lunedì 31 marzo 2014

Erdoğan, il cammino alla presidenza passa per la via kurda


Festeggiano gli erdoğaniani perché un pezzo della grande paura sembra alle spalle. Festeggia il clan familiare di Recep Tayyip, con Emine la consorte velata, e Bilal il figliolo delle imbarazzanti intercettazioni a tema miliardi. Tutti stretti sul palco. Applauditi dalla folla proprio nell’Istanbul dai due volti che ha provato a mettere un altro uomo al posto del sindaco dell’Akp. Ma Kadir Topbaş pare debba essere primo cittadino, come Melih Gökçek nella capitale. A suon di consensi e di forzature, basate su schede contestate, secondo gli oppositori anche contraffatte, in un clima accesissimo. Infiammato da pressioni e intimidazioni verso elettori e osservatori internazionali, cui in vari casi s’impediva o ritardava l’accesso nei seggi. Molti episodi sono stati lamentati nelle metropoli e in parecchi centri del sud-est con denunce provenienti da chi, come il Bdp, lì è primo partito. Non è normale, però non c’è da meravigliarsi perché attorno a questa scadenza convergevano un’attenzione e una tensione altissime. Il premier ha evitato crollo e tracollo, suo prima che del partito. L’allarme rosso sarebbe scattato con una perdita di 8-10 punti di percentuale, che pur consentendogli il primato ne avrebbe di molto ridimensionato le ambizioni.

Il blocco d’ordine, la voglia di sicurezza e il sogno turco di espansione e benessere, capitalistico, mercantile, consumistico, d’impianto statale o liberista importa parzialmente - anche perché secondo il costume occidentale i businessmen del Bosforo e dell’Anatolia fanno profitti anche con lo stato e gli altri stati - ha avuto la meglio sulle diverse voci. Anche i candidati alternativi delle due piazze maggiori: Mustafa Sarıgül a Istanbul, e Mansur Yavaş ad Ankara, sono dipinti dalla stampa repubblicana rispettivamente come un populista e un nazionalista seppur moderato. Due tratti che cercavano di erodere la popolarità di Erdoğan nel suo stesso bacino elettorale. E visti i testa a testa per un aspetto ci sono riusciti. Il ceto medio metropolitano che s’acquatta col più forte, potrebbe lasciare il sultano alle sue disgrazie se la vita politica del leader dovesse complicarsi. Ma c’è una Turchia che non l’abbandona. Quella su cui dodici anni di pragmtismo fideistico-amministrativo s’è radicato a fondo, legando un modello a uno status quo che cementa botteghe, ruoli, impieghi, sistemazioni personali e di gruppi, un mondo che i “tengo famiglia” di Turchia non vogliono gettare al vento. Anche perché ricordano da dove venivano.

Solo a metà degli anni Novanta l’uomo della strada turco, conosceva condizioni di vita meno gradevoli in città come in campagna. Un aspetto che continua a tener presente quando deve recarsi nell’urna. Quest’uomo ha visto periodi in cui tale prerogativa era congelata, e fra l’autoritarismo delle divise e quello oggi proposto dal sultano a suon di divieti a stampa e social network, o di orientamenti islameggianti su vestiario e cibo, quest’ultimi sembrano terribili solo alle giovani generazioni che non hanno incrociato i generali. Ovviamente, assieme alla polizia, agli apparati dell’Intelligence l’attuale governo sta egualmente utilizzando simili servigi. Però. Però il tema della censura e del pericolo della democrazia non hanno tuttora pagato. All’appuntamento presidenziale di agosto, ai risvolti costituzionali di quella scadenza, a Erdoğan, servono però numeri e l’attuale 44 o 45% non gli garantisce certezze. Pur avendo come potenziali avversari figure di calibro minore, egli dovrà contare sul 50% più un voto,  che difficilmente verranno dai serbatoi socialdemocratico e nazionalista o dalla polverizzata componente marxista. Resta il Partito della Pace e della Democrazia, che ha riscontrato ottimi risultati nell’urna.

Il suo patrimonio elettorale è attorno al 5% nazionale, che concentrato nei distretti del sud-est produce gli altissimi effetti a cifra doppia. Quella fetta di cittadini consentirebbe a Erdoğan l’incoronazione a presidente, e coi dovuti accordi potrebbe anche trasformare in senso presidenzialista la Carta Cotituzionale. Un’operazione bloccata quattro anni fa dallo 0,20% politico che gli mancò per un en plein assoluto e che venne anche ipotizzata da praticare con l’aiuto del Bdp, per poi fermarsi attorno a taluni punti dibattuti nella Road Map di Öcalan. Tutto ciò rientra in gioco. I poco amati kurdi diventano una pedina importante per le sorti della nazione turca, piaccia o meno a kemalisti e islamici. 

domenica 30 marzo 2014

Amministrative turche: il sultano si flette, ma prosegue


Erdoğan vince, convincendo solo parzialmente, anche se stesso. O perlomeno così fa crede alla prima dichiarazione delle ore 21: “Si poteva fare meglio”. Cerca probabilmente di mascherare con un semi sorriso il superamento d’uno scoglio. Perché se gli va bene - e così ormai pare - l’Akp porta a casa un decoroso 47%. Se va male un 44% che è un calo di 6 punti di percentuale sul massimo risultato del partito: 49,83% ottenuto alle politiche di due anni or sono. Ma quella non era epoca di scandali (perlomeno conosciuti), di contestazioni (almeno non clamorose e di massa), non deflagravano lotte islamiche intestine e non era in atto il crescendo autoritario che l’ha reso nemico numero uno della democrazia, per un pezzo della Turchia. Come sempre lo sostiene l’Anatolia profonda che è la forza del suo blocco: il partito spopola a Konja (65%), Malatya (64,57%), Kayseri (59,68%), Sivas (58,12%). Si prende 48 province e anche le città simbolo:  Istanbul, dove Kadir Topbaş supera il repubblicano Mustafa Sarıgül (sebbene ci siano polemiche e contestazioni su molte schede), e la capitale Ankara con Melih Gökçek, lasciando solo Smirne al candidato del Chp: Aziz Kocaoğlu.

I dati che leggete sono incompleti e passibili di ritocchi di percentuale. Scriviamo attorno a mezzanotte con oltre metà seggi scrutinati (139.000 su 194.499), ma la prima valutazione insiste su una tendenza che da ore si sta confermando. Il Chp resta il secondo partito (25,80%), incamera 15 province, registrando però una flessione notevole sulle velleità di far concorrenza elettorale allo strapotere del sultano. Né con le percentuali di voto, né con uomini carismatici il Cumhuriyet Halk Partisi riesce a scalzare il partito islamico; si vede tallonato dall’ultradestra nazionalista del Mhp che sale al 18,03% (aveva il 13% alle politiche del 2011) e conquista 8 province. Come efficacia va meglio il partito filo kurdo Bdp che ne ottiene ben nove, eleggendo a Diyarbakır (58.99%), Gültan Kışanak, una delle poche donne a guidare una città di medie dimensioni. A Gaziantep, l’Akp elegge Fatma Şahin. Il blocco kurdo regge benissimo, vince anche nelle aree di: Iğidir (44,56%), Batman (56.7%), Şırnak (60,75%), Van (49,86%), Siirt (49,28%), Hakkari (63,23%), Bitlis (45%), Mardin (54,30%). Dersim (42,84%) punte sino 98% a Silvan. L’unica defaillance a Bingol dove Barakazi dell’Akp surclassa Çakabay incamerando il doppio delle schede. Le ore che passano confermano la tendenza.

Ventitre minuti dopo la mezzanotte le agenzie battono questa perentoria dichiarazione di Erdoğan: Settantasette milioni di persone dovrebbero sapere che la nuova Turchia oggi ha vinto”. Allegano una foto ancora più significativa: il premier porta sul palco a festeggiare anche il figlio Bilal, partecipe del discusso scandalo finanziario. La sua nuova Turchia rivendica tutto il passato consolidato, anche quello discusso e discutibile. 

sabato 29 marzo 2014

Elezioni turche, fango mediatico incrociato


Le amministrative che da domani potranno segnare il volto del primato politico in Turchia (Erdoğan proseguirà spedito il cammino di potere o verrà indotto dal suo stesso partito a un pensionamento anticipato al di là della candidatura presidenziale?) hanno visto negli ultimi giorni di campagna elettorale uno scatenamento mediatico non indifferente. In cima i due maggiori quotidiani: il laico e kemalista l’Hürriyet Daily News e il para islamico di sponda e denari gülenisti Todey’s Zaman, ma pure il Milliyet, il Sabah Yayincilik e altri  con scivolate di gossip di stile italiano. Alcune più piccanti: riguardo a già note videoregistrazioni su intrattenimenti extraconiugali di avversari politici volutamente inserite sul web dallo staff del premier. O chiacchiere di bazar: la sua voce in falsetto (troppi comizi fanno male) mostrata sulle ultime piazze che ne sminuivano l’approccio carismatico da padre virile della patria. Ogni pretesto è buono per colpirsi vicendevolmente. Il governo ha risposto con le sue tivù per le rime e soprattutto ha picchiato duro dopo Twitter anche su You Tube. A dimostrazione di come i social network, pur vantaggiosi economicamente per chi ne possiede copyright e diritti di gestione, rappresentano un veicolo di diffusione di quell’informazione alternativa, autoprodotta o con poche finanze, che li utilizza per la propria causa. Fin che può farlo.

Fra le stoccate quella sulle reali o presunte registrazioni rubate (se davvero le voci provenivano dallo studio del ministro Davutoğlu i suoi avversari politici sono piazzati benissimo) o intercettate dai potenti mezzi statunitensi di cui dispone il movimento Hizmet, sceso apertamente in contrasto politico con Erdoğan, non è dato sapere. Se riuscirà indagherà la magistratura e lo sta facendo. Con quali ingerenze della politica è storia di tutte le procure del mondo, come dimostrano panorami vicini e lontani non solo ad Ankara. Pare che in quell’incontro del ministro degli esteri turco con il sottosegretario del suo dicastero Feridun Sinirlioğlu, il capo dell’Intelligence (MİT) Hakan Fidan, il responsabile dello staff militare generale Yaşar Güler si discutesse di una possibile incursione in Siria. Probabilmente non solo come risposta all’invasione dello spazio aereo (e all’abbattimento) del Mig di Damasco avvenuto nella scorsa settimana, ma per un uso nazionalistico di questo gesto che potesse offrire una chance elettorale al premier. Questo scoop è stato utilizzato nei comizi del principale avversario dell’opposizione, il segretario del CHP  Kılıçdaroğlu che accusava Erdoğan di volersi fare strada col sangue dei militari turchi. Il quadretto, appeso sopra, sotto o di traverso al muro della propaganda elettorale lascia una scia di strumentalità.


Non che il premier e la casta militare - con cui lui ha un rapporto di passato odio e attuale amore, non foss’altro perché braccio armato di quella repressione che sta apprezzando e praticando sempre più - non potrebbero venir stuzzicati da simili intenti. Ma proprio sulla Siria Erdoğan ha iniziato a commettere quegli errori in politica estera che, uniti alla più recente crisi interna, dal 2011 a oggi hanno completamente rovesciato la sua popolarità anche internazionale. L’intervento armato contro Asad, fino a inizio autunno scorso sbandierato dal grande tutor statunitense, appare derubricato dai programmi Nato, nonostante i drammi di morte, emergenze sanitarie e alimentari restano tutti, come ci ha narrato chi è a contatto con quella tragica realtà (cfr.  Ayşe Gökkan, il sindaco che contrasta il muro). Sulla rivelazione del progetto d’intervento “limitato” all’area della tomba di Süleyman Shah (per farci cosa? conquistarla, liberarla?), sta indagando la magistratura che ha fermato e interrogato un editorialista della catena mediatica gülenista perché c’è il sospetto che sulla notizia, reale o falsa, lavorassero uomini di Fetüllah e Servizi stranieri. L’ha affermato lo stesso presidente Gül che ovviamente mantiene una posizione ufficiale.

Però già si sollevano dubbi sull’ispirazione di queste mosse giudiziarie che, secondo alcuni settori della comunicazione (Samanyolu Media Group), potrebbero proseguire quel clima censorio mostrato a tuttotondo dal governo, ma diretto verso la scorsa primavera proprio contro l’ingombrante movimento Hizmet sempre più presente nella politica nazionale. Rumors dicono che da questa sponda partono indicazioni per appoggiare col voto il partito repubblicano e, addirittura, l’oltranzismo del MHP per fra traballare le certezze del sultano. Il tam-tam propagandistico di ogni sponda è in grande attività in queste ore. E non si placherà neppure dopo lo spoglio elettorale.

venerdì 28 marzo 2014

Rezan Zuğurli, il cuore nella lotta


LICE – “Se il cuore del Kurdistan è Amed, il cuore di Amed è Lice perché su queste montagne è nato il PKK”. Non ha timore di richiamare un passato che è tuttora vivo Rezan Zuğurli, una venticinquenne che presenta la propria candidatura nel paese citato, cinquemila anime, triplicate nell’area attorno, sebbene dei 56 villaggi d’un tempo ne siano rimasti solo 7. Dopo le devastazioni degli anni Ottanta e Novanta qualcuno potrebbe venire ricostruito soprattutto se il piano di pacificazione porterà entro il 2015 anche la liberazione di Abdullah Öcalan, come ha rivelato di recente il deputato BDP Pervin Buldan. Speranze per allontanare lo spettro di nuovi soprusi. Il ricordo dell’operato dell’esercito turco è ben visibile in agglomerati che si chiamano Goç-xar, in quel che resta delle sue case e degli abitanti, prevalentemente contadini. Lo narra una famiglia superstite. “L’esercito arrivava in forze a notte fonda, setacciava strade e case, riuniva la gente e intimava d’andar via. Se qualcuno restava gli bruciavano casa e stalla davanti agli occhi, con gli animali dentro”. Le deportazioni forzate, non sono scritte in nessuna storia recente dello stato turco né kemalista né islamico. Ogni modello cerca di nascondere l’ultima pulizia etnica della nazione anatolica facendo finta che non sia accaduto nulla.

Invece ciascun villaggio della zona ha vittime e sfollati, finiti magari sul Mar Nero, allevatori e montanari spediti a pescare. Molti dei mariti, figli, fratelli e sorelle che negli anni Novanta imbracciavano il mitra giacciono sulla collina di Sehîd Amed, la Spoon River dei martiri kurdi. Decine e decine di marmi bianchi allineati per un totale di 220 miliziani del PKK vittime di scontri armati o d’imboscate degli agenti del Mıt e dei reparti antiguerriglia.  Hesendîne Pasur, 1998, è uno dei luoghi di morte che ricorre maggiormente sulle lapidi che guardano imponenti montagne innevate anche ora che il Newroz è sbocciato. A vigilare sulla collina della memoria c’è un manipolo di uomini. Turnano giorno e notte per evitare che l’esercito, sempre presente nel territorio, giunga a distruggere le tombe. E’ già accaduto perché l’intento di ogni governo turco dagli anni Novanta a oggi è stato quello di rimuovere da qui gente e ricordi, specie se identitari e combattivi. La richiesta di ricostruzione dei villaggi avanzata dai sindaci del BDP trova ostacoli nelle autorità centrali che non vogliono ripopolare i luoghi. “E’ il maggior problema con cui ci misuriamo - dichiara Rezan Zuğurliquesta è una zona di guerra e d’abbandono”.

“Attualmente la guerra che ci fa lo stato turco è basata sull’oblìo economico, sociale, culturale. Non solo non esistono progetti governativi per quest’area montana (Lice è a 1200 m d’altitudine e ci sono paesi ancora più in alto, ndr), ma le nostre iniziative vengono ostacolate con qualsiasi pretesto autoritario o burocratico. Erdoğan si prodiga a elargire finanziamenti nelle province del suo elettorato (la mercantile Bursa è fra le più premiate, ndr). Qui per strade e scuole facciamo da noi, da qualche mese abbiamo avviato un istituto di lingua kurda; ovviamente il nodo centrale è l’occupazione. L’economia secolare è divisa fra allevamento e agricoltura, ma dal periodo della feroce repressione molte terre ci sono interdette, sono state recintate o vengono controllate dall’esercito, così non si può seminare né pascolare animali. L’attuale generazione non è quasi più in condizione di praticare il lavoro dei padri”. Eppure la giovane sindaco, di cui è scontata l’elezione, perché qui il BDP con cui si candida raccoglie il 95% dei consensi, ha il chiodo fisso di voler rilanciare la vita. “Per noi attiviste, che nel partito portiamo il valore aggiunto della battaglia per la trasformazione del rapporto uomo-donna, è un obiettivo fondamentale”.

“Siamo state e siamo capaci di lottare imbracciando il fucile, sapremo guidare il rapporto verso la trasformazione dei nostri uomini e compagni. Anch’essi sono sotto pressione, il sistema gli propone il millenario schema patriarcale e machista che invece deve cambiare. Cambiare ora, lungo il percorso della liberazione, vale per i kurdi, per i turchi, per i maschi di ogni Paese del mondo. Questo teorizza il nostro partito e questo vogliamo realizzare. Saldiamo tale principio alla necessità del ritorno della nostra comunità nella terra d’origine. Poi naturalmente pensiamo al quotidiano: al lavoro e al cibo, alle scuole per la cultura dei bambini, agli ospedali per la loro salute. Un progetto che vorrò attuare è trasformare in centro sanitario un’enorme caserma dove Ankara stipa i soldati che ci controllano. Nella zona sono 10.000, quasi uno per abitante… Li hanno inseriti in quel grande edificio che un tempo era un dormitorio, uno spazio con una funzione sociale e non repressiva. Noi vorremmo tornasse com’era, lasciando Lice in pace alla sua gente, anche a quella che è stata deportata e non è più rientrata. Vogliamo ricostruire i villaggi e un’esistenza felice. Per tutto questo siamo disposti a lottare, ricreando una continuità generazionale che non dev’essere frantumata”.       

giovedì 27 marzo 2014

Ayşe Gökkan, il sindaco che contrasta il muro


NUSAYBIN - ”Il mondo è un villaggio piccolo e tutto può essere avvicinato” dichiara questa donna, prima cittadina d’un luogo di confine qual è Nusaybin, dove la geometria della geopolitica ha tagliato l’area con righello e accetta. Da una parte Turchia, dall’altra Siria e la comunità kurda a fare i conti con amministrazioni, stati centrali ed eserciti differenti. Eppure fino a un giorno dello scorso ottobre il confine poteva essere varcato facilmente da cittadini e famiglie che vivono qui e là. Certo dalle proteste della Primavera anti Asad e con l’escalation del conflitto siriano le condizioni di vita erano diventate difficili sino a precipitare col drammatico flusso dei profughi. Le cifre ufficiali parlano di tre milioni, per metà bambini e minorenni, ma il numero è ampiamente in difetto. Il governo turco ha inizialmente raccolto in campi d’accoglienza decine e poi centinaia di migliaia di rifugiati, quindi ha posto i blocchi. In zone aperte come il confine che divide Nusaybin fin dentro il suo cuore, la metamorfosi della frontiera è passata dalla simbologia di Turchia e Siria presente sulla nuda terra alle pietre e al filo spinato del muro di separazione.

Iniziato in un’alba dell’ottobre 2013 con squadre di operai al lavoro e i mitra dei soldati minacciosi a controllarli e tenere lontane le proteste della gente che non voleva credere all’insensata separazione. Il muro doveva correre per sette chilometri da ovest a est con un’altezza di circa tre metri. “Fui svegliata dall’allarme dei cittadini – ricorda il sindaco Ayşe Gökkan – e immediatamente corsi sul luogo. I militari facevano un cordone attorno al cantiere dove il numero degli abitanti cresceva. Protestai con l’ufficiale responsabile che mi parlò di ordini del ministero e del governo. Io, però, come autorità municipale ero all’oscuro di tutto, nessuno mi aveva avvertita. Quella barriera avrebbe impedito agli abitanti della città di circolare liberamente, d’incontrare amici e parenti che abitano nell’altro settore. Come un tempo a Berlino. Come oggi a Gerusalemme. Una mostruosità! Così ho deciso di contestare quella  vergogna, attuando uno sciopero della fame. Sono rimasta accanto al cantiere per giorni. Ricevevo visite e conforto da parenti e da tanti cittadini che mi sostenevano nonostante le pressioni e le minacce dei soldati”. 

“Dormivo sotto una tenda, sono stata insultata e umiliata. Di notte i militari illuminavano gli anfratti dove mi ritiravo per i bisogni fisiologici; mi aizzavano contro i cani, ma non ho mollato”. La tenacia di Ayşe, diffusa da numerosi media internazionali, ha limitato l’estensione del muro, lei è convinta che anche il chilometro eretto a minore altezza alla fine verrà abbattuto “Le due comunità non possono rimanere divise, ho interrotto la protesta perché ho ricevuto assicurazioni per una soluzione, se non arriverà sono pronta a ricorrere al Tribunale dell’Aja”. Gökkan è un’attivista combattiva, ha collezionato 150 denunce per azioni di lotta durante una carriera politica non lunghissima. Ora ha scelto di non ripresentarsi al vertice dell’amministrazione in una città dove il BDP raccoglie il 92% di voti, passerà il testimone del collegio a un’altra donna: Sara Kaya. Ribadisce che il partito con qualunque candidato prosegue il progetto non solo di puntare alla carica di sindaco, che elegge a occhi chiusi, ma di raccogliere la collettività kurda e chiunque vorrà unirsi. “La vicenda del muro ha mostrato a tutti gli abitanti di Nusaybin le logiche di divisione del governo Erdoğan che predica in un modo e agisce al contrario”.

“Inizialmente il leader turco sosteneva di comprendere le nostre ragioni, raccontava d’essere stato arrestato e perseguitato, voleva confondere gli abitanti che ora non gli credono più. Negli ultimi cinque anni s’è rivolto solo ai turchi, maschi e islamici. Le persone comprendono che qui non è Turchia e là (e indica oltre la finestra del suo ufficio, ndr) non è Siria. Siamo un tutt’uno. Etnìa, religione, stato non sono importanti, il nostro programma di liberazione dei popoli, come testimonia il progetto della Rojava, è aperto a tutti”. Purtroppo neppure questa struttura politica, che per un buon periodo ha preservato i kurdi dai massacri, è sicura viste le incursioni jihadiste che dalla scorsa estate imperversano sul versante interno della Rojava. Né Gökkan può far granché per la tragedia dei profughi. Riprende “Non lontano da qui c’è un campo con 8.000 persone che necessitano di aiuti. Ma esistono campi molto più grandi in condizioni disastrose dove si sono verificati casi di suicidio. Come sindaco non posso far nulla; non ho competenze, decidono ad Ankara prefettura e governo. Entrambi si lavano la coscienza delegando all’UNHCR”.

“Avete visto i camion coi viveri davanti all’accesso del confine su cui vigila l’esercito turco; se i militari non consentono il passaggio i Tir restano bloccati per giorni con tutto il loro carico. Per non parlare dei medicinali salvavita e le sacche di sangue per le trasfusioni che devono essere consegnate in tempi brevissimi. Invece…” Scuote la testa e rilancia “Nei mesi scorsi alcuni concittadini mi rivelavano i loro viaggi solidali: attraversavano la frontiera verso i campi profughi più vicini portando masserizie e ciò che poteva alleviare la penosa quotidianità dei profughi di qualunque etnìa, siriani, kurdi, armeni, aleviti. Questi tragitti d’aiuto sono quasi scomparsi perché la terra di nessuno è stata disseminata di mine antiuomo. Ci sono state vittime delle mine oppure dei cecchini di cui non conosciamo la canna del fucile”. Jihadisti, siriani, turchi, contractors non è facile scoprirlo, ma per il sindaco non è questo il problema “Il conflitto incarognito ha prodotto un’emergenza straordinaria, migliaia di bambini muoiono di morbillo e ora anche di polio, servono medicine per alcune malattie infantili. Davanti a un simile strazio i governi e le organizzazioni internazionali non possono più tirarsi indietro”.