anni: il filo turco Esercito nazionale siriano e le Forze democratiche siriane a trazione kurda. Chi comanda a Manbij e sotto di essa, nelle centinaia di tunnel scavati e percorsi in lungo e in largo da differenti manipoli, non è deciso. Sebbene nel mese di dicembre la rotta del regime di Asad ha rafforzato anche qui la presenza degli arabi sunniti a danno dei kurdi che, secondo i primi soggiogavano la popolazione. I punti di vista continuano a divergere, ognuno ha, avrebbe, le sue ragioni come se dodici anni di sangue versato a fiotti non fossero serviti a guardarsi dentro, comprendere errori e orrori e lavorare per il futuro. La Siria di domani di cui molti parlano, ha il volto dell’Al Sharaa se non misogeno alla maniera dei più estremi talibàn, certamente poco disponibile verso la rappresentanza femminile probabilmente non solo esterna come frau Baerbock. E fra i cantieri della ricostruzione, quelli del ritorno dei fuggiaschi, il cantiere della convivenza etnico-confessionale si presenta come il più ardimentoso e rischioso. Specie se dovrà prevedere pure la ricollocazione dei detenuti jihadisti e dei loro familiari ostili a tutto e tutti.