Ahmet Davutoğlu, già docente all’Università Beykent di Istanbul, è stato ministro degli Esteri negli anni d’oro dell’erdoğanismo dilagante (2009-2014). Da fidatissimo del capo l’ha anche sostituito nell’incarico di Primo Ministro (2014-2016), quando il leader dell’Adalet Kalkınma Partisi si lanciò nella prima avventura presidenziale, diventando il 12° Capo di Stato turco, carica tuttora ricoperta da undici anni. L’idillio politico fra i due s’interruppe nella primavera 2016, periodo di crescenti tensioni interne per le ingerenze nella guerra in Siria, l’acuirsi del conflitto con la comunità kurda, i molteplici contrasti col movimento ğülenista, accusato poi del fallito golpe nel luglio di quell’anno. Dopo un triennio di stallo Davutoğlu ha fondato un gruppo politico (Gelecek Partisi) che si è presentato alle elezioni nel 2023, riscuotendo il magro bottino di dieci deputati, sui seicento presenti nel Meclisi. Ovviamente questo partito è all’opposizione dell’attuale governo islamico-nazionalista incentrato sull’alleanza fra Akp e Mhp, propone un ritorno al sistema parlamentare, sostenendo anche i diritti delle minoranze linguistiche. In un recente intervento incentrato sulla Siria l’occhio del professore prestato alla politica, e poi rimasto in quest’ambito, spazia su quella che era la sua specialità: le relazioni internazionali, per le quali da ministro degli Esteri aveva formulato un piano fatto proprio da Ankara, intitolato “zero problemi coi vicini”. Non è durato a lungo. Fra i vicini, sul confine meridionale lungo più di 900 km c’è la Siria, all’epoca Repubblica araba guidata da Bashar Asad. Ora, a due mesi dal suo disarcionamento definitivo che ha interrotto tredici anni di sanguinosissima guerra civile e guerra per procura da parte di altre nazioni fra cui la stessa Turchia, oltreché di milizie islamiste, jihadiste compreso l’Isis, e reparti kurdi nel Rojava, il nuovo gruppo di potere legato a Tahrir al-Sham per mano del leader Ahmad al-Sharaa sta guidando una transizione della nazione.
La premessa Davutoğlu per il futuro immediato parla di “faro di pace e stabilità nella regione, la cui vera prova sta nella costruzione d’una nazione giusta e stabile”. Per un nuovo ordine occorre introdurre sette pilastri: identità nazionale; rispetto delle diversità; reinserimento dei rifugiati; rilancio di economia e sviluppo; garanzia di libertà e giustizia in un quadro costituzionale; nuove istituzioni; relazioni internazionali. Bisogna imparare dalla storia recente “Il crollo dei regimi baathisti di Saddam Hussein in Iraq e degli Asad in Siria è dovuto principalmente alla loro dipendenza dal settarismo che ha ostacolato lo sviluppo d’un senso condiviso di cittadinanza”. Perciò “Deve essere formata un'assemblea di riconciliazione nazionale che sia in grado di rappresentare tutte le comunità etniche: arabi, kurdi, turkmeni, sunniti, alawiti, drusi, cristiani. Gli alawiti non devono essere esclusi o sottoposti a misure di ritorsione per i crimini commessi da un regime che li favoriva”. E’ vitale “garantire il ritorno a condizioni di vita normali per aiutare coloro che hanno perso i propri cari, bambini orfani e prigionieri che hanno trascorso anni in detenzione”. Risulterà strategico “unificare la spina dorsale della Siria (il cruciale corridoio Aleppo-Hama-Homs-Damasco-Daraa) e le sue ali (la zona costiera del Levante e la regione mesopotamica a est dell'Eufrate) in un'unica struttura di sicurezza, costituita dai gruppi di resistenza insieme al personale militare leale, formalizzati in una necessaria gerarchia militare”. La nazione e la sua gente necessitano di rilancio economico e quindi serve “recuperare i beni saccheggiati dai clan Asad e Makhlouf; eliminare gli embarghi imposti dalla politica internazionale; sostenere agricoltura, industria e produzione energetica. La Mezzaluna fertile in cui una parte della Siria s’estende può favorire riforme avanzate di produzione biologica, la pacificazione territoriale e il bisogno di lavoro potranno offrire manodopera disponibile a investimenti d’impresa, mentre la posizione geografica fa del Paese un corridoio ottimale che collega la penisola araba al Mediterraneo e via terra attraverso la Turchia all’Europa. Il territorio pianeggiante ridurrà i costi del trasporto tramite l’implemento d’infrastrutture stradali e ferroviarie, utili a rilanciare turismo culturale e religioso, visto il patrimonio artistico di ampie aree”.
C’è da sorridere all’ottimismo di Davutoğlu che comunque non perde il passo del realismo politico. Ricorda che “Senza un abbraccio di pluralismo confessionale, culturale, politico tutto può restare un sogno”. Serve prestissimo “stabilire un ordine pubblico civile, riattivare il sistema giudiziario, promuovere la riconciliazione nazionale e redigere una nuova Costituzione. Provvedere a un giusto processo ai responsabili di crimini contro l'umanità, ed evitare le rese di conti con uccisioni extragiudiziali capaci di continuare a frantumare la popolazione”. Così la geopolitica internazionale può venire incontro all’auspicabile rinascita siriana “eliminando gli embarghi, riaprendo le ambasciate, sanando l’irregolarità di occupazioni come quelle israeliane nella regione di Quneitra e sulle alture del Golan. A Sharaa e alla sua cerchia ristretta dico: questa vittoria non appartiene solo a voi, ma anche alle centinaia di migliaia di martiri che hanno dato la vita durante la guerra. Resistete alla tentazione di isolarvi in palazzi lussuosi. Rimanete tra il popolo. Ai Paesi della regione e ai loro leader, dico: la Siria appartiene ai siriani. Non create sfere d’influenza tramite pregiudizi etnici. L'Iran, che ha sostenuto il regime di Asad, deve evitare di esacerbare il caos. Garantire una nuova amministrazione che stabilisca stabilità diventa anche un suo interesse. Per Stati Uniti e Russia il compito più urgente è quello di ottenere una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'Onu che tuteli l'integrità territoriale siriana. Il contributo più significativo di Mosca alla pace interna consisterebbe nel sollecitare l’ospitato Asad ad astenersi da dichiarazioni e azioni che potrebbero danneggiare questo cruciale processo di transizione”. Quindi il suo Paese: “Quando si parla di Ankara il rapporto fra Turchia e Siria è molto più importante di un semplice legame di vicinato; esso è fondato sulla fiducia reciproca e sul rispetto. La Turchia dovrà agire con un piano strategico chiaro e si schiererà dalla parte della Siria, favorendo un futuro pacifico e prospero. La Turchia non ha mai cercato di ottenere il dominio politico o un guadagno economico dalla Siria e non lo farà mai (sic!)”. Chissà se il nuovo corso di Damasco ci crede, e se presterà orecchio alle riflessioni del superato visir di Erdoğan.