I
VENTITRE GIORNI DELLA CITTA’ DI ALBA, di BEPPE FENOGLIO
Eccola la Resistenza che meno
piaceva a taluni resistenti. Umanissima, senza retorica, con tanti
limiti e contraddizioni, fatta di momenti oscuri, antieroici, addirittura meschini.
Perché oscuro e infelice era anche qualche patriota. Fenoglio scrittore non lo
nasconde, non è nella sua indole di rude langarolo. Dice quel che pensa, senza
peli sulla lingua, evitando autocensure letterarie. Può permetterselo, è stato
partigiano, di quelli che non dovevano fare i conti con l’apparato ideologico e
politico dei partiti. E’ rimasto un intellettuale libero, paladino della
verità, forte d’una scrittura eccezionale: precisa e bruciante. Presenta combattenti
diversi dal politicamente corretto, mostra uomini pieni di tentazioni. Già
nell’esordio del primo capitolo va in scena l’anomalìa. A chi sarebbe mai
venuto in mente di celebrare la fama dei patrioti che sfilano nella città
appena presa con un paragone sportivo? “Sfilano i badogliani con sulle spalle il
fazzoletto azzurro e i garibaldini col fazzoletto rosso, e tutti, o quasi,
portavano ricamato sul fazzoletto il nome di battaglia. La gente li leggeva
come si leggono i numeri sulla schiena dei corridori ciclisti; nomi romantici e
formidabili…”. Dinamite, Rolando ma anche Negus, Bimbo, Colonnello e
un meno eclatante Biagino. Ma al di là della parata c’è la cruda realtà d’ogni
giorno, quella che vide molti combattenti eclissarsi di fronte all’offensiva
nemica (”Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944”)
o discutere sulla sorte d’un prigioniero quando questi fa per fuggire e viene
steso da una raffica (“Il sergente fece un grande scarto e
voltandosi partì verso il torrente. Negus fece la raffica, il sergente cadde
rigido in avanti come se la trappola nascosta nell’erba gli avesse abbrancato i
piedi. Colonnello scoppio a piangere e diceva a Negus: Perché gli hai sparato?
Ci poteva venir buono, facevamo dei patti”).
Il romanzo è strutturato in racconti, tutti vissuti in ambiente
langarolo, e alcuni finali collocati cronologicamente nel dopoguerra, a
conflitto terminato ma non dimenticato. Lì compaiono intrecci con tanto di
colpi di scena, come si trattasse di micro gialli che riproducono, comunque,
storie reali di difficoltà sociale e disagio personale (“… da sotto il materasso tirò fuori
la pistola. La guardò, se la mise sotto il giubbotto e uscì per andare a
lavorare”). (“Camminava già nell’acqua al ginocchio ed
avanzando raccoglieva ancora pietre sott’acqua e se le cacciava in seno
grondanti. Arrivò tutto curvo dove più forte era la corrente che portava
all’acqua verde”). In taluni vengono messe in luce manìe
militariste: il culto dell’arma e la furbizia con cui Sgancia approfitta della
“recluta” partigiana Raoul per accaparrarsi la di lui pistola in cambio del suo
ferrovecchio. Il neo partigiano acconsente a pagare quel tributo al “nonnismo”.
O il lugubre sorteggio per chi deve rafficare il nemico dopo la sentenza emessa
(“Allora
spari chi vuole, giocatevela a pari e dispari, non sparatevi solo tra voi due!”) E ancora un capo partigiano, Marco,
che nei tempi morti è intento ad amoreggiare con una ragazza piuttosto che
pensare a tattiche militari o ai piani politici (“C’era un tavolo e sopra una
ragazza che fece appena in tempo a serrare le gambe e mandar giù le sottane.
C’era pure un uomo che si stava abbottonando la brachetta”). C’è chi
fa il partigiano dietro casa (“Vado ad arruolarmi col famoso Marco, sarò
appena a quindici chilometri da casa. Ciao mamma, ho un debito di sessanta lire
al caffè della stazione. Fa il piacere, pagamelo”). Alla faccia del mammismo dei giorni
nostri, siamo di fronte a ragazzi mantenuti e scrocconi che prendono la lotta
per un diversivo da assolvere dietro le colline note per falò e feste sull’aia.
Però la vita era dura per tutti e prima di beccarsi la raffica del
nemico bisognava fare i conti con le bassezze del quotidiano: il ronfare (“i
respiri e il russare degli uomini coricati sembrano venire da sottoterra”), la materia scatologica (“si
sentì un forte plaff! Raoul si parò la faccia con la paglia perché aveva
sentito gli schizzi prendere il volo”). E la realtà e il sogno si mescolano (“Ho
sognato che t’hanno ammazzato. La repubblica lì fuori sull’aia. Parola d’onore
che t’ho sognato”). Ma di
fronte all’infamia più grave, il furto, non c’è salvezza né pietà neppure per i
vecchi compagni. Anzi, a loro si richiede un comportamento irreprensibile, pena
– come accade al navigato Blister – di finire al muro dopo il pestaggio di rito
da parte di tutti i componenti della banda. Eppure lui, da esperto
filibustiere, spera fino in fondo di farla franca. Crede gli si proponga la
finta esecuzione, quella che talvolta veniva usata per stordire
psicologicamente chi la subiva, coscritto o nemico che fosse. A Blister andò
male perché l’aveva fatta grossa, il comando non poteva sputtanarsi davanti ai
contadini, tanto solidali per le derrate. Si fa cenno anche a gesti terribili
che qualche partigiano fece mutuandoli dalle sadiche abitudini saloine (“C’è un
partigiano dei nostri che ha preso uno di loro e prima di finirlo gli ha cavato
gli occhi. Io so che il fatto è capitato, ma non c’entro”). Questo
coraggio intellettuale con cui non si cela nulla, anche qualche infamia, non fa
venire meno la ferma coscienza antifascista e antimonarchica “Monarchici
le balle - ripeté Kin - Il tuo re è uno schifoso vigliacco, è il primo
traditore … Se aveva un po’ d’onta, veniva a fare il partigiano con noi o
almeno ci mandava quel puttaniere di suo figlio… “.
marzo 2004
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