UNA QUESTIONE PRIVATA, di BEPPE FENOGLIO
Scriveva Italo Calvino, che come
pochi intuì la grandezza di Fenoglio e ne diffuse l’opera, che “Una questione privata” “E’
costruito con la geometrica tensione
d’un romanzo di follìa amorosa e cavallereschi inseguimenti come L’Orlando furioso, e
nello stesso tempo c’è la Resistenza
proprio com’era di dentro e di fuori, vera come era stata scritta, serbata per
tanti anni nella memoria fedele, e con tutti i valori morali. Ed è un libro di paesaggi, ed è un libro di figure rapide e tutte vive,
ed è un libro di parole precise e vere. Un libro assurdo, misterioso, in ciò che s’insegue, s’insegue per inseguire altro e quest’altro per inseguire
altro ancora e non si arriva al vero
perché…” La storia ha l’intreccio
del noir e uno sviluppo
epico nelle gesta del protagonista, il partigiano Milton, che è anche un giovane innamorato. Rimane
un’aria di mistero sul suo
affannarsi per salvare Giorgio catturato dai fascisti. Milton lo fa perché
questi è un partigiano? perché è un suo amico? perché in una sua morte
prematura porterebbe con sé il segreto d’una possibile relazione con Fulvia, la
ragazza amata da Milton? Il romanzo si chiude e il lettore non saprà mai se
Milton ha raggiunto il suo scopo. Come sempre nel narrare la guerra partigiana l’autore è
diretto. Nessuna retorica, anzi nella successione dei flash appare tutta la precarietà di quella
scelta (i cibi scarsi, la fatica fisica di fughe e rincorse, le malattie
contratte). La paura della morte, l’odio per il nemico ma anche il rispetto per
chi mostra coraggio e qualche meschinità presente nelle proprie fila. Quindi l’imprevedibilità e l’indeterminatezza degli
eventi che possono segnare il cammino personale con rovesci repentini,
fatali o favorevoli. Milton, Giorgio, il sergente fascista, Riccio possono
vivere o morire: il destino non ha preventivato nulla. Lo decide all’ultimo
secondo e forse, mentre il fatto
accade, può anche cambiare idea.
L’uso della lingua e
l’originalità stilistica sono altre perle della prosa fenogliana. Si leggono
descrizioni a metà fra la metafora e la pennellata leonardesca. La natura (la
terra fradicia e nera, le colline dal diluvio annerite e slavate, l’acqua del
Belbo scura, pastosa e gelida, la luna smozzicata e trasparente come una
caramella lungamente succhiata). La nebbia (Un mare di latte. Spaventosa,
nemmeno a chinarmi vedevo più la strada e i piedi che vi si posavano sopra),
la pioggia (fitta, pesante e obliqua), il vento (che cresceva dalle tombe
spalancate di uno di quei cimiteri d’alta collina. Così forte e radente che
scrostava la ghiaia dal suo letto di fango), il fango (son
fatto di fango dentro e fuori, dice Milton). E ancora le intemperie
(camminavano
in cresta pigliando di fatto un vento forte, sinistro d’un freddo già invernale),
la salute del partigiano (voi partigiani sempre all’aperto, come
v’asciugate? Milton tossì a scoppi, a schianti con le stelle e i lampi rossi e
gialli nel cielo nero degli occhi serrati. Dentro ci sono tre miei uomini con
la scabbia. Ti presentano dei pezzi di legno e ferro perché li gratti con
quelli. Le unghiate non le sentono più). La tensione che sale (il
cuore gli batteva, anzi sembrava latitante dentro il suo corpo),
l’odio della popolazione verso i fascisti (quando finirà patriota? Verrà pure quel giorno
– disse il vecchio guardando Milton con troppa intensità. E allora non ne
perdonerete nemmeno uno voglio sperare. Tutti li dovete ammazzare perché non
uno di essi merita di meno. La morte è la pena più mite per il meno cattivo di
loro. Se vi lascerete prendere dalla pietà farete peccato mortale, sarà un vero
tradimento). Amen.
marzo 2004
marzo 2004
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