giovedì 28 febbraio 2019

Crisi indo-pakistana: Khan, mano tesa a Modi


La crisi indo-pachistana può evolversi col gesto di ‘buona volontà’ del rilascio d’un pilota indiano catturato vivo dai militari pakistani intervenuti sul luogo in cui un caccia di Delhi era stato abbattuto. Mentre le piazze indiane s’infiammano chiedendo la restituzione del comandante finito in mani nemiche, mentre il premier Modi, che aveva voluto il raid punitivo oltre confine, medita con proprio ministro degli Esteri nuovi passi militari che mettono apprensione, il premier pakistano Khan spiazza tutti, anche i suoi generali, con un gesto distensivo che comunque l’amministrazione indiana sottostima considerandolo di routine. Comprendere ciò che i due confinanti forzati vogliono fare è un piccolo enigma che crea grandi apprensioni. Quest’ultime dovute alla fiamma che cova reciprocamente sotto ceneri, antiche e più recenti, nelle reciproche estremizzazioni che i due attuali leader possono cavalcare e anche per gli arsenali atomici detenuti da entrambi. Nella verifica, dopo due giorni d’osservazione anche giornalistica, dell’annunciata azione distruttiva dei covi d’addestramento del gruppo bombarolo Jaish-e Mohammad, che sarebbe protetto in territorio pakistano, non sembra esserci ombra.
L’emittente Al Jazeera, il media più pronto a inviare in loco suoi cronisti, ha raccolto testimonianze fra la popolazione dell’area di Balakot. Quei racconti non lamentano vittime, solo qualche ferito lieve da schegge di missile e tronchi d’albero. Infatti i flashes scattati nei due giorni seguenti mostrano grandi buche sul terreni più o meno desolati. Egualmente la madrasa, presunta base di reclutamento jihadista del gruppo JeM, è integra. E allora Delhi ha solo minacciato e di fatto ha bluffato? Così sembrerebbe. La stessa risposta dell’aviazione pakistana era un ‘atto dovuto’, ma non puntuto. E tutta l’angoscia su una possibile escalation guerrafondaia sarebbe una rappresentazione di timori più che di realtà? I conteggi esposti dagli esperti militari attorno agli arsenali che computano testate nucleari: 110 per l’India con missili antichi del 2003 e recenti (K15 Sagarika), 130 quelle pakistane con modelli diversi, ma potenziale simile. Inoltre il gigante indiano raddoppia tutto il resto: aerei da combattimento (oltre 2.000), tanks (4.500), navi (300), surclassando i vicini per numero di soldati disponibili: quattro milioni e duecentomila. Numeri e cose se restano inutilizzati non impensieriscono civili e istituzioni, non solo nazionali.
Invece certe azioni, pur non devastanti, proprio a uso della cittadinanza interna sembrano rivolte. Sono state ricordate le prossime elezioni indiane in cui Narendra Modi e il suo partito ultranazionalista possono sminuire o addirittura perdere quel seguito che l’aveva condotti ai vertici della complessa società indiana nel 2014. Perciò battere sull’orgoglio nazionale, contro il detestato nemico frazionista che nel 1947 spaccò la nazione, potrebbe tornare utile nelle urne. Alcuni analisti sono titubanti, ma il tentativo ci può stare, come mostrano iniziative anche spontanee apparse in questi frangenti. Chi sta smontando il possibile attrito è proprio l’outsider diventato un anno fa presidente di quella che a tutti gli effetti è considerata la nazione-bomba a orologeria: l’ex campione di cricket Imran Khan. Ennesimo esempio dell’apertura della politica mondiale a figure estranee ed esterne ai propri ambienti, sia quanto uomini della strada sia, come nel caso di Khan, di elementi che hanno conquistato la notorietà su altri terreni. Comunque l’attuale premier di Islamabad non è un totale principiante, fondava il partito che l’ha lanciato al vertice del Paese (Pakistan Tehreek-e Insaf) più di vent’anni fa.
Lo faceva grazie al patrimonio familiare e personale e, certamente, sulla base d’una pianificazione del proprio futuro. Nelle consultazioni del 2018 gli sono state favorevoli le disgrazie del clan Sharif, con Nawaz condannato a dieci anni di carcere per corruzione e il fratello Shehbaz non in grado di rilanciare la Lega Musulmana. Ma soprattutto gli è valso il benestare di due eminenze neanche tanto grigie della politica pakistana interna ed estera: le Forse Armate e l’Inter-Services, componenti che dialogano coi capi delle Intelligence e i ministri degli Esteri delle potenze mondiali. L’attuale mossa para-conciliante con Delhi in un momento in cui potrebbe davvero ripartire un contrasto a ripetizione, propone un altro enigma: prevarranno le recenti maniere morbide e concilianti del populismo di Khan oppure i generali, maestri di doppiogiochismo, tireranno ancora la corda fomentando il radicalismo jihadista? Dal quale - è bene sottolinearlo - non è escluso Khan medesimo. A metà anni Novanta, pur frequentando privé esclusivi di Londra, col suo partito sosteneva e finanziava una madrasa da cui uscirono il mullah Omar e il leader della Rete di Haqqani, il fior fiore del movimento talebano d’Afghanistan.

martedì 26 febbraio 2019

India-Pakistan: alta tensione


L’aveva detto, l’ha fatto. Il premier indiano Modi dopo l’attentato mortale (42 vittime) compiuto in Kashmir da un gruppo islamista contro una pattuglia di militari di Delhi, aveva promesso una punizione esemplare. Questa è giunta stamane da cielo: un attacco aereo che ha varcato il confine pakistano per bombardare un campo dove si presume si raccolgano e addestrino i miliziani del gruppo Jaish-e Mohammed. L’iniziativa può creare tensione col governo di Islamabad, la cui aviazione ha risposto con jet che hanno messo in fuga gli invasori dello spazio aereo. Era dall’inizio degli anni Settata, quando un conflitto fra i due Stati si concluse con la creazione della nazione autonoma del Bangladesh, che gli apparati militari non arrivavano a scontrarsi. Proprio la regione del Kashmir a maggioranza islamica ha già provocato conflitti: nel 1947, quando il Pakistan ottenne la propria autonomia e s’impose come Paese musulmano. E nuovamente nel 1965 e nel 1999. Alcune di queste furono tensioni protratte nel tempo, disputate anche con l’inquietante minaccia nucleare, visto che le due popolosissime nazioni sono entrambe dotate di testate nucleari a seguito di alleanze e appartenenze a sfere geopolitiche.
Nel rispondere alle proteste pakistane il segretario del ministero degli Esteri indiano ha affermato che “l’azione antiterroristica è riuscita, colpendo guerriglieri e loro preparatori”, gli unici obiettivi del raid. Ha poi ribadito che “dopo la strage di propri militari serviva un segnale forte”, lanciato non solo al gruppo jihadista, ma a chi in territorio pakistano li protegge. L’attacco indiano sembra aver coinvolto la provincia di Khyber Pakhtunkhwa a nord di Peshawar, area parecchio oltre il confine, i chilometri sono almeno sessanta non sei come hanno dichiarato i dispacci militari di Delhi. Invece fonti pakistane parlano d’una zona non distante dalla cittadina di Balakot, dunque nel Kahmir sotto giurisdizione pakistana (un’altra fetta della regione ha l’amministrazione indiana). La spedizione punitiva dell’aviazione indiana avrebbe seguito immediatamente l’attacco suicida del gruppo jihadista, è stata rimandata per “non disturbare” la visita del principe saudita bin Salman impegnato a firmare accordi economici per venti miliardi di dollari col premier locale Khan. Comunque la sortita dell’amministrazione Modi è ampia: sono state perquisite case di noti esponenti separatisti kashmiri e, secondo l’emittente Al Jazeera, gente del confine riferisce devastazioni ai propri beni di cui non s’è occupato alcun media. E mentre Imran Khan afferma che certe operazioni indiane sono legalmente perseguibili, il ministro degli Esteri Qureshi alza il tiro: “Il Pakistan si riserva di ricorrere al proprio diritto all’autodifesa”.

sabato 23 febbraio 2019

Doha, terzo atto afghano


Mentre s'avvicina l’atto terzo dei colloqui fra le delegazioni americana e talebana, previsto per il 25 febbraio sempre a Doha, nei giorni scorsi un comunicato del palazzo presidenziale di Kabul notificava la visita del gran cerimoniere di quegli incontri con Ashraf Ghani. Per lenire la solitudine presidenziale mister Khalilzad ha condotto con sé un codazzo di politici, giovani, studenti, membri della società civile, rappresentanti di non meglio identificati settori privati afghani. Un parterre itinerante ma non dialogante con gli americani. Il mediatore evidenzia come il processo di pace non sta finalizzando gli interessi di un solo Paese o di una sua parte etnica, cerca di appagare gli interessi di ciascuna componente presente nella regione. Il riferimento va esplicitamente al Pakistan, da sempre convitato di pietra di ciò che accade oltre i suoi confini occidentali. Ancora una volta a quel tavolo mancherà l’attuale governo afghano, tenuto fuori per volere talebano e non reclamato dagli statunitensi, tantoché non si sa cosa accadrà alle presidenziali del prossimo luglio, difese dall’uscente Ghani e osteggiate dai turbanti, disponibili all’ipotesi d’un governo ad interim. E disposti a parlarne con gli occupanti occidentali, non coi loro servitori locali. Bisogna ricordare che le parti a confronto si son date un tempo massimo di 18 mesi per sottoscrivere l’accordo. Otto sono già trascorsi.

Ora si riprende dai princìpi di non ritorno. Sul fronte talebano in testa c’è il ritiro dell’esercito occupante. Che riguarda certo le 14.000 presenze della Nato (per metà statunitensi, per altra parte divise fra i 38 Paesi delle coalizione coi 900 militari italiani), ma può riguardare anche i “contractors” che all’epoca del grande esodo del 2014 erano calcolati in 30.000 unità. Fra una chiacchiera e l’altra i funzionari Usa hanno detto che per ragioni di sicurezza di ambasciate e altro, almeno mille marines armati di tutto punto, dovranno comunque restare. Resta anche l’incognita delle basi aeree cui il Pentagono non rinuncia e che non saranno vuote. E allora? Allora tutto si patteggia e si mercanteggia. In fondo la “liberazione” del Paese ha prezzi da pagare e cifre da riscuotere e una volta saliti al rango d’interlocutori primari i taliban trattano sulle contropartite. Finora la rete di analisti locali ha individuato le seguenti: rimozione talebana dalla lista nera del terrorismo mondiale, rilascio di prigionieri (se ne calcolano almeno 10.000), apertura definitiva dell’ufficio di Doha, fine della velenosa propaganda contro l’Emirato dell’Afghanistan. Altra richiesta cocente risulta una nuova Costituzione poiché l’attuale, che i talebani considerano copiata da un modello occidentale, non garantisce un sistema islamico indipendente. La nuova Carta dovrebbe essere realizzata da religiosi, intellettuali, giuristi, studenti coranici.

Da parte americana si chiedono garanzie per escludere spazi territoriali a gruppi jihadisti come Qaeda e quelli attivi nella regione: Lashkar, Taiba, il movimento islamico uzbeko e il bombarolo Islamic State Khorasan Province, attivissimo negli attentati nella capitale per tutto il 2018, e comunque visto dai turbanti ortodossi come un indesiderato rivale. In realtà la collaborazione fra Osama bin Laden e talebani, sulla base del passato combattentistico del mullah Omar come mujaheddin antisovietico, è terminata da tempo. Non solo per la scomparsa dei due leader, ma per differenti prospettive assunte dai seguaci. Proprio l’invasione americana dell’Afghanistan e la cacciata degli studenti coranici dal governo di Kabul ha rilanciato questo movimento che si accredita della resistenza all’occupante e in 18 anni ha accresciuto reclutamento e presenza sul territorio. I finanziamenti che bin Laden elargiva grazie alle casse saudite col tempo non ha più allettato i talebani diventati autosufficienti grazie a traffico di oppio, tasse riscosse nelle province governate e dazi doganali nei trasferimenti di merci lungo le vallate che essi controllano. Altro tema scottante e attinente alla sicurezza è cosa fare dell’enorme (e grandemente inefficiente) apparato dell’esercito locale, cui per un decennio sono stati destinati “aiuti” e attenzioni occidentali. Andrà rilanciato? E le milizie talebane saranno disarmate o integreranno quella struttura?

Bisognerà anche capire chi sottoscriverà gli accordi visto che, come ricordavamo, una parte della politica ufficiale afghana è tagliata fuori dai colloqui. Da parte sua Ghani sostiene che a breve ci sarà una Loya Jirga delle donne, che converranno da 34 province. A suo dire ciò che serve per consolidare il processo di pace sono azioni condotte da cittadini, non dalle élite. Ma, al di là della boutade populistica, di quest’assise il presidente non può garantire neppure la sicurezza, seppure in questa fase i taliban colloquianti abbiano sospeso ogni azione militare. Però non è detto che chi dissente dalla Shura di Quetta non possa farsi vivo a suon di bombe, e non parliamo solo dei jihadisti dell’Iskp. La Loya Jirga che promette lo spiazzato presidente è, dunque, un moto personale o un desiderio per rientrare in gioco. I suoi sponsor per ora l’hanno ignorato. Mentre sul tavolo moscovita (c’è anche questo), accanto ad alcuni potentati locali sempre attivi, è apparso l’immarcescibile Karzai che sembra trovare udienza nei mediatori russi. Davanti a un’oggettiva debolezza nelle trattative della questione di genere e dei diritti civili, i talebani hanno proposto una propria bozza dei diritti affinché “venga garantita a tutta la cittadinanza l’accesso a educazione, lavoro, salute”. Il tutto allargato alle donne, secondo i rigidi princìpi della legge islamica. Forse i fondamentalisti potrebbero diventare un po’ più morbidi barattando una maggiore flessibilità con una legge d’amnistia.

Infatti propongono un’immunità giudiziaria per il passato politico e militare, a eccezione di vicende individuali con offese personali e, bontà loro, anche criminali. Fra le richieste circolanti sui tavoli degli incontri, menzionate da Khalilzad, ce ne sono alcune sostenute da politici si dice vicini a Ghani che pongono clausole imprescindibili per il modello di Paese futuro: unità e sovranità nazionali, integrità territoriale, un forte governo centrale e fondamentali diritti dei cittadini. Ma gli attori del tavolo di Doha non pongono questi temi al centro del dialogo, né s’interessano della libertà d’espressione rivendicata da un gruppo di giornalisti e da componenti della società civile. A far zoppicare le richieste, palesi o celate, dell’entourage di Ghani ci si mettono proprio alcuni esperti della comunicazione che hanno detto, e scritto, che il presidente ostracizzato dai talebani vorrebbe sedere a quel tavolo non per ricercare una via d’uscita pacifica alla crisi, bensì per rilanciare se stesso e il suo futuro politico che sembrano decisamente offuscati. Tratti personalistici  che, del resto, molti commentatori occidentali attribuiscono a Trump, interessato a sostenere i colloqui per rivenderne i risultati nella campagna presidenziale americana del 2020. Nella politica globalizzata nessuno fa niente per niente e gli interessi risultano sempre soggettivi.  

giovedì 21 febbraio 2019

Egitto, Sisi continua a fare il boia


Mentre la corda si stringeva definitivamente attorno al collo degli Ahmed e Abdel, questi figli d’Egitto avranno maledetto, prima del generale loro boia, il Paese che sta permettendo la mattanza. Li hanno impiccati in nove, con l’accusa d’essere terroristi bombaroli, di aver assassinato il procuratore Hisham Barakat, fatto saltare in aria con un’auto imbottita d’esplosivo il 29 giugno 2015. All’inizio di questo mese c’erano state altre esecuzioni capitali, un crescendo che rende il regime di Sisi molto più dispensatore di morte diretta, indiretta e legalizzata d’ogni altro raìs che abbia governato la grande nazione araba dall’epoca della sua decolonizzazione. La pratica del terrore mascherato da giustizia non è nuova nel meccanismo repressivo adottato dal generale-golpista. Il regime la profonde a piene mani nelle situazioni più varie. Si ricorderà la fine fatta fare a un manipolo di ladruncoli accusati d’essere i “sequestratori” di Giulio Regeni. Un inseguimento in auto finito a raffiche di mitra che hanno silenziato per sempre quegli sbandati fatti passare per rapitori. Fu uno dei depistaggi attuati dal ministro dell’Interno Ghaffar, fedele collaboratore di Sisi nelle trame nere che offuscano la vita di milioni di cittadini. Cui viene richiesta la collaborazione decretata per paura, disinteresse, omertà, sottomissione alla legge del più forte, disperazione, mancanza di alternative. E’ la regola non scritta delle dittature populiste che parlano e seviziano il popolo in nome del popolo mentre quest’ultimo plaude al proprio carnefice o guarda altrove perché si sente impotente.
I nove giovani impiccati erano considerati da fonti poliziesche vicini alla Fratellanza Musulmana, e questo diventava già motivo di detenzione e condanna carceraria, attribuirgli l’attentato al magistrato ne ha preparato la strada al patibolo. Certo, i vertici della Confraternita non amavano Barakat. Fu lui, diventato dai primi giorni del golpe bianco rigido repressore legale della Fratellanza, a ordinare il congelamento dei beni del Gotha politico islamista, colpendo Badie, al Shater, Ezzat, al Katatny, e ministri del deposto presidente Morsi. Quest’ultimo venne accusato di spionaggio, alto tradimento e condannato a morte, sebbene nei suoi confronti l’esecuzione è stata più volte rinviata. Non così per i molti attivisti e quadri intermedi della Brotherhood. A fronte di oltre 1.400 sentenze capitali ne sono state eseguite un’ottantina. Per i nove impiccati di ieri sono rimasti ancora una volta inascoltati gli appelli di Amnesty International e di altre Ong dei diritti, anche perché la linea ferrea dovrebbe incutere quella paura diffusa con cui i militari hanno deciso di paralizzare l’opposizione e bloccare iniziative politiche d’ogni genere. Le uniche neppure sfiorate da timori e tentennamenti sono le reali azioni jihadiste che continuano ad avere nel Sinai gruppi attivi e pure iniziative simulate dall’Intelligence interna che, grazie a esse, può incrementare l’escalation repressiva.   

venerdì 15 febbraio 2019

Strage di militari nel Kashmir: l’India accusa il Pakistan


Il Grande Medio Oriente delle bombe sopravvive e prospera in faccia a ogni pretesa di pacificazione e controllo. Sia esso il meeting filoamericano di Varsavia in atto in questi giorni, plasmato in funzione anti iraniana per convincere i partner europei a sostenere rottura degli accordi sul nucleare e ripresa dell’embargo. Siano i molteplici tavoli di trattativa fra statunitensi e talebani per il presente e il futuro in Afghanistan. Di fatto chi vuol dar fuoco alle polveri, lo fa. Era stata appena battuta la notizia della sanguinosa deflagrazione contro un reparto di Guardiani della Rivoluzione iraniani, colpiti nel Baluchistan sul confine pakistano, che giunge la nota di un’altra strage. A Srunagar, capitale del Kashmir. A farne le spese sempre militari, stavolta 42 indiani. Il premier conservatore Modi non ha usato mezzi termini, accusando direttamente il nemico storico, la nazione pakistana, rea perlomeno di non controllare quel che si muove nel suo territorio. Secondo Modi Islamabad deve ricevere “una risposta dura che attui un suo completo isolamento”. E ancora: “Chi ha commesso l’atroce azione pagherà un duro prezzo insieme a chi lo sostiene”.
In questo caso l’azione è attribuita al gruppo Jaish-e-Mohammad, formato vent’anni fa da un mujaheddin che aveva combattuto sotto l’ombrello di al-Qaeda, e che rivendica con l’esplosivo un distacco del Khashmir dall’India, visto che in quell’area i musulmani sono la comunità più numerosa. Il nucleo Jaish, su posizioni fondamentaliste, riceve il sostegno dei talebani afghani che vedono nell’India un alleato strategico degli Stati Uniti fra i Paesi della regione. Ma lo stesso Pakistan ha ricevuto attacchi dai miliziani del JeM nella persona di Pervez Musharraf, in un paio di occasioni l’allora presidente scampò ad attentati commissionati dai filoterroristi islamisti. Quest’ultimi con la pratica suicida  realizzata da kamikaze riescono a portare a termine operazioni stragiste in luoghi difficilmente accessibili. Così è accaduto in questa circostanza nella quale il bus che trasportava i soldati indiani è stato letteralmente maciullato dall’esplosione. Oggettivamente non è un segreto che, accanto alla forza del proprio esercito che in una fase storica impose un proprio generale (Zia-ul Haq) alla guida del Paese, il Pakistan abbia un’altra componente scaltra, attivissima e cinica impegnata nei giochi loschi della geopolitica: l’Inter Services Intelligence.
Essa agisce fuori da qualsiasi controllo statale, tanto da ordire attentati interni e ed esterni, favorire gruppi di pressione o componenti fondamentaliste come i talebani delle Aree tribali di amministrazione federale o della Shura di Quetta. Ma tutto ciò accade da decenni e vede i presidenti che si succedono nello Studio Ovale disinteressarsi di simili comportamenti, oppure avallarli o censurarli senza che nulla cambi. Il Pakistan può sostituire premier e capi di Stato, costoro subiscono gli orientamenti tattici dell’Isi che prende ordini dalla Cia e in certe occasioni fa direttamente di testa sua. Il pentolone del fondamentalismo jihadista da cui pesca momentanei alleati di comodo per destabilizzare situazioni regionali, e in certi casi anche interne nel confronto-scontro con la lobby militare di casa, è noto da tempo. Eppure nulla cambia. Se stavolta l’India punterà i piedi e cercherà, come promette Modi, l’isolamento internazionale del nemico giurato pakistano è tutto da verificare. Le due pretenziose nazioni dell’Asia centrale si muovono in parallelo fra la tutela statunitense e il richiamo di nuovi numi geopolitici come la Cina. New Delhi può volere reprimende verso l’ambiguità di Islamabad, ma in Kashmir corre pericoli ancora più consistenti degli agguati al tritolo di JeM, visto che ribellioni popolari come quella d’un decennio fa sono sempre possibili e pericolose.

giovedì 14 febbraio 2019

Baluchistan, autobomba sui pasdaran


Con l’eco dei festeggiamenti per il quarantennale della Rivoluzione Islamica ancora nell’aria, il popolo (o quella parte tuttora fedele ad ayatollah e guardiani della rivoluzione) stretto attorno agli stendardi nazionali, alle parole d’ordine diffuse dagli altoparlanti d’un luogo simbolo di Teheran, l’enorme piazza Azadi, rimane colpito dalla notizia di nuova insicurezza che sedimenta sull’instabilità nazionale: l’ennesimo attentato. Un’auto bomba è esplosa durante il passaggio di un mezzo che trasportava un reparto di pasdaran in un’area di confine col Pakistan. E’ la martoriata regione del Baluchistan, dove la presenza di gruppi di guerriglia sunnita conduce da anni attentati e assalti soprattutto contro le forze armate iraniane. In azione in più punti di quell’area, centrale di snodo di traffici di oppio di produzione afghana, gruppi separatisti, come il cosiddetto Jundallah, che puntano all’autonomia dall’Iran e dal Pakistan. Quest’ultimo attraverso certi governi e le iniziative spesso indipendenti della sua agenzia d’Intelligence (ISI) interviene a sostegno di leader talebani che hanno posto a Quetta la propria base. Nella città a 120 chilometri dal confine afghano, ha sede la famosa Shura organismo politico-militare più importante della galassia talebana.
L’attentato di ieri è stato compiuto a Zahedan, un tempo chiamata Dozz-aap (il nome, mutato sotto il regno di Reza Pahlavi, è sopravvissuto allo Shah), una cittadina prospiciente un tratto desertico.  Mentre il mezzo, che trasportava militari sul confine pachistano, transitava un kamikaze alla guida d’una macchina l’ha affiancato e ha innescato il carico esplosivo. Così sono morti ventisette guardiani e un numero imprecisato è rimasto ferito,  alcuni gravemente. La notizia è stata diffusa dall’agenzia Fars che ha riportato anche un commento piccato del ministro Zarif. Il responsabile iraniano degli Esteri sottolinea la strana coincidenza della ripresa terroristica in contemporanea con l’avvìo della conferenza di Varsavia volta alla “promozione di futura pace e sicurezza in Medio Oriente”, di fatto un puntello della linea anti iraniana lanciata dall’amministrazione Trump nella politica estera statunitense. Tantoché nello sviluppo di quest’assise i big dell’Unione Europea si sono smarcati inviando rappresentanti minori. Così il Segretario di Stato statunitense Pompeo si ritrova a patteggiare principalmente con le voci dell’estremismo istituzionale del Medio Oriente: il premier, forse ancora per poco d’Israele, Netanyahu e il principe assassino bin Salman che il quadro internazionale pare aver perdonato per uno dei più truculenti omicidi geopolitici degli ultimi tempi, assieme a quello di Giulio Regeni, che ha prodotto lo smembramento del corpo stordito dell’opinionista saudita Jamal Khashoggi.

martedì 12 febbraio 2019

Egitto, Sisi per sempre


Vuole di più di quel che vede e di ciò che ha, Abdel Fattah Sisi.  Sentendosi dentro e anche fuori dall’Egitto una pedina importante del futuro di Maghreb e Mashreq, della ricomposizione in atto nel Medio Oriente il presidente golpista punta a far emendare quella Costituzione votata in occasione del suo primo mandato nel 2014. Gli otto anni sino al 2022, che due elezioni plebiscitarie col 97% dei consensi gli garantiscono, gli stanno stretti. S’è guardato attorno: in patria ha schiacciato tutti. Ha fatto arrestare l’opposizione pericolosa che gli faceva ombra, sia quella organizzata della Fratellanza Musulmana, sia quella della dissidenza intellettuale e giovanile. I partiti liberal-liberisti e la pseudo sinistra contano poco, una parte di essi che si ritrova coi  Moussa, Baradei, Sabahi è stata complice del suo golpe bianco, accorgendosi nei mesi seguenti di poter diventare essa stessa bersaglio d’un restaurato autoritarismo istituzionale. Ma guardandosi attorno al generale che si sente statista non basta primeggiare nel Paese. La sua megalomanìa vuol lasciare il segno, vuole oscurare persino il servilismo filoccidentale di chi l’ha preceduto, Hosni Mubarak, rimasto al potere per un trentennio. Vuole sedere accanto al padre dell’Egitto contemporaneo Gamal Nasser.
Quella geopolitica di cui facciamo parte con l’Unione Europea e qualsiasi amministrazione si succeda alla Casa Bianca considera l’attuale uomo forte egiziano una pedina centrale sullo scenario mediorientale. E Sisi che, dopo aver dimostrato quale pasta criminale si celi dietro lo sguardo mansueto che sfoggia sin dai primi giorni del suo insediamento, si prende sul serio nell’incarnare il ruolo del presidente eterno. Vuol imitare il Presidenzialismo con la maiuscola di Erdoğan e di Putin, perpetuarsi al potere e finire sui libri della storia nazionale. Per poterlo fare, anche grazie al terrore diffuso a piene mani con cui ha riempito le prigioni del Cairo e dintorni, grazie a un’informazione azzerata usa i media asserviti come quelli che  da settimane suonano la grancassa del suo progetto: emendare diversi articoli della Costituzione vigente così da poter restare al potere per un periodo estensibile sino al 2034, quando avrà ottant’anni. Così diventerebbe una sorta di Bouteflika, visto che il presidente-mummia dell’Algeria proprio in queste ore s’è riproposto per un quinto mandato. Nella regressione politica mondiale, tutta incentrata su lobbies, clan familiari e affaristici certe situazione si riproducono a tutto svantaggio delle classi subalterne che hanno sperato nelle promesse scaturite dal glorioso periodo delle lotte anticoloniali. E dunque: il Parlamento egiziano dovrà discutere entro 60 giorni questi emendamenti della Carta e poi votare.
In caso di sicura approvazione, visto che i 596 seggi sono ad amplissima maggioranza controllati dal partito presidenziale, si potranno ratificare i ritocchi costituzionali con un referendum popolare. La propaganda di regime già prevede il periodo: prima dell’inizio del Ramadan che quest’anno prende avvio il 5 maggio. Oltre al prolungamento ad libitum dell’attuale incarico per Sisi per consentirgli “la trasformazione del Paese, la sua modernizzazione, la revisione economica e la lotta al terrorismo”, un programma che il generale insegue da cinque anni senza successi, gli emendamenti creano un ufficio di vicepresidenza, un ripristino del Senato, introducono una quota del 25% di seggi da riservare alle donne. E si medita di creare rappresentanti per categorie (lavoratori salariati, agricoltori, giovani e soggetti non abbienti). Ma occhio ai provvedimenti che contano: il presidente avrebbe il potere di nominare i magistrati e superare la supervisione giudiziaria dei disegni di legge prima che siano convertiti e approvati in legge. Mentre la lobby militare, da sempre osannata come protettrice del popolo (anche quanto lo bersaglia di pallottole, ne sequestra i figli, li sevizia, li fa sparire) viene considerata “una protezione dello Stato, della democrazia (sic) e della Costituzione”. La fase finale della dittatura è servita, tutta col “consenso” popolare.   

lunedì 11 febbraio 2019

Colloqui afghani, imparare dagli errori o perseverare


Uno dei motivi a sostegno dell’ottimismo con cui il gran cerimoniere dei colloqui di pace fra Stati Uniti e taliban, Mr Khalizad, guarda al bicchiere mezzo pieno è che “si impara dagli errori commessi”. La frase pronunciata da una delle voci ufficiali dei mediatori a confronto, Nazar Mutmain cresciuto vicino al mullah Omar, è portata ad esempio della buona volontà con cui le parti si confrontano. Abbiamo già ricordato i punti fermi e irrinunciabili di ciascun fronte: gli americani chiedono e vogliono che i talebani non forniscano basi al jihadismo dell’Isis e di Qaeda. Imparando dagli errori commessi i turbanti affermano che saranno accontentati. Poi chiedono ai nemici che potranno diventare amici di ritirarsi dall’intero territorio afghano e Washington fa sapere d’essere disposto a portar via entro aprile settemila marines e successivamente altrettanti, così da mostrare che non ci saranno più occupanti stranieri. L’ordine varrebbe per tutti gli alleati Nato, dunque anche per i circa novecento soldati italiani presenti prevalentemente nella base di Herat. Contractors esclusi.
Già le basi. Finora nei dialoghi nulla trapela sulla sorte delle tredici basi aeree che gli States hanno disseminato nel Paese. Dovrebbero continuare a essere attive con tanto di personale di servizio che sarebbe giustificato proprio dal contrasto al terrorismo del Daesh, che non deve trovare sostegno fra gli studenti coranici. Per ora si sa solo che un tot di agenti della Cia avranno il permesso di restare in loco a svolgere la propria missione di “controllo e supervisione”. In cambio i talebani sarebbero sdoganati per entrare nel futuro governo d’unità nazionale senza rinunciare al loro credo sull’applicazione della Shari’a. All’agitazione d’una parte della società civile e femminile, gli officianti dei colloqui hanno contrapposto altra società civile afghana che s’è seduta attorno al tavolo predisposto a Mosca dal Cremlino al seguito dell’ex presidente Karzai. Costoro accetteranno gli orientamenti fondamentalisti dei turbanti, anche perché negli anni precedenti, con Karzai e con Ghani, certe tendenze avevano sempre trovato udienza in quei governi. Dunque nulla di nuovo. Eppure con l’intensificarsi dei dialoghi di pace aumentano le azioni di guerra.
Anche questa può essere una tattica antica: ciascuno vuole firmare accordi che, magari non rispetterà, da posizioni di forza. Notizie e dati diffusi dal Pentagono mostrano una crescita di attacchi aerei e d’artiglieria nell’ultimo anno. Le cifre ne contano 7.000, nel 2014 erano scesi a 2.365. Fra l’altro dallo scorso settembre a oggi ne sono stati contati 2.100. Poi, tanto per dire, solo in questo fine settimana in alcune zone ormai a totale giurisdizione talebana (Kandahar, Helmand, Nangahar) sono stati colpite postazioni dei turbanti e uccisi una decina di loro comandanti, seppure di basso rango. I fatti dimostrano che pur trattando e dicendo di voler colpire l’Isis, il generale Miller, attuale responsabile militare statunitense nel quadrante afghano, rivolge il mirino anche sui nemici con cui si dialoga. Quest’ultimi non sono da meno. Dopo un parziale e mai totale periodo di tregua, coinciso peraltro con l’inverno, anche la guerriglia ha ripreso azioni contro stazioni di polizia e check point controllati dall’Afghan Security Forces. Ultimamente nel Wardak è stata  assaltata una base dove venivano addestrati agenti della locale Intelligence. Un monito. Come a dire: nell’Afghanistan prossimo venturo non avrete bisogno di certe spie. Dovrete contare su di noi. 

mercoledì 6 febbraio 2019

A Mosca i talebani dettano la propria agenda


In pieno fermento di trattative su più tavoli, frequentati da potenze mondiali, i talebani dettano la propria agenda. Se ci vogliono – pensano e dicono – dovrà essere alla maniera nostra. Così nei colloqui che si svolgono in queste ore a Mosca con lo staff predisposto da Putin, uno dei capi negoziatori taliban, Abbas Stanakzai, se la prende con l’attuale Costituzione afghana giudicata illegittimata e un ostacolo ai passi in atto per la pacificazione del Paese. Dunque, occorrerà lavorare per un nuovo testo realizzato con studenti coranici e accademici, per poi sottoporlo all’accettazione della popolazione. Dopo il ritiro delle truppe americane (che il presidente Trump ha ribadito nel discorso di ieri allo Stato dell’Unione), la domanda dei turbanti riguarda se stessi: i nomi dei propri leader dovranno essere rimossi dalla ‘lista nera’ stilata dagli Usa, cosicché potranno viaggiare liberamente per il mondo nella veste di ambasciatori di pace. Un richiamo macabro comunque realistico: vogliono trattare da pari a pari con tutti, futuri alleati ed ex nemici. Al tavolo russo non sedeva l’attuale diarchia afghana Ghani-Abdullah, ma c’era l’antico presidente-fantoccio creato da Washington: Hamid Karzai.
Proprio lui ha esordito con la speranza che Pakistan e Afghanistan (rappresentato da chi resta un’incognita) possano forgiare buoni rapporti per una riuscita positiva dell’incontro moscovita. Vestendo i panni del saggio il capo clan Karzai, con fratelli impegolati in affari più o meno loschi (il più chiacchierato e al soldo della Cia, Ahmed Wali, venne freddato nel 2011 davanti alla sua abitazione, trafficava oppio), s’è collegato all’altro tavolo di contatto coi talebani, quello tenuto dai suoi amici statunitensi a Doha. Sebbene, differentemente da quei colloqui secretati, in questa sede si sia discusso addirittura in collegamento sui social media. La voce talebana ha trattato parecchie questioni: pace, governo, salute, progetti di sviluppo, servizi e addirittura diritti di genere. Tema quest’ultimo che mette in fibrillazione le donne del Paese, non solo le attiviste d’opposizione più note (Joya, Ghaffar, Roshan) ma le stesse parlamentari vicine ai governi filoccidentali che temono un ritorno del fanatismo fondamentalista. Giocando con la memoria Stanakzai ha revisionato il passato; ha dichiarato  che gli studenti coranici non chiudevano né tantomeno bruciavano le scuole femminili (sic).
Il suo negazionismo sosteneva l’estraneità del movimento alle stesse morti di civili tramite gli ordigni antiuomo (IEDs). Un discorso quasi ecumenico per cui: la pace necessita di realismo e consenso popolare, oltreché di forti garanzie generali. Gli hanno fatto eco altri colloquianti, ad esempio Qanooni, uomo della vecchia guardia, ex vicepresidente, un tajiko alleato di Signori della guerra del calibro di Massud e Fahim, compagnìe non certo libertarie. Nel balletto delle buone intenzioni ha dichiarato che “L’epoca della guerra è terminata”, che “Due milioni e mezzo di martiri per la nostra Repubblica Islamica sono troppi”. Meglio tardi che mai. Per la cronaca questo signore, un tempo aderente all’Alleanza del Nord, sostenne nel 2001 l’invasione statunitense della nazione che ora vuole pacificare. Oggi afferma: “Nel nostro Paese c’è una generazione dinamica, dobbiamo riformare il sistema con una democrazia compatibile ai nostri valori”. Mentre un altro partecipante al simposio, Mohammad Mohaqqiq, hazara e warlord tende la mano ai talebani ricordandone la comune fede islamica. L’Afghanistan della pace futura ha radici ben salde nel suo percorso di guerra.    

martedì 5 febbraio 2019

Papa Francesco ad Abu Dhabi: le fedi contro le bombe


La guerra non può creare nient’altro che miseria, le armi non portano nient’altro che morte”. Il grande imam di Al-Azhar, Ahmad Al Tayyib, annuisce e sottoscrive le parole di papa Bergoglio. I due s’abbracciano, seguiti dalla piazza e dai media che rilanciano la storicità di questa prima volta della massima autorità cattolica in terra d’Islam. Alla presenza di settecento fra imam, vescovi, rabbini provenienti da tanti angoli del mondo questa convergenza segna il successo dell’iniziativa voluta dal ‘Muslim Council of Elders’. Però, mentre il papa non fa sconti a certa politica che utilizza le armi e ripete: “ogni violenza va condannata senza esitazione, è una grande profanazione del nome di Dio utilizzarlo per giustificare odio e violenza contro il fratello” quindi richiama vigilanza affinché “la religione non venga strumentalizzata ammettendo violenza e terrorismo” un grande media mondiale, l’emittente CNN, rivela una verità già nota. Le armi che gli Stati Uniti vendono ai maggiori Paesi del Golfo (Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti) finiscono anche in mano jihadista e terrorista. Non è certo uno scoop. Anzi, può apparire una notizia pilotata per vanificare l’effetto pacifista delle parole di Francesco da parte di chi, gendarme del globo come gli Usa o ambiziosa potenza regionale come la monarchia saudita, desidera comunque aver mano libera ben oltre ogni buon proposito. Intenzioni lette come noiosa predica dai signori del potere e delle guerre a ogni costo, che sbeffeggiano coi fatti il profondo significato di parole e piani di questa tre giorni di fraternizzazione. Così l’uomo in bianco venuto da Roma, accolto con tutti gli onori dalla casta degli sceicchi che si fregiano del grande evento, è trattato con estrema cortesia, ma scarso sentimento. Il comune sentire appartiene agli uomini di fede rappresentati dall’imam di Al-Azhar che sono un’infinità nel travagliato Medio Oriente. I locali leader politici sotto le keffie seguono altre logiche, tutt’altro che pacifiche, come gli omologhi occidentali abbigliati in tweed o in smoking, fedeli solo nelle cerimonie ufficiali. La bellezza e l’utilità dell’incontro interreligioso, indicato pur da figure chiave dei tre credo monoteisti, difficilmente otterrà la vicinanza da una politica che risponde a propri egoistici interessi, magari ciascuno pregherà alla sua maniera ma si tratta d’una recita formale priva d’umanità. Francesco l’ha detto, molti imam e rabbini lo ribadiscono. Chi governa non ascolta, prosegue a bombardare in Yemen, Siria, Iraq e altrove. Facendosi beffa anche di Dio.

lunedì 4 febbraio 2019

Abu Dhabi, l’incontro degli uomini in bianco


Il viaggio all’insegna della tolleranza che il papa cattolico intraprende verso lidi ammantati di tradizione e conservazione, gli Emirati Arabi Uniti, è una scommessa che questi due mondi e tutto quel che ruota attorno - religione, teologia, cultura, visione e rappresentazione della società - hanno reciprocamente deciso d’intraprendere. Negli ultimi anni, in un panorama internazionale occupato prevalentemente da uomini forti e speculatori della geopolitica, l’uomo in bianco viene percepito come un costruttore, parecchio diverso da predecessori ideologicamente animati da progetti distruttivi. Chi ama la Storia ha rispolverato nientemeno l’approccio del Francesco originario, il poverello d’Assisi, col sultano Al Malik a Damietta. Mah… I fasti da Terzo Millennio messi in vetrina ad Abu Dhabi sono altra cosa, pur essendo giocati con discrezione dal padrone di casa che dalla visita dell’illustre ospite s’attende un gran ritorno d’immagine. Khalīfa bin Zāyed, settant’anni, emiro succeduto di Zāyed bin Sultān, e cugino di Tamim al Thani, emiro del Qatar, è un uomo concreto e imposta una strategia.
Aprire un discorso su un’acquisita tolleranza del suo Paese verso i cattolici lì presenti come forza lavoro straniera (si pensi a filippini e indiani), può rappresentare una favorevole carta da giocare sul tavolo d’una politica estera piuttosto spericolata. Accanto alla repressione interna, dna congenito delle petromonarchie, l’ultimo biennio di Khalīfa che governa dal 2004, s’è sviluppato all’insegna del mascheramento seguendo le orme del più giovane e più famoso saudita bin Salman. Tolleranza a parole, e non per tutti, repressione nei fatti. E soprattutto guerra. Il conflitto che la dinastia Saud ha scatenato in Yemen intervenendo con uomini e mezzi contro i ribelli Houti e contro i civili dell’etnìa che segue il culto sciita, vede nel governo degli EAU un convito sostenitore e alleato. Perciò quella particolare geopolitica che segue il Vaticano come fosse uno Stato Pontificio de facto, si domanda se il capo dell’influente entità, uomo mite ma uomo di mondo a tuttotondo, porrà all’interlocutore due domande scomode. La prima sul conflitto che si ripercuote tragicamente sulla popolazione civile e sui bambini ridotti alla fame dal miserabile embargo praticato contro lo Yemen, è la più attesa.
Dovrebbe essere anche scontata, visto che il papa l’ha indicata dallo speciale pulpito che dà sul colonnato del Bernini alla vigilia di questo viaggio. L’altra gli giunge dalla cosiddetta società civile che guarda al pontificato di Francesco di questi anni come una missione rivolta ai deboli del mondo. Le masse vessate e abbandonate dagli opportunismi d’una politica che disconosce non solo solidarietà e umanità, ma ogni scampolo di pietà e gode del suo maramaldeggiare. Dunque, c’è chi attende un richiamo papale al senso di giustizia sociale e tolleranza vera verso chi ha pensieri e argomenti differenti dal sistema di potere. Affermare un’apertura mentale di facciata senza applicarla a tutti i campi della vita del proprio Stato è il grande neo dell’emiro. Ricordarlo sarà il miracolo che il mondo dei buoni chiede al suo ambasciatore. Un miracolo che potrebbe non avverarsi se, invece, dovesse prevalere l’altro pur importante fattore, l’incontro in terra d’Islam coi rappresentanti di quel culto che hanno spedito l’imam di Al Azhar Al Tayyeb ad accogliere l’omologo. In fondo le religioni hanno preso a parlarsi e confrontarsi, chi non lo fa sono i politici che le usano per fomentare i propri fondamentalismi. E questi non sono esclusivamente d’impianto wahhabita.