martedì 28 gennaio 2014

Mohamed Mursi: imputato ottantatre


L’imputato numero 83 urla da dentro un cubo di vetro. Stavolta indossa l’abbigliamento bianco dei detenuti e grida d’essere il presidente. L’aveva già fatto nello scorso novembre stretto in un anonimo ma dignitoso completo grigio, sempre in cattività. Ora nessuno sembra ascoltarlo. Nelle immagini trasmesse in differita dalla tivù di Stato sembra un leoncino in gabbia, cui né giudici né giornalisti presenti in aula prestano attenzione. In una sola occasione riceve risposta, quando chiede al togato: “Chi è lei?” aggiungendo: “Sa chi sono io?”. Laconica replica: “Io sono il capo della Corte Criminale”. L’organo che accusa il dottor Mohamed Mursi, leader della Fratellanza Musulmana, eletto presidente della Repubblica d’Egitto a fine giugno 2012 con oltre 13 milioni di voti, di collusione con forze straniere durante la rivolta che rovesciò Hosni Mubarak. Un’accusa per la quale rischia la pena capitale. La stessa condanna (suffragata anche dai massacri dei 18 giorni di ribellione di piazza Tahrir) cui l’ex raìs era scampato in virtù dell’età. Ruoli rovesciati. Nel ribaltone egiziano che rilancia alle stelle le stellette si vocifera d’una prossima liberazione del vecchio faraone, possibile regalo del futuro presidente Al Sisi.

Mursi è anche accusato di complotto contro lo Stato egiziano (quello di Mubarak) e per un’evasione di massa dalle patrie galere, realizzata con altri ventimila reclusi nei giorni dei tumulti della “Primavera”. Secondo il pm fuggì aiutato da militanti di Hamas ed Hezbollah, ben 800 miliziani palestinesi e libanesi che s’infiltrarono nel Paese usando armi per un’azione che provocò la morte di quattro agenti. Tutto ciò è un’aggravante che conferma la linea della messa al bando della Confraternita “per pratiche terroriste”. Dalle segrete alessandrine di Borg Al-Arab Mursi è stato trasportato in elicottero sin dentro l’accademia di polizia cairota dove era allestita l’aula giudiziaria. Luogo presidiato da migliaia di uomini in nero che hanno formato una rete fittissima di posti di blocco, rafforzati da cavalli di frisia e filo spinato. Un filtro impenetrabile per qualunque manifestazione di solidarietà verso il presidente scippato e ora recluso. Secondo alcuni commentatori l’udienza di ieri non aveva un valore giudiziario ma mediatico. Serviva a denigrare ulteriormente la leadership islamica, che conta fra gli accusati El-Khatatni, El-Erian, El-Beltagy, mostrandola fra le sbarre snobbata dalla Corte. La Corte si riunirà di nuovo il 22 febbraio.

Pur non riconoscendo legittimità ai magistrati stavolta i Fratelli hanno scelto di farsi difendere, da un pensatore islamico, Mohamed Selim El-Awa. Intanto altri attacchi jihadisti sono andati a segno: il generale Mohamed Saeed capo dell’Ufficio tecnico del Ministero dell’Interno e collaboratore del ministro Ibrahim è stato colpito a morte da un killer. La rivendicazione, anche in questo caso, è giunta a nome del gruppo filo qaedista Ansar Beit Al-Maqdis. Uno dei volti dell’odierno Egitto.  

lunedì 27 gennaio 2014

L’incerto cammino egiziano fra paura e paranoia


La paura della galera e di quel che vi accade dentro vince i cittadini d’Egitto, prima e più delle anto-bomba simboliche o pilotate. Le esplosioni mortali nell’anniversario d’una Rivoluzione scippata, calpestata, trasformata in regime militar-poliziesco assegnano al nuovo raìs il primato di presidente in anticipo sull’annuncio dell’uomo dell’interim Adly Mansour. Questi ieri ha dichiarato ufficialmente che entro tre mesi il Paese avrà un nuovo Capo di Stato, inutile aggiungere che si chiamerà Al Sisi, il salvapatria. Le code alle urne saranno una formalità burocratica dal buon valore mediatico. Se, come nel referendum costituzionale voterà molto meno della metà degli elettori, poco male: la facciata democratica sarà salva. Si segue questa via per il popolo, per il suo riscatto, per non cadere nella mani di islamisti e rivoluzionari. Accanto a chi vi aderisce per scelta ideale e chi perché segue l’onda degli eventi imposta con la forza finisce anche una massa - grigia o colorata poco importa - che si autolimita per il terrore. D’essere accusato di terrorismo o di sostegno anche solo ideale a esso.

Il terrore d’essere marginalizzati, non tanto per via dov’è impossibile riunirsi o esporre manifesti, ma ovunque ci si trovi fosse pure la moschea, il mercato, l’awha. E direttamente perseguitati, come accade a giornalisti noti o giovani freelance finiti nelle mani dei mukhabarat. Anche fotografare in strada, non chi combatte a suon di pietre, diventa quasi impossibile. I testimoni e i potenziali documenti - filmati, scritti o racchiusi in uno scatto - risultano ingombranti e insopportabili a chi ripropone una nazione dal pensiero unico e dalle facce pronte solo a osannare e obbedire. E a chinare la testa. L’esatto punto di partenza di quello che è stato il vento di Primavera, un passo indietro lungo trentasei mesi tornato alla notte di piazza Tahrir che fece tremare e disarcionò Mubarak, l’intoccabile. La sfinge amata dal clan e dai compari di affari e torture, dal protettore statunitense e dai governanti d’Israele, dalla Lega Araba e dalla dinastia saudita. Quell’irrefrenabile voglia d’un pezzo d’Egitto di scrollarsi di dosso l’angoscia e riprendersi dignitosamente la vita pare azzerata.

Prevale la naturale autodifesa del silenzio che preserva dalla delazione, tornata ampiamente di moda. Fra quello che realmente accade: cellulari e linee internet sotto controllo, seppure certe apparenze vengano salvate (la Fratellanza è fuorilegge, ma il loro sito è tuttora online come alcuni website oppositori), pestaggi in strada di persone riconosciute o sospettate d’aver partecipato a cortei o sit-in antimilitari, e l’escalation che qualcuno teme in fatto di sequestri illegali e conseguenti sparizioni a opera degli apparati di sicurezza corre il filo sottile che separa il timore dalla paranoia. Nell’uno e nell’altro caso slegati da contorni plumbei che pure originano comportamenti catacombali e di diffusa metamorfosi anche fra soggetti non esposti da militanza o ruoli professionali e sociali. Il tassista, la guida turistica, il mercante di agrumi, il ricercatore universitario si negano al colloquio sul presente e futuro prossimo. Sperano di continuare a sopravvivere, se Dio vorrà, senza far trapelare emozioni. A meno che non siano feloul, la massa egiziana ora in festa che osanna il nuovo generale e pensa di riabilitare il vecchio raìs, mai morto. 

mercoledì 22 gennaio 2014

Ginevra 2, il futuro siriano passa per il regime di Asad


Se a Montreux i numi tutelari della conferenza internazionale denominata “Ginevra 2” - il russo Lavrov e lo statunitense Kerry - permettono al segretario Onu Ban Ki Moon di rilanciare i colloqui per una soluzione pacifica e politica ai dolori della Siria (130.000 vittime, 500.000 feriti, oltre due milioni di profughi) c’è da riflettere sull’effettiva efficacia dell’operazione. Primo elemento di debolezza è l’assenza dell’Iran al tavolo dei colloqui. Un passo claudicante con cui il blocco occidentale ha cercato di venire incontro al volere d’un frammentatissimo fronte anti Asad. Una mancanza dell’esponente iraniano non avvantaggia la diplomazia statunitense, che col nuovo corso di Rohani ha avviato un dialogo, e che attraverso le vicende siriane può far seguire accordi su un terreno che ha tenuto, e tiene, in sospeso gli equilibri internazionali nell’area: il piano nucleare di Teheran. In un auspicabile prosieguo dei rapporti la voce iraniana non potrà mancare perché riveste un ruolo geopolitico centrale, che coi fedelissimi combattenti libanesi di Hezbollah giunge sin sulla linea del fuoco. Sul fronte opposto va notato un altro pesante vuoto: il Fronte Islamico, che nella galassia dei ribelli anti regime rappresenta il fulcro della guerra jihadista.

Il Fronte considera qualunque trattativa un tradimento del proprio programma, si mostra totalmente chiuso al più logico pragmatismo guerriero, oltre che cieco e sordo nei confronti della popolazione che rappresenta o dice di rappresentare. I jihadisti marciano verso lo Stato Islamico del Levante e non vogliono interruzioni di sorta. Se hanno usato strumentalmente armi chimiche, se hanno subìto le torture poliziesche recentemente denunciate da Cnn e del The Guardian, se anche loro cavano occhi e tagliano gole, tutto rientra nell’immenso e crudele buco nero che è diventata la guerra civile e mercenaria siriana. Anche altre voci anti Asad hanno criticato il nuovo passo diplomatico, parlando di suicidio politico dell’opposizione nell’accettare colloqui con un regime che si può solo abbattere. Ma come? Da mesi i ribelli tentennano, l’uso della linea del terrore incentrata sulle autobomba a Damasco e nella stessa Beirut ufficiale (Hamra) e in quella sciita (Haret Hreik, è di ieri l’ultima deflagrazione mortale) non sta pagando. L’esercito lealista resiste e, dossier tortura permettendo, Nato che sino allo scorso settembre sembrava alle porte è stato fermato dal tutor moscovita di Damasco. E poi lo stesso presidente-dittatore ha mostrato duttilità nell’accettare i sopralluoghi nei siti dell’armamento chimico da smobilitare e smobilitati.

Oggi Asad è molto più forte dei mesi scorsi. Difficilmente Lavrov e Kerry medesimo, ieri plateale e volutamente retorico, consentiranno un suo abbattimento nonostante i tanti nemici interni ed esterni che ne ricordano i massacri popolari. Una cospicua parte della gente siriana, non solo alewita, continua a sostenere Asad. Per interesse, opportunità, fede politica, poco importa. Sono fattori che hanno consentito a Muallem, il ministro degli esteri siriano presente a Montreux, di fregarsene del protocollo e straparlare per 25 minuti. Muallem ha puntando il dito sui colleghi occidentali che avrebbero “il sangue siriano sulle loro mani”, ovviamente per l’armamento e il sostegno finanziario offerto ai ribelli ormai da oltre un biennio. L’altro monito ha riguardato la futura leadership nazionale: una decisione che spetta esclusivamente ai siriani, fuori da cambi di regime imposti col terrore e l’invasione. Né Iraq né Libia, dunque. Ammesso che fra i vertici dei Paesi Nato qualcuno pensi oggi di poter ripetere imprese tanto destabilizzanti per il quadro internazionale che si vuole ridisegnare. Simili spettri d’ingovernabilità fungono da monito ai think tank della politica mondiale per valutare come condurre un dopo Asad. All’orizzonte di possibili elezioni a giugno non c’è nessuna figura che possa rappresentare la nazione. Perciò: Asad o ancora guerra. 

lunedì 20 gennaio 2014

Fratellanza egiziana, l’anno logorante del potere


Errori, ingenuità, congiura e repressione. Tutti concetti che s’addicono ai mesi pericolosamente vissuti dalla Fratellanza Musulmana d’Egitto durante la guida d’un Paese che gli si è rivoltato contro. La vulgata diffusa sul governo dell’Islam politico dai media mainstream è ricca anche di notizie molto imprecise, non sempre in buona fede.

Economia allo sbando - Un’economia bloccata da trentasei mesi di rivolta e dall’uso che il capitalismo globale ha fatto della Primavera egiziana è una precondizione che nessuna analisi a posteriori può tralasciare. Nel 2011 la voce finanziaria della nazione contava 36 miliardi di dollari, crollati a 15 miliardi nel giugno 2013. Prendiamo alcuni dati dal lavoro documentario di Daniela Pioppi e Maria Cristina Paciello, rispettivamente ricercatrice de “La Sapienza” di Roma e docente alla Cà Foscari di Venezia. La volatizzazione di capitali esteri ha contribuito all’aumento della disoccupazione, all’incremento dell’inflazione e alle manovre sul rialzo del prezzo delle derrate alimentari. L’antico sourplace attorno al quale s’era retto il regime di Mubarak nel non introdurre né sostanziali riforme e neppure garanzie per un’equità sociale è stato ereditato sia dal governo provvisorio dello Scaf (Consiglio Supremo delle Forze Armate) sia dall’esecutivo Qandil. Quest’ultimo, dall’estate 2012, ha iniziato a porsi il problema dell’aggravio dei debiti energetici scaturito dall’impasse dei prestiti.

Aiuti interessati delle petromonarchie - La questione energetica è stata un pesante circolo vizioso su cui si è giocato un aspetto della partita politica interna. La monarchia saudita di concerto con gli Emirati Arabi Uniti e Kuwait, che dal golpe bianco del luglio 2013 stanno elargendo tranche dei 12 miliardi di dollari promessi, hanno a lungo usato la forza di tale prestito per direzionare la situazione interna egiziana. Che nel settembre-ottobre 2012 poneva problemi sul fronte energetico per continui black-out, carenze di benzina con estenuanti code ai distributori,  episodi d’imboscamento di carburante da parte di compagnìe di distribuzione. L’Egyptian General Petroleum Corporation, che registrava una flessione nelle eportazioni s’è infilata in una sorta di gara con le multinazionali del petrolio (Bp, Eni, Dana Gas) nell’acquisto di idrocarburi a prezzi di mercato aumentando ancor più il debito energetico nazionale (6,2 miliardi di dollari). La citata manovra di Qandil, volta a contenere questo buco nero tramite la sospensione dei sussidi per il carburante, è diventata altamente antipopolare, ma ha seguìto un percorso già avviato dagli ultimi giorni di governo della giunta Tantawi (luglio 2012) prima del passaggio di testimone.

Ingenuità amministrative – E’ stato, comunque, il premier islamico a tirarsi dietro l’ira della gente sino a giungere a ribellioni, come quella dei pescatori di Port Said e all’autogestione locale, nelle prime settimane del 2013. Nel suo ferreo credo burocratico Qandil procedeva guardando ai bilanci d’uscita presentati dal ministro tecnico delle finanze. Ne scaturì un ulteriore autogoal: la chiusura degli esercizi pubblici alle ore 22 per risparmiare energia elettrica che gli fece piovere addosso la rabbia di avventori e commercianti. Se a ciò si somma la linea d’una maggiore tassazione che dai generi voluttuari (sigarette, alcolici) si rivolse anche a prodotti agricoli (pesticidi, fertilizzanti), il rigetto della figura del premier nell’immaginario popolare raggiunge l’apice. Ben più inquietante era stata l’ingenuità che ha caratterizzato il procedere del braccio politico della Confraternita, il Partito della Libertà e Giustizia dalla sua nascita (21 febbraio 2011) ai mesi in cui, stravinte le elezioni col 37,5% dei consensi, rimise in discussione l’iniziale disimpegno per la presidenza della Repubblica. Una volta ottenuto anche quel prestigioso traguardo il Fjp si è barcamenato in tentativi di dialogo con gli avversari per restarne paradossalmente sequestrato.

Dilettantismo, ambiguità, bugie mediatiche - All’avvio della sua presidenza Mursi non si mostrava come un accaparratore di cariche. In più occasioni, durante la controversa formazione dell’Assemblea degli esperti che doveva riformulare la Carta Costituzionale ha invitato i nomi noti della politica laica (El-Baradei, Moussa, Sabbahi e i loro entourage) a contribuire a un percorso unificante, ottenendone il rifiuto. Mursi ha ricalcato l’ambiguità con cui movimento e partito islamici s’erano posizionati verso i feloul dell’antico regime durante tutti i mesi del 2011, rafforzando questa tattica in base al prevalere delle posizioni conservatrici di Al-Shater e Badie sui riformisti Habibi e Abol Fotouh poi espulso. Per tenere fede a tali aperture l’esecutivo Qandil affidava un ristretto numero di dicasteri (cinque e oggettivamente minori) a politici della Fratellanza, tutti gli altri erano occupati da tecnocrati. I rimpasti di gennaio e maggio 2013 portarono a 10 su 35 i ministri della Confraternita, come sempre 10 su 27 furono i governatori inseriti nell’ammistrazione locale. Né risulta essersi verificato un significativo accaparramento di posti di comando nella burocrazia e tantomeno nella giustizia, anzi. Lo spoil-system pro Fratellanza è una delle notizie senza fondamento.

Balbettante gestione politica - Certamente è risultato controproducente avere lasciato in mano ai tecnocrati (di cui occorre non dimenticare una preponderante formazione in epoca mubarakiana) uno dei poteri forti dell’Egitto in divisa: il ministero dell’Interno e la gestione dell’Intelligence. Il cambio dei vertici di quest’ultimo apparato, avvenuto per decreto presidenziale il 12 agosto 2012 (e definito dagli avversari il primo colpo di mano di Mursi per distinguerlo dal decreto costituzionale di novembre 2012) è stata una conseguenza al “pensionamento” di Tantawi. Da lì seguiva l’accordo coi generali “possibilisti” di cui Al-Sisi è l’esponente di punta. Per quell’apertura il generale fu bollato dai tradizionalisti vecchio stampo come islamista. Quest’abbraccio fatale, e quello dei prestiti promessi dalle monarchie islamiche del Golfo, risultano  due errori chiave del presidente. Il quale se avesse potuto orientare altrove la scelta, non poteva certo intervenire sull’essenza del pensiero di soldati e poliziotti, né di chi opera in borghese come agente segreto. Tutti da tre generazioni fedeli a quel tipo di Egitto che non ammette trasformazioni, per non rischiare di perdere salario e privilegi soggetti e di rango.

Regime securitario mai scomparso - La longa manus para poliziesca, raccolta nell’ex Partito Nazionale Democratico di Mubarak, sciolto di fatto ma presente trasversalmente con gli uomini e la filiera di finanziatori (i tycoon securitari come il filo occidentale Shafiq, i magnati amici del “figliol prodigo” Gamal per l’acciaio Ezz, i trasporti Mansour, il turismo Garraneh) costituisce il fantasma del palcoscenico politico egiziano. La sua linea è stata per decenni la diffusione del terrore sino agli ultimi passi della coppia Mubarak-Al-Hadly, che pure non aveva fermato la “rivoluzione del 25 gennaio”. Il programma ha proseguito la corsa coi massacri anti copti del Maspero nell’ottobre 2011, quelli punitivi della tifoseria cairota allo Stadio di Port Said nel febbraio 2012, sino ai giorni della mancata difesa delle sedi della Brotherhood assalite da avversari e provocatori prezzolati e addirittura del Palazzo presidenziale di Itthiadeyah nel dicembre 2012. Quindi gli spargimenti di sangue sono stati direzionati sui militanti della Fratellanza nel luglio-agosto del 2013 e sui manifestanti del movimento Rabaa, fra cui ci sono anche oppositori laici allo stato di polizia. Gli uomini in nero e degli apparati del Mukhabarat hanno proseguito ad agire indisturbati rispondendo a un potere interno, che era tutto fuorché islamico.

sabato 18 gennaio 2014

Kabul, l’occupante assediato nella sua ‘città proibita’


Ventuno persone, tredici stranieri e otto locali, sono le vittime di un assalto avvenuto ieri sera in un ristorante libanese della ‘città proibita’ di Kabul, l’area iper protetta dove sorgono ambasciate e sedi della cooperazione internazionale. Mentre un kamikaze si faceva esplodere sull’uscio, provocando morte e panico, entrava in azione un commando guerrigliero che ha continuato il tiro a bersaglio. L’azione, secondo quanto riferito da alcuni testimoni, è durata una ventina di minuti ed è ascrivibile all’insorgenza talebana che ha voluto vendicare un attacco delle forze Isaf nella provincia di Parwan. Queste, nei giorni scorsi, hanno seminato morte fra i civili compresi sette bambini. Oltre a colpire gli stranieri presenti (fra le vittime occidentali si contano due canadesi, due americani, un britannico, un russo tutti legati all’attività diplomatica) le forze talebane mirano ad alternare il terreno del colloquio e del conflitto nell’anno di transizione in corso. Azioni altamente spettacolari, ricordiamo nell’anno appena concluso quelle attuate nell’area del palazzo presidenziale, all’aeroporto della capitale e presso la Corte Suprema, hanno una funzione propagandistica interna e un monito esterno.

Le forze talebane mirano a influenzare le due le ipotesi che si danno gli occupanti in parziale smobilitazione, posto che le truppe statunitensi resteranno con una quota compresa fra gli 8.000 e 15.000 soldati. La prima è una concentrazione del controllo militar-amministrativo nel luogo nevralgico istituzionale e simbolico che è Kabul, da cui i Taliban sono stati espulsi da tempo. La seconda sarebbe il mantenimento di presidi Nato nelle province dove tuttora sono dislocate le truppe (Herat, Kunduz, Kandahar, Helmand oltre che Kabul). Per quest’ultima ipotesi il ritiro occidentale dovrebbe essere molto più ridotto di quello preventivato, visto le estreme difficoltà di controllo delle province menzionate oltre le mura dei campi base. La prima ipotesi comporta un necessario compromesso con l’insorgenza talebana locale, con quella d’importazione pakistana sostenuta anche dall’Intelligence di Islamabad, e coi Signori della Guerra che s’apprestano a rinnovare la presenza nelle più alte istituzioni afghane, futura carica presidenziale compresa. Inutile sottolineare l’evidente fallimento dell’intera missione Enduring Freedom nella duplice veste militare e politica.

Resta quella diplomatica, vissuta sotto il reale tiro delle armi subìto dal personale di ambasciate e carrozzone cooperativo nella nient’affatto sicura Kabul. Ormai neppure quel quartiere super corazzato, difeso da mura di cemento armato, blindati, cavalli di frisia, costituisce una zona franca per il personale dell’occupazione Nato. Tuto ciò fa crescere lo sgomento anche nella diplomazia Onu, ormai percepita quale nemico da una parte della gente afghana, come ha esternato in un odierno intervento un angosciato segretario generale Ban Ki Moon.