giovedì 30 aprile 2015

Afghanistan, i danni collaterali dell’insorgenza

Chi attenta cosa - I due ultimi grossi attentati in Afghanistan: l’attacco al santuario Dolakai Baba e quello a una filiale della Kabul Bank, che hanno provocato 33 vittime e oltre 100 feriti nella zona di Jalalabad, stanno facendo discutere stampa e politici locali su quale sia la matrice degli stessi. La rivendicazione lanciata via Twitter dal portavoce interno dello Stato Islamico, Shahidullah Shahid, può essere autentica o simulata. Si pensa anche ai talebani del Khorasan, negli ultimi mesi avvicinatisi all’Is, oppure ai talebani di casa. L’accertamento di chi siano mente e braccio esecutivo ha una ricaduta sull’attualità politica per comprendere se nuovi attori si siano impossessati della scena dell’insorgenza terroristica. L’uso di ordigni artigianali (Improvised explosive device) riporta immediatamente alla rete dei talebani interni che dal 2007 hanno introdotto, diffuso e massicciamente utilizzato questo genere di bombe. Tesi suffragata anche dall’obiettivo colpito: fra i morti della Kabul Bank ci sono diversi uomini che erano in fila per il ritiro dello stipendio, si tratta di soldati dell’esercito, pur celati in abbigliamento comune, che da sempre sono un bersaglio. Ma il secondo obiettivo già fa cadere questa pista, visto che i talebani non attaccano i santuari, considerati luogo di fede.

Reclutamento giovanile - Invece componenti del fondamentalismo salafita, che adottano la sigla Is, potrebbero rientrare fra i realizzatori della strage che, dal loro punto di vista, va a punire luoghi blasfemi dove si perseguono pratiche idolatre. Questa linea di scontro era sostenuta da Khadem, leader dei talebani pakistani attivi nella provincia di Helmand, colpito e ucciso per mezzo d’un drone due mesi addietro (le sue vicende le abbiamo ricordate in: http://enricocampofreda.blogspot.it/2015/02/talebani-lattrazione-del-daesh.html). Chi gli è subentrato etichetta le azioni direttamente come Stato Islamico e sta riscuotendo seguito fra le giovani generazioni, sia per simpatie di credo e pure nel reclutamento combattente. Giovanissimi con una pratica di cybertecnologie s’avvicinano alla propaganda del fondamentalismo salafita che viaggia speditamente sul web. Inoltre parecchi commentatori concordano su tale approccio tattico o sull’uso della sigla Is da parte di talebani abili nello sfruttare l’ultimo marchio jihadista per diversificare gli attacchi cui possono contribuire in base a un’acquisita esperienza militare. Secondo l’Unama è possibile che resistenti locali compiano attentati anche con sigle dell’Is per differenziare il panorama dell’insorgenza e non bruciarsi i rapporti con la cittadinanza.

Danni collaterali jihadisti - Nel 2014 i 382 attacchi talebani in Afghanistan hanno colpito in 236 casi obiettivi militari (interni, internazionali, gruppi armati pro governativi) ma hanno, altresì, causato 1682 vittime civili. Un recente episodio, sempre a Jalalabad: per uccidere due militari su un convoglio Isaf sono contemporaneamente morti 8 civili e ne sono stati feriti 15. Operazioni disordinate di questo genere diventano controproducenti per la rabbia che suscitano fra la popolazione. In tal caso la rete dei talebani di casa colpirebbe le truppe - quelle interne o della Nato -, terrebbe alto il livello di paura diffusa fra la gente senza venire additata come diffusore di morte quando provoca quei “danni collaterali”, né più né meno che gli occupanti occidentali. Certo oggi è sempre più difficile verificare l’attendibilità delle rivendicazioni mentre il termine Daesh sta creando un crescente disagio fra gli afghani. I timori più diffusi riguardano un rilancio della militanza più radicale, rivolta alla stessa tribalità etnica interna che può riproporre orrori già vissuti nel periodo della guerra civile degli anni Novanta. Ma il radicalismo jihadista trova uno splendido “alleato” nella prosecuzione delle operazioni militari statunitensi, quelle di cielo coi droni e di terra, con le truppe ufficiali della Nato e ufficiose dei contractors, come conferma anche il New York Times.

venerdì 24 aprile 2015

Aldo dice: ventisei per uno, settant'anni di Resistenza in sei libri (6)

IL SANGUE DEI VINTI, di Giampaolo Pansa
Della nuova fatica di Giampaolo Pansa Il sangue dei vinti (Sperling & Kupfer, 2003) ne è felice esclusivamente la Destra. Quella nostalgica del mai morto fascismo filo e post, che però litanìe simili le aveva già scritte, tanto da offrire al giornalista di Casale Monferrato le fondamenta bibliografiche del suo libro.
E quella “perbenista” che dà più fiato alla revisione della storia. Sul modello delle non nuove teorie di Ernst Nolte (per il quale il massacro di sei milioni di ebrei perpetrato dal nazismo non sarebbe mai avvenuto) si sostiene che il fascismo non è stato una dittatura; non ha seminato morte per conquistare il potere e conservarlo per un ventennio; non ha praticato assassini di massa con le guerre mercenarie e coloniali spingendo poi il popolo italiano nel baratro del conflitto mondiale.
Insomma le pericolose amenità diffuse sulle pagine del Corriere della sera da Galli della Loggia e dagli editorialisti Mieli e Romano, solo per citare i più ostinati manipolatori, che trovano il sostegno anche di riviste come “Nuova storia contemporanea” diretta da Francesco Perfetti.

Ignorare la condanna della storia
Il libro, sull’onda dell’attuale moda revisionista, stravende. Escludiamo che Pansa l’abbia pubblicato per bieco interesse economico: con tutto quel che ha guadagnato, fra attività editoriale e giornalistica, non ne aveva bisogno.  Cerchiamo di capire il fine dell’iniziativa.
La motivazione che l’autore pone in apertura ha il sapore d’una giustificazione nient’affatto originale, una sorta di riesumazione dorotea degli opposti estremismi. Dichiara “Dopo tante pagine scritte sulla Resistenza e sulle atrocità compiute da tedeschi e fascisti, mi è sembrato giusto far vedere l’altra faccia della medaglia. Ossia quel che accadde ai fascisti dopo il crollo della Repubblica Sociale Italiana, che cosa patirono, le violenze e gli assassini di cui furono vittime”.
Dunque il navigato curatore di altri racconti a sfondo storico guarda gli effetti senza risalire alle cause e finisce per porre sullo stesso piano dittatori e oppressi, squadristi, partigiani e vittime civili riesumando la teoria dei morti tutti uguali.
Se si usa come metro la categoria dello spirito la morte può omologare e unificare gli uomini e le loro sorti. Non può, invece, pacificarli né renderli simili perché ciò che essi hanno compiuto in vita segna la loro differenza anche dopo il trapasso. La fine del dittatore Mussolini non è stata e non sarà mai eguale a quella d’un combattente della libertà. Sono morti per intenti opposti, come opposta è stata la loro esistenza: l’una segnata da soprusi e oppressione, l’altra dall’affermazione di pace e  democrazia[1].
E non si tratta di separare alla maniera manichea bene e male, ma di non dimenticare i fatti e il giudizio della storia come effetto di “ciò che riguarda ... tutti gli uomini del mondo che si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi”.[2]

Ignorare gli insegnamenti della storia

Pansa tralascia un altro essenziale insegnamento della storia: la consequenzialità dei fatti. Chiunque la studi sa come molte vicende si susseguono con frequenti legami e ripercussioni. Spesso qualcosa accade perché in precedenza è accaduto dell’altro e, per violenze e vendette, tale consequenzialità è ancora più stretta. Perciò sarebbe quantomeno singolare - se non fosse voluto e fazioso - parlare della resa dei conti col fascismo e coi suoi sostenitori più fanatici senza considerare quanti soprusi, oppressioni, violenze, assassini, lutti il regime mussoliniano produsse in venticinque anni: due di squadrismo pre-marcia su Roma, ventuno di dittatura e altri due di miserrimo servilismo[3] al più feroce regime della storia moderna: lo stato nazista[4].
La stessa recente definizione di guerra civile che molti studiosi, anche non revisionisti, danno ai terribili mesi dal settembre 1943 all’aprile ‘45, pare impropria. Seppure si combatté fra italiani non ci fu uno scontro di un popolo diviso in due: la componente concentratasi a Salò non aveva più alcun legame  con la popolazione se non quello imposto dal terrore e non avrebbe potuto sostenere alcun conflitto se non fosse stata protetta dall’esercito tedesco. L’Italia visse, dunque, una guerra di Liberazione fra i tedeschi occupanti affiancati dall’esercito fantoccio della Rsi e le truppe anglo-americane coadiuvate dai partigiani che miravano a liberare la penisola.

Non accettare le conseguenze di una tragedia

In verità durante la narrazione l’autore ricorda diverse stragi nazifasciste sui civili e sui patrioti del Comitato di Liberazione Nazionale offrendo egli stesso la spiegazione della finale violenza sui vinti causata da quell’odio verso il fascismo radicato in due generazioni d’italiani oppressi.
Ma prevale in lui, non sappiamo se per gusto della provocazione o per una tardiva fascinazione verso le tesi revisioniste, l’intento di fare il martirologio dei fascisti eliminati, dando fiato anche ai più screditati falsificatori di parte: l’attuale deputato di An Antonio Serena, recentemente distintosi per la divulgazione fra i suoi colleghi parlamentari di pubblicazioni osannanti a uno dei boia delle Fosse Ardeatine, il capitano delle SS Priebke. Oppure il saloino Giorgio Pisanò, sostenitore della tesi di 45.000 vittime della repressione antifascista. Quando è appurato che i fascisti morti del periodo - 1943 fine 1946 - furono al massimo 12.000.[5]
Non si tratta comunque di tenere una macabra contabilità: alcune decine di migliaia di vittime in meno non attenuano i termini della fermezza della vendetta.
La questione riguarda la volontà di comprendere le cause della dura risposta dei vincitori che trovava, per motivi che Pansa stesso ricorda, una vastissima eco popolare. Se talvolta la vendetta personale prese il sopravvento sulla giustizia collettiva, il fatto nulla toglie al diffuso desiderio di punire nel modo più duro chi aveva sconvolto la vita italiana per un quarto di secolo.

Antifascismo e insurrezione? 
Ai conti col fascismo Pansa aggiunge negli ultimi capitoli del libro una ulteriore teoria: i partigiani comunisti nei mesi successivi la fine del conflitto cercarono  di colpire anche i capitalisti e gli altri nemici di classe. Il giornalista getta in un unico contenitore l’odio per i criminali di guerra, l’astio contro i semplici fascisti (cosa significasse nei mesi di occupazione non è dato sapere, visto che si finiva al muro o in un lager anche per una spiata anonima), lo scontro di classe, vendette private e azioni banditesche a sé stanti.
Certo, parecchi fascisti e grassatori implicati col regime vennero ricercati ed eliminati con metodi diretti[6]. Anche perché dal 1946[7] la giustizia italiana non ammise più per costoro alcuna punizione. Non fu possibile praticare quello che Simon Wiesenthal attuò nei confronti di alcuni criminali nazisti fatti rifugiare in America latina dall’organizzazione Odessa. Alcuni furono catturati condotti in Israele processati e condannati a morte.
In Italia dal 1946 la situazione mutò profondamente a tal punto che i reduci della Rsi, in barba alla Costituzione già riorganizzati nel partito neo-fascista del Msi, ebbero la possibilità di riapparire in pubblico. E iniziarono a organizzare un’attività eversiva contro la neonata democrazia con tanto di neo-squadrismo[8]. Da quel momento furono i partigiani comunisti a essere incriminati per le epurazioni compiute e vennero costretti a riparare in Cecoslovacchia e Jugoslavia.

Se Pansa vorrà indagare (non è un segreto Spriano, Fiori avevano iniziato a farlo) sulle posizioni classiste nel Pci post-resistenziale che si trovò a confliggere col realismo togliattiano, può farlo. Emancipandosi però da teorie scarsamente attendibili come quella di Zaslavsky e Aga-Rossi su un presunto disegno del gruppo dirigente del Pci d’indebolire con eliminazioni fisiche la borghesia per poi sostituirla. Tesi surreale visto che la linea togliattiana, pur con la sua tradizionale doppiezza, non lasciò mai spazio nel periodo post-bellico a posizioni insurrezionaliste, attuando una linea riformistico-partecipativa.
Anche Secchia e Longo, in quella fase critici col segretario, presero sempre le distanze dalla cosiddetta “malattia del mitra”, una scorciatoia militarista che  incarnava più lo spontaneismo ribellistico che programmi realisticamente rivoluzionari[9]. Se quest’ultimi fossero praticabili e a che prezzo lo si dovrà commentare storiograficamente con ricerche e studi, impegnandosi a realizzarli con rigore. Le congetture e le interpretazioni scandalistiche come quelle degli ultimi capitoli del Sangue dei vinti non aiutano certo la ricerca storica .

Da don Calcagno a Farinacci, da Colombo a Koch

Seguiamo alcuni passi della romanzata storia di Pansa, non per esaltare sangue e vendette bensì per capire gli eventi, ricordando i casi di fascisti la cui fine risultò tragica com’era stata la loro vita.
Il seminatore d’odio don Tullio Calcagno, direttore della razzista Crociata Italica e il suo mentore e protettore Farinacci, violento squadrista della prim’ora e poi ras di Cremona, sono due delle prime vittime ricordate dall’autore. Basta rileggere i proclami che apparivano su quel foglio e si comprende perché per loro giunse inesorabile il momento del giudizio.
Quindi due torturatori che agivano per conto dei nazisti sotto la Repubblica Sociale: Franco Colombo, organizzatore a Milano d’una polizia privata intitolata a Muti. Pietro Koch, creatore di luoghi di reclusione e sevizie nella pensione Jaccarino di Roma e nella villa Fossati di Milano. Con lui decine di accoliti fra cui spiccavano Tela, Trinca e gli attori Valenti e Ferida, uccisi dai partigiani dopo il 25 aprile. Scrive Massimiliano Griner nel suo documentato libro  La banda Koch
“… Delle percosse, bastonature staffilate, sul corpo ignudo con cinghie e catene: quelli erano metodi ordinari, che qualsiasi aguzzino fascista poteva usare. Roba da dilettanti … Koch era per i metodi straordinari, per le torture “scientifiche”. Era un esteta del supplizio. Gli piaceva veder soffrire. Le grida di dolore dei torturati, gli davano brividi di godimento, la vista del sangue lo inebriava”.

Sulle dicerie di Pisanò, secondo cui durante i giorni della Liberazione un certo numero di fascisti vennero gettati negli altiforni delle fabbriche di Sesto San Giovanni, non c’è traccia non solo di documentazione, ma neppure di testimonianze. 

Brigate nere: quei teschi sui berretti

Della morte assegnata a tali Dainotti, Baldi, Bianchi e poi Adami, Fiorentini e altri uomini delle Brigate nere[10] spiegano ampiamente i motivi due passi tratti dal romanzo Uomini e no. 

LXIII  I morti di largo Augusto non erano cinque soltanto; altri ve n’erano sul marciapiede dirimpetto; e quattro erano sul corso di Porta Vittoria; sette erano nella piazza delle Cinque Giornate, ai piedi del monumento. Cartelli dicevano dietro ogni fila di morti: passati per le armi. Non dicevano altro, anche i giornali non dicevano altro, e tra i morti erano due ragazzi di quindici anni. C’era anche una bambina, c’erano due donne e un vecchio dalla barba bianca. La gente andava per il largo Augusto e il corso di porta Vittoria fino a piazza delle Cinque Giornate, vedeva i morti al sole su un marciapiede, i morti all’ombra su un altro marciapiede, i morti sul corso, i morti sotto il monumento, e non aveva bisogno di sapere altro. Guardava le facce morte, i piedi ignudi, i piedi nelle scarpe, guardava le parole dei cartelli, guardava i teschi con le tibie incrociate sui berretti degli uomini di guardia, e sembrava che comprendesse ogni cosa.


CII Quello dal grande cappello e dallo scudiscio scosse allora il capo. Egli aveva capito. Fece indietreggiare i militi fino a metà del cortile, e raccolse uno straccio dal mucchio, lo getto su Giulaj. “Zu! Zu! Piglialo!” disse al cane. E al capitano chiese “Non devono pigliarlo?” Il cane Blut si era lanciato dietro lo straccio, e ai piedi di Giulaj lo prese da terra dov’era caduto, lo riportò nel mucchio. “Mica vorranno farglielo mangiare” Manera disse. I militi ora non ridevano, da qualche minuto. “Ti pare?” disse il Primo. “Se volevano toglierlo di mezzo” il Quarto disse “lo mandavano con gli altri all’Arena”. “Perché dovrebbero farlo mangiare dai cani?” disse il Quinto. “Vogliono solo fargli paura” disse il Primo. Il capitano aveva strappato a Gudrun la pantofola, e la mise sulla testa dell’uomo. “Zu! Zu!” disse a Gudrun. Gudrun si gettò sull’uomo, ma la pantofola cadde, l’uomo gridò, e Gudrun riprese in bocca ringhiando, la pantofola. “Oh!” risero i militi. Risero tutti, e quello dal grande cappello disse “Non sentono il sangue”. Parlò al capitano più da vicino “No?” gli disse. Gli stracci, allora, furono portati via dai ragazzi biondi per un ordine del capitano, e quello dal grande cappello agitò nel buio il suo scudiscio, lo fece due e tre volte fischiare. “Fscì”, fischiò lo scudiscio. Fischiò sull’uomo nudo, sulle sue braccia intrecciate intorno al capo e tutto lui che si abbassava, poi colpì dentro a lui. L’uomo nudo si tolse le braccia dal capo. Era caduto e guardava. Guardò chi lo colpiva, sangue gli scorreva sulla faccia, e la cagna Gudrun sentì il sangue.”Fange ihn! Beasse ihn! disse il capitano. Gudrun addentò l’uomo, strappò dalla spalla.An die Gurgel disse il capitano.    

L’albero di Solaro e gli alberi-forca di Bassano

Come ricorda Claudio Pavone nel suo saggio storico sulla moralità nella Resistenza: la Rsi introdusse la pratica delle pubbliche esecuzioni, dei cadaveri degli impiccati e dei fucilati lasciati a lungo sul posto.
A Giuseppe Solaro[11], fanatico capo del Pnf Torino (organizzatore, mentre la città veniva liberata, della “battaglia dei cecchini” che offrì l’ennesimo spargimento di sangue innocente di trecentoventi fra cittadini e partigiani) viene restituita quella “festa della forca” - la definizione è di Pansa - tanto cara al fascismo repubblichino. Altra testimonianza viene da Mario Isnenghi nella raccolta di saggi curata da Ranzato Guerre fratricide.

L’elemento preminente e ricorrente appare, comunque, quello della pubblica esposizione del cadavere. Anche questo “spettacolo” ha le sue regole, di tempo e di spazio. Bisogna che il macabro memento mori penzoli a lungo, per ore e anche per giorni, dall’albero, asta o lampione da cui ostenta la sua impotenza “Ero un ribelle. Questa è la mia fine!” dicono i cartelli attaccati ai cadaveri dei giustiziati di Arten, Quero, Cornuta, Alano, Oné di Fonte, Levada, Onigo, Pederobba, Cavaso, Crespano, Bassano e di tutti i paesi che fanno corona al Grappa nei giorni del disastroso rastrellamento del massiccio, alla fine del quale si conteranno centinaia di fucilati, impiccati e appesi vivi a un gancio di macellaio, oltre ai caduti in combattimento e ai deportati in Germania. Da tutti i paesi dei dintorni, le madri dei giovani alla macchia accorrono trepidanti a Bassano, quando si sparge la voce che, appesi ai minuscoli alberi di viale Venezia, coi piedi che quasi toccano terra, ce ne sono altri 31 senza nome.

Egualmente dopo la Liberazione a coloro che Pansa definisce “belve in gabbia” - e belve lo erano state e in gabbia c’erano finiti dopo la cattura partigiana - veniva riservato il trattamento che i partigiani avevano subìto a opera dei nazifascisti. Ancora un passo di Isnenghi.

“Il morituro può essere legato alla cabina o alla fiancata dell’autocarro, con la faccia rivolta verso l’esterno, e così esibito lungo le strade che portano al luogo dell’esecuzione. Si può – come a Genova – fucilare nei forti della cintura e poi mandar giù il camion con le casse da morto ad attraversare la città. Oppure è il camion stesso con i boia e i condannati che si sposta di paese in paese – vero e proprio Carro di Tespi della morte – sin quando ciascun condannato è stato appeso al suo albero e buttato fuori dal camion, che prosegue la corsa sino al prossimo arresto. Un episodio di Paisà ha fissato l’immagine di un’altra pratica della scenografia della morte, che affida alla corrente dei fiumi la mobilità e la visibilità delle spoglie del ribelle, legato alle tavole … ”.

Così leggendo della morte di Vezzalini torna alla mente la strage del 15 novembre 1943 (gli otto antifascisti fatti prelevare dalle carceri e uccisi vicini al fossato del Castello Estense di Ferrara) rievocata nel film di Florestano Vancini “La lunga notte del ‘43”.

I simboli di morte e pacificazione
I simboli della morte sono da sempre l’emblema dei regimi che disprezzano l’uomo e la sua vita, il fascismo italiano si distinse e fece scuola in Europa. Se ne ricordano i lugubri labari e gagliardetti, le funeree canzoni[12], ma soprattutto la prolungata pratica dell’assassinio[13].
Nessuna organizzazione partigiana italiana teorizzò la violenza fine a se stessa. Quando ci furono episodi di violenza privata su prigionieri si trattò di casi isolati, mai diretti  politicamente, e vennero repressi e duramente biasimati. Come altre devianze individualistiche: i furti, ad esempio. Ancora Pavone: “La severità contro gli atti di banditismo compiuti dai partigiani è grande, e le fonti ce ne attestano la più dura applicazione”. 

Certo, nel concitato periodo successivo alla Liberazione si verificarono anche episodi discutibili, come l'uccisione a sangue freddo di 54 fascisti operata nelle carceri di Schio da una decina partigiani. In quel caso l'attenuante delle stragi naziste avvenute nei dintorni (Forni, Pedascala) nei mesi precedenti e il martirio di due partigiani del luogo, Germano e Giacomo Bogotto, di cui si ritrovarono i corpi straziati dalle torture non aiutano a comprendere l'eccesso violento che assunse i contorni di sanguinaria vendetta. Seppure una folla inferocita nei giorni precedenti aveva cercato di assaltare le carceri per linciare i fascisti. E a eccidio avvenuto una buona parte della cittadinanza lo considerò un atto di giustizia verso i tanti martiri della libertà. 


Avrebbe meritato senz'alto punizioni severe una moltitudine di gerarchi e camicie nere che, invece, riuscì a farla franca[14].   Anche per quell’azione di pacificazione che fu la citata amnistia del giugno 1946 che portò alla scarcerazione di oltre 40.000 fascisti[15]. Tra loro c’erano parecchi criminali di guerra. Due nomi per tutti: il capobanda dei torturatori della X Mas, Junio Valerio Borghese, e il macellaio d’Etiopia Rodolfo Graziani che il democratico-cristiano Giulio Andreotti negli anni Cinquanta portava al suo fianco nei comizi in Ciociaria, per accaparrarsi in quelli che furono i suoi primi collegi elettorali, i voti dei nostalgici.

La storia e i vincitori si sono dimostrati assai più clementi di quanto Pansa, Pisanò e la famiglia revisionista vogliono far credere.

novembre 2003 
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Qualche libro per approfondire
P. Spriano, “Storia del Partito Comunista Italiano”, Einaudi, Torino, 1975
G. Bocca, “Storia dell’Italia partigiana”, Laterza, Bari, 1977
L. Borgomaneri, “Due inverni, un’estate e una rossa primavera”, Angeli, Milano, 1985
P. Spriano, “Le passioni di un decennio”, Milano, 1986
C. Pavone, “Una guerra civile”, Bollati Boringhieri Torino, 1991
G. Ranzato, “Guerre fratricide”, Bollati Boringhieri, Torino, 1994
G. Bocca, “Storia d’Italia nella guerra fascista”, Mondadori, Milano, 1996
L. Borgomaneri, “Hitler a Milano”, Datanews, Milano, 1997
H. Woller, “I conti col fascismo”, Il Mulino, Bologna, 1997
L. Ganapini, “La Repubblica delle camicie nere”, Garzanti, Milano, 1999
D. Gagliani, “Brigate nere”, Bollati Boringhieri, Torino, 1999
M. Franzinelli, “I tentacoli dell’Ovra”, Bollati Boringhieri, Torino, 1999
F. Germinaro, “L’altra memoria”, Bollati Boringhieri, Torino, 1999
R. Katz, “Morte a Roma”, Editori Riuniti, Roma, 1996
K. Klinkhamer, “Stragi naziste in Italia”, Donzelli, Roma, 1997
Aavv, Dizionario della Resistenza, Einaudi, Torino, 2000
Aavv, Atlante storico della Resistenza, Mondadori, Milano, 2000
M. Griner, “La banda Koch”, Bollati Boringhieri, Torino, 2000
B. Fenoglio, “Il partigiano Johnny”, Einaudi, Torino, 1978
B. Fenoglio, “I ventitre giorni della città di Alba”, Einaudi, Torino, 1986
E. Vittorini, “Uomini e no”, Mondadori, Milano, 1986
V. Pratolini, “Cronache di poveri amanti”, Mondadori, Milano, 1988
G. Fiori, “Uomini ex”, Einaudi, Torino, 1993

Qualche film per non dimenticare
“Roma città aperta”, Roberto Rossellini, 1945
“Paisà”, Roberto Rossellini, 1946
“Achtung! Banditi”, Carlo Lizzani, 1951
“La lunga notte del ’43”, Florestano Vancini, 1960
“Il terrorista”, Gianfranco De Bosio, 1963
“Rappresaglia”, Gorge Pan Cosmatos, 1973
“Salò e le 120 giornate di Sodoma”, Pier Paolo Pasolini, 1975
“Novecento”, Bernardo Bertolucci, 1976
“La notte di San Lorenzo”, Paolo e Vittorio Taviani, 1982

[1] Come ricorda Primo Levi ne “I sommersi e i salvati” l’oppressore e la vittima sono nella stessa trappola, ma è l’oppressore, e solo lui, che l’ha approntata e fatta scattare.

[2] A. Gramsci, Lettere dal carcere (154), Einaudi, Torino, 1975

[3] “Tutto ciò che era repentino, proditorio, esplodente con urla era fascista” scrive Fenoglio nel  secondo capitolo de “Il partigiano Johnny” e il partigiano Sandor nei “Ventitre giorni della città di Alba” afferma: “Io coi tedeschi ce l’ho, è naturale che ce l’ho, per tante cose. Ma non c’è confronto con come ce l’ho coi fascisti. Per me sono loro la causa di tutto”.

[4] Fra il settembre ’43 e il maggio ’45 i reparti tedeschi della Wehrmacht (esercito) e delle SS (polizia politica) assassinarono 9.180 civili, in gran parte donne e bambini. In più il movimento partigiano del Corpo Volontari della Libertà pagò un durissimo tributo di sangue con 26.600 vittime nelle regioni dove fu più aspro il conflitto: Piemonte (5.794), Lombardia (3.938), Veneto (2.670), Friuli (4.784), Bellunese (564), Liguria  (2.794), Emilia-Romagna  (6.084).

[5] H.Woller, I conti col fascismo, Il Mulino, Bologna, 1997. Parri aveva diffuso il numero di 15.000 fascisti passati per le armi, Tosca parla di 19.801. I dati riportati da Woller (12.000 morti) sono a tutt’oggi i più accreditati in sede storica.

[6] Da G. Fiori, Uomini ex “… Autunno ’45. Disarmare, questo è l’ordine del Partito (il Pci, ndr), consegnare agli Alleati anche l’ultima pistola. Incredibile. Una pazzia.  … (I fascisti) le armi se le son tenute, spuntano a Milano sigle losche una al giorno “Figli d’Italia” “Squadre d’Azione Mussolini” “Onore e combattimento”…  A Milano la guerra civile era continuata, un fallimento l’epurazione legale, s’incontravano per strada anche torturatori, le azioni punitive ebbero il consenso popolare: squadre di partigiani col fazzoletto rosso delle Brigate Garibaldi e il mitra a tracollo erano tornate a far la ronda cercando il canagliume e se lo tiravano dalle parti del campo Giuriati, e l’indomani all’alba la vista di quel corpo inerte non emozionava gli operai di passaggio in bicicletta”.

[7]  Il 22 giugno 1946 l’amnistia emanata dal guardasigilli Togliti, in accordo con il capo del governo De Gasperi, produsse la scarcerazione di oltre 40.000 fascisti.

[8]Ancora da G. Fiori, op. cit. “… Il ’46 anno duro i fascisti alzano il tiro, attraversano città e paesi con auto fantasma sparando nel mucchio.. In giugno migliaia di fascisti tornano in libertà scarcerati dal guardasigilli Togliatti è la base di reclutamento delle Squadre d’Azione, ringalluzziti arrivano a tentare l’attacco alla Casa del Popolo di Lambrate. … L’esplosione, l’arrivo degli assalitori neri, il nostro tiro a segno dal porticato, la carneficina. La loro risposta, la bomba nella sezione comunista di Porta Genova, il piccolo Flammini di cinque anni, figlio del custode, orrendamente dilaniato, i pezzetti che volavano attraverso la finestra di via Papiniano …” . Il Msi creato dal repubblichino Giorgio Almirante perseguì per decenni un piano  eversivo in connubio con apparati deviati dello Stato, rendendosi protagonista di azioni squadristiche. Numerosi militanti missini e di formazioni parallele a questo partito, sostenuti dai Servizi segreti, furono i manovali delle bombe nella cosiddetta “strategia della tensione”. Con le stragi che da Piazza Fontana (dicembre 1969) giungono sino all’attentato al treno 704 (dicembre ’84)   si volevano colpire le conquiste del movimento dei lavoratoti e lo spostamento elettorale a sinistra avvenuto nel Paese.   

[9] Il caso della milanese “Volante Rossa” , ricordato nel libro di Fiori è uno dei più noti. Nelle confessioni di chi vi partecipò si constata quello che anche altri studiosi (Woller) sottolineano: il senso di abbandono a se stessi di quei partigiani che a lungo avevano rischiato la vita. Alcuni di loro iniziarono a sentirsi abbandonati e poi traditi dallo stesso Partito che nel dopoguerra li vedeva come fattore di disturbo per la nuova realtà politica. 
[10] Create nell’estate del 1944 da Alessandro Pavolini e da lui guidate le Brigate Nere assunsero compiti di repressione antipartigiana e di rappresaglia sui civili, coadiuvando l’opera delle SS. Si distinsero per azioni di ferocia nell’Oltrepo e nel Canavese.
 
[11] Scrive Woller, op. cit. “Solaro era troppo conosciuto e troppo odiato perché si potesse pensare di giustiziarlo come un fascista qualsiasi… fu sottoposto a un processo sommario e condannato a morte per impiccagione. La sentenza venne eseguita in corso Vinzaglio, nello stesso posto dove poche settimane prima lui aveva fatto impiccare quattro partigiani”.
[12] “C’è a chi piace far l’amore/ c’è a chi piace far denaro/ c’è a chi piace far la guerra/ con la morte a paro a paro” è il ritornello di una canzone dei paracaduti della Rsi che rifà il verso alla dannunziana Canzone del Quarnaro.

[13] Nel biennio 1920-’22 furono assassinati dagli squadristi del neonato movimento fascista, finanziato dagli agrari padani, oltre un migliaio di militanti socialisti, comunisti e popolari e sindacalisti organizzati in Leghe, Circoli e Camere del Lavoro. Negli anni seguenti anche illustri personalità politiche antifasciste vennero uccise o fatte morire: don Giovanni Minzoni, Giacomo Matteotti, Piero Gobetti, Giovanni Amendola, Nello e Carlo Rosselli, Antonio Gramsci, solo per citare i più noti.
  
[14]  In Italia le corti d’Assise condannarono in primo grado 550 fascisti alla pena capitale, solo 91 vennero fucilati. In Francia su 6763 condanne vennero eseguite 1.500.

[15] Negli anni 1948, 1949, 1953 furono adottati altri provvedimenti di condono che svuotarono le carceri di tutti i fascisti.

mercoledì 22 aprile 2015

Aldo dice: ventisei per uno, settant'anni di Resistenza in sei libri (5)

UOMINI E NO, di ELIO VITTORINI
Una rilettura del romanzo resistenziale dove i ragazzi di Salò facevano la guardia ai patrioti fucilati

Cosa fu l’Italia dall’8 settembre 1943 al 25 aprile del 1945? Cosa diventarono le città e anche i borghi ridotti a lager fra coprifuoco, fame, vessazioni, delazioni e carcere, sevizie, mattanze di civili inermi? Quei venti mesi d’occupazione hanno un responsabile ideologico, politico, militare: il nazifascismo. E hanno nomi propri, a cominciare dai tanti criminali che non pagarono per le atrocità commesse. Commesse da molti. Da chi comandava e ordinava. Dalla manovalanza della morte, le Schutz Staffeln coadiuvati da quei ‘ragazzi di Salò’ che il revisionismo storico in questi anni cerca di giustificare. Nelle scorse legislature c’è chi ha proposto di assegnare una pensione ai reduci di quel triste servaggio. Pensione per cosa? Per essere stati antropofagi, direbbe il giovane pur affamato che guardava lo sbarbatello con la testa di morto sul berretto” consumare il pasto accanto ai corpi inermi degli assassinati di Largo Augusto (‘Uomini e no’ LXXI). Lo racconta Elio Vittorini in quel manifesto morale alla coscienza di essere uomini che è il suo celebre libro. Una storia che non lascia scampo ai ragazzi di Salò, non offre attenuanti perché non ne avevano. Perché, come i loro padroni nazisti, rifiutavano di essere uomini. Sceglievano di fare i cannibali per tremila lire al mese. Per mangiare carne e formaggio e frutta e burro e marmellata e pane bianco, tre volte al giorno mentre si moriva di fame. Tutti avevano fame eppure c’era chi si rifiutava d’essere un cannibale; il coetaneo dello sbarbatello piuttosto non si nutriva ma mai avrebbe vestito la divisa del disonore per mangiare sui cadaveri dei fratelli. Basta rivederle le facce di quelli che lo stesso graduato chiamava idioti in tante foto che i filo nostalgici rimettono in circolazione per giustificare la verde età dei saloini. Costoro erano incapaci d’intendere e di volere? E’ probabile per qualche giovanissimo caduto nella propaganda del reclutamento fanatico e forzato d’un Mussolini in quei mesi più che mai fantoccio nelle mani del Führer.

Chi non s’arruolava finiva nei campi nazisti e non tutti avevano la coscienza e il coraggio di ribellarsi e salire in montagna. Eppure la minore età non assolve dallo scempio compiuto coi rastrellamenti, le torture, gli assassini di partigiani e civili. Donne e bambini compresi. La scorciatoia di calzare il basco della morte diventava scellerata. Perché l’esaltazione della morte è tutt’altro che ‘bella’ come ha voluto far credere Mazzantini in un libro di ricordi sul suo triste passato: solo chi non ama la vita può esaltare la morte. Non c’era nulla di epico nei trapassi degli esaltati o sprovveduti che si riducevano a fare gli scherani dei nazisti cacciando, torturando, uccidendo partigiani. Affiancando le SS anche nelle stragi della popolazione inerme. Macchiandosi d’una vergogna incancellabile. Dice, in una memoria sulle ultime ore del partigiano Dante Di Nanni, il comandante gappista Giovanni Pesce “In questa guerra ognuno ha fatto la sua scelta. Né a lui né all’altro hanno messo in mano un fucile senza spiegare perché. Ciascuno ha scelto in piena coscienza la parte dove stare e paga i debiti che ha contratto”. Quel porcile che fu la Repubblica Sociale di Salò istituì addirittura il corpo delle SS italiane, mutuando dall’alleato-padrone l’acronimo del crimine. Mentre faceva versare sangue innocente la propaganda repubblichina parlava retoricamente di Patria e Onore. La Patria era venduta alle truppe della Wehrmacht che l’occupavano; l’unico onore che conobbero i Pavolini, Graziani, Borghese fu quello d’obbedire asserviti ai tiranni germanici. Potranno smentire quello che accadeva in quei mesi a Milano i tanti infoiati del revisionismo dei giorni nostri? Non possono farlo. Di quel passato di lutti parlano morti e testimoniani. Non è fantasia ciò che Vittorini narra. Esisteva Cane Nero, si chiamava Franco Colombo, ex sergente della Milizia, che aveva messo su la famigerata Legione Ettore Muti con caserma in via Rovello. Un’accozzaglia di assassini e avanzi di galera lasciata libera dal questore di Milano per spargere terrore in città.

Squadre della morte, ecco cos’erano le strutture al servizio delle Waffen SS, compresa la Guardia Nazionale Repubblicana, le Brigate Nere, la X Mas tutte sotto la tutela di Kesserling. Torturatori e assassini come Colombo erano Melli e Finizio del CIP, Fiorentini che agiva nell’Oltrepò pavese con una struttura denominata Sicherheitsabteilung. E c’era il capitano Clemm si chiamava Theo Saevecke, occupava l’hotel Regina di via S. Margherita, quartier generale milanese della Gestapo proprio dietro il Duomo. Si serviva del cosiddetto macellaio Gradsack, e lì ‘lavoravano’ i sanguinari Otto Kock, sottufficiale Gestapo, Franz Staltmayer, detto la belva, armato di nerbo e cane lupo. Altrettanto vera è la morte impartita senza ragione e lasciata in mostra, com’era costume nazista. Il 16 agosto 1944: tre ferrovieri fucilati allo scalo di Greco, il 21 sei gappisti all’aeroporto Forlanini. Il 10 agosto quindici partigiani in Piazzale Loreto. E i ragazzi di Salò erano lì con le loro facce criminali o ebeti, coi fucili spianati a obbedire, a fare la guardia ai morti. A consumare il loro pasto di carne, mentre le carni degli italiani putrefacevano al sole. Cannibali. Chi si vanta d’essere stato un ragazzo di Salò potrebbe spiegare la propria antropofagìa? Potrebbe ricordare a quale cadavere d’italiano assassinato faceva la guardia?  Accadeva a Milano nel terribile 1944. E nei mesi seguenti non andò meglio. Fra le polizie dette private, ma ispirate e foraggiate dalla Repubblica Sociale tramite Buffarini Guidi, si ricorda per zelo e spietatezza la banda di Pietro Koch, già operante in Roma nei covi delle pensioni Oltremare e Jaccarino. Alberghi trasformati in centri di sequestro, interrogatorio e tortura per antifascisti e semplici cittadini non appartenenti a nessuna organizzazione resistenziale. A Milano Koch agiva nella zona di San Siro a villa Fossati, dove coi suoi agenti fraternizzavano gli attori Osvaldo Valenti e Luisa Ferida. La banda Koch praticava sequestri e sevizie, quindi metteva i prigionieri in mano ai Kappler e Priebke, ai Sevecke e Colombo che li fucilavano alle Ardeatine, all’Arena, al Giuriati. In quel manipolo di criminali c’era un monaco benedettino, don Ildefonso Troya Epaminonda, che copriva con le note di Schubert le urla dei torturati, mentre Armando Tela, Francesco Argentino, Francesco Belluomini picchiavano con bastoni chiodati e catene.

A guerra finita non tutti pagarono. Sadici torturatori come Giuseppe Bernasconi, Renzo De Santis vissero impuniti. Altri aguzzini i dalmati Duca Masè, Giorgio Mattesich, Niccolò Novack fecero perdere le proprie tracce e potrebbero essere ancora vivi. Come i fiorentini Romeo Nucci, Carlo De Santis, Nestore Santini, e Vasco Nebbiai di San Giovanni Valdarno che hanno trascorso i loro giorni nei luoghi natii. Di queste terribili vicende ne sono pieni gli attuali libri di storia. Ma la memoria in un futuro prossimo potrebbe sparire, perché avanza quel revisionismo che cela, muta, stravolge i fatti accaduti. Tanto da presentare alle nuove generazioni la scelta partigiana e quella fascista di Salò come casuali, immotivate, indifferenti come l’adesione del tifoso a una squadra calcistica. Il Ministro dell’Istruzione Moratti propone di ritoccare i programmi di Storia contemporanea così da far dimenticare Resistenza e Liberazione dal nazifascismo. Eppure nel testo di Vittorini c’è di più. C’è la spiegazione del senso etico che animava chi stava dalla parte della libertà e della democrazia, Il partigiano che metteva a repentaglio la sua esistenza lo faceva per l’altrui e la propria felicità. Perché nessuna cospirazione o rivoluzione può avere senso se gli uomini non possono essere felici (VII). Poi negli ultimi tragici passi si delinea la sorte del comandante gappista Enne 2, preso dallo sconforto e dal cupio dissolvi, svuotato com’è da una lotta feroce che gli ha fatto perdere tanti compagni. Scoperto decide di attendere nel suo appartamento l’arrivo dei fascisti. Pur nel dubbio, nella tristezza lui coniuga il destino segnato con l’unica strada praticabile: combattere (CXXVIII). Venderà cara la pelle come il patriota Di Nanni. In quelle condizioni si poteva solo combattere, e pur nella giusta rivendicazione d’una vita privata, di una gioia intima, non si poteva prescindere dalla riconquista collettiva della libertà, dello stato di diritto, della dignità umana.

Brani e ricostruzioni storiche tratte da:
Elio Vittorini, Uomini e no, Mondadori, Milano, 1972
Massimiliano Griner, La banda Koch, Bollati Boringhieri, Torino, 2000

marzo 2004