martedì 28 febbraio 2017

Caso Yucel, le vendette del sultano

La vicenda che ha condotto da due settimane in carcere il giornalista tedesco di origine turca Deniz Yucel è di quelle che, coinvolgendo gli affari loschi di famiglia del presidente Erdoğan, ha ricadute pesantissime. Il sultano da oltre un triennio è impegnato su due terreni di scontro politico-giudiziario. Il principale coinvolge l’accentramento autoritario del suo modello di Islam politico, l’altro ha risvolti sugli intrighi economico-politici del suo clan. Entrambi i terreni vedono impegnate le forze dell’opposizione, soprattutto quella sociale che ne contesta contenuti e modalità, più la pattuglia dell’informazione impegnata a indagare e rivelare i tragici giochi di potere del padre-padrone, intento a rinnovare la patria secondo voleri e interessi personali. Yurcel inseguiva la pista delle rivelazioni di Wikileaks sulle mosse del ministro dell’Energia, nonché genero del presidente, Berat Albayrak, rafforzate dall’operazione di hackeraggio del gruppo RedHack, che nei mesi scorsi ha scaricato una gran quantità di gigabyte dell’account postale dell’uomo politico. Questi, ben prima dell’incarico istituzionale e dei legami familiari con gli Erdoğan e anche dopo, dal 2000 al 2016, ha intrattenuto contatti con l’azienda PowerTrans interessata al commercio petrolifero. Un mercato che si è aperto all’Isis, proprio nel periodo in cui la sigla jihadista ha creato il Daesh, imponendo la macabra presenza nell’area siro-irachena e controllando almeno una dozzina di giacimenti di idrocarburi. Alcune delle 58.000 email pubblicate da Wikileaks, riguardavano l’impacciato tentativo del ministro turco di cercare coi suoi legali escamotage per dimostrare di non aver rapporti con quella ditta.
Oltre all’imbarazzante posizione di mister Albayrak, diventato un politico di grido nelle gerarchie dell’Akp dopo essersi accasato con Esra, la maggiore delle figlie del Capo di Stato, all’epoca premier, le lettere trafugate rivelavano tutte le mosse realizzate dal cerchio magico del sultano per contrastate l’aggregazione social-progressista che la contestazione del Gezi park andava creando. Siamo nella primavera 2013. Un fenomeno prettamente istanbuliota, con echi allargati a qualche altra città metropolitana, un po’ Ankara e la sempre repubblicana Izmir, che mette però in palpitazione l’establishment turco e accentua la divisione con alcune figure di primo piano. Su tutti l’allora presidente Gül che prende le distanze dalla dura repressione ordinata da Erdoğan. Frattanto nel sud-est anatolico montava la rivendicazione kurda confortata dalla grande avanzata del nuovo soggetto politico, il Partito democratico dei popoli, allargato a elementi marxisti e progressisti. La polarizzazione che, con crescendo rossiniano, ha raggiunto i picchi oggi conosciuti, parte da lì. Coinvolgendo altri scenari e altri soggetti, ma in tal senso l’individualismo egocentrico di Erdoğan ha ampliato e intrecciato visuali d’incontro, trasformandole in terreni di contrasto, un po’ con tutti: kurdi, gülenisti, jiahadisti. Si dirà: è la politica ‘a tuttotondo’, in realtà l’uomo che vuol impersonare la Turchia e propone un’accettazione passiva dei suoi piani, lascia in alternativa solo ‘il tuttoscontro’. Fra i nemici acerrimi da combattere ci sono i giornalisti. In questo l’uomo forte anatolico, non è diverso da altri megalomani avvinghiati al potere, con l’ausilio delle urne o di giochi delle parti, per conservarlo a vita. Statisti pronti a screditare, arrestare, eliminare i ficcanaso dei media. In alcune latitudini anche fisicamente.

Ed eccole le persecuzioni delle testate d’opposizione: la filo kurda Özgür Gündem, la progressista Cumhuriyet; oppure il repulisti attuato verso il gruppo mediatico Koza-İpek Holding (quotidiani Zaman, Bugun, Millet e la tv Kanaltürk) afferente alla cerchia di Fethullah Gülen e perciò  perseguitato con chiusure, epurazioni e sostituzione di direttori e corpo redazionale (diversi giornalisti della vecchia gestione sono finiti in prigione, alcuni ci sono rimasti). Poi, quando si tocca il terreno minato d’interessi di clan, che sono ovviamente coinvolgimenti anche politici perché la faccenda dell’acquisto del petrolio dall’Isis che fa il paio con quella delle granate nascoste nelle casse dei medicinali, hanno valenza pubblica e statale, allora al presidente che si sente intoccabile fumano gli occhi. Così attacca pure il reporter Yucel che è turco, ma lavora per la testata tedesca Die Welt, e la sua detenzione sta avendo una ricaduta diplomatica, visto che la cancelliera Merkel ha, per ora, espresso il proprio  “disappunto” e sotto la pressione di colleghi di Yucel, ripresa da diversi parlamentari del Bundestag, dovrebbe tornare sul tema. Per ora s’è mosso il ministro degli Esteri di Berlino, Gabriel, rimarcando il differente  approccio verso la stampa fra la propria democrazia e le misure attuate da Ankara. Vedremo il seguito, non dimenticando che l’Unione Europea, e la Merkel in persona, debbono a Erdoğan i patteggiamenti sui profughi siriani e l’autunno elettorale tedesco si preannuncia di fuoco. Così Yucel potrebbe rimanere ostaggio fino ad allora, se non oltre.

lunedì 27 febbraio 2017

Shifa, martire della notizia


Ha finito di narrare prestissimo Shifa Gardi, reporter e capo produzione dell’emittente kurda Rûdaw. A trent’anni è diventata lei stessa vittima dell’offensiva sul fronte di Mosul che, come tanti, semina morte fra combattenti in divisa e popolazione civile, con l’aggiunta degli operatori dei media. Era già accaduto a un giornalista d’una tivù irachena. Shifa è stata investita dall’esplosione d’una bomba mentre effettuava un’intervista a un comandante sciita che la conduceva accanto a un enorme buco sospettato d’essere la tomba di un eccidio di massa compiuto dai miliziani dell’Isis. L’uomo inavvertitamente ha urtato l’innesco d’una mina antiuomo che l’ha dilaniato assieme alla giornalista e altri quattro guerriglieri kurdi. Ferito l’operatore della tivù che è stato trasportato presso l’ospedale di Erbil. La Gardi è ricordata dai colleghi come un elemento audace, per nulla intimorita dai rischi del fronte di guerra. L’inchiesta che stava realizzando si rivolgeva alla cosiddetta “valle della morte”, un’area a una ventina di chilometri a sud di Mosul e cinque dalla strada di collegamento fra questa città e Baghdad, dove si pensa che i jihadisti abbiano compiuto massacri di massa. Il lavoro s’inseriva negli approfondimenti della rubrica da lei curata con meticolosità professionale e una speciale umanità. I combattenti kurdi la considerano una martire, impegnata sullo stesso fronte semplicemente con altre armi. E’ un'immensa perdita per l’informazione di prima linea.

venerdì 24 febbraio 2017

Afghanistan, jihadisti di lotta e di governo

Il caso Hekmatyar è emblematico non solo per la vociferata amnistia di cui dovrebbe godere uno dei più noti warlord mediorientali, da più parti accusato di crimini contro l’umanità, ma per il suo ingresso con tutti gli onori nel quadro istituzionale del Paese. Certo la strada dell’oblìo verso le nefandezze del recente passato della storia afghana aveva già avuto precedenti, seppure meno illustri, con l’amministrazione Karzai. Anni addietro alcuni signori della guerra come Khalili e Fahim erano stati perdonati ed elevati al rango di vicepresidenti, Sayyaf medesimo era, ed è, presente nella Loya Jirga. I criminali Rabbani e Massud furono il primo presidente, l’altro osannato come eroe. In quest’ottica, dunque, non ci sono state sostanziali trasformazioni da trent’anni a questa parte; l’ultimo esempio è Dostum, vicepresidente in carica, voluto da Ghani. Ultimamente il generale buono per ogni stagione è un po’ in difficoltà per storie di stupri compiuti da alcune sue guardie del corpo verso donne uzbeke di clan rivali ed è stato invitato dal presidente a farsi da parte. Non è detto che obbedirà, perché i suoi kalashnikov hanno un peso nei conciliaboli. Ghani lo sa: l’ha coptato per questa qualità. I boss della guerriglia hanno fatto da padroni e sono rimasti sulla breccia anche grazie alle continue ingerenze esterne nel territorio afghano compiute prima dai sovietici poi dalla Nato. Tantoché i mujaheddin, e ora i taliban, battono e ribattono sul tasto della resistenza allo straniero per sostenere le proprie azioni armate e fare proseliti fra una popolazione stremata e confusa.
Eppure le narrazioni mainstream sull’Afghanistan - magari non tutte ma quelle filogovernative sì - si sono basate su informazioni di comodo finalizzate ad avallare il disegno statunitense di esportazione di “democrazia”. Le presidenze post talebane di Karzai e Ghani, eletti e rieletti grazie a brogli elettorali, non hanno pacificato la vita interna, né migliorato le condizioni sociali, sperperando i fondi della comunità internazionale con speculazioni gestite da potentati locali, molti dei quali sono per l’appunto signori della guerra, trasformati caso per caso in signori degli affari. Quelle narrazioni non dicono che costoro occupano posti di potere e con la propria violenza e il fondamentalismo ideologico impediscono il processo di trasformazione promesso con tanto di convention e assisi organizzate per il mondo dal governo locale e dai protettori occidentali. L’inserimento istituzionale di Hekmatyar, che potrebbe fare il pontiere con la componente talebana dialogante, s’accompagna a un avvicinamento della diarchia Ghani-Abdullah al partito Hezb-e Islami, utile al piano di pacificazione. Dallo scorso autunno questo partito ha ripreso una meticolosa propaganda nelle aree dov’è storicamente radicato (Herat, Kunduz) e, chi ne segue da anni il percorso politico, pensa che giocherà con l’attuale governo uno scambio su due questioni: prigionieri e rifugiati. Tuttora un pezzo della militanza combattente di Hezb è carcerata. Secondo l’agenzia Onu che su quei territori elabora statistiche (Unama) una parte di costoro è computata come talebani. Sarebbero oltre cinquemila combattenti. 
I rifugiati sono in maggioranza raccolti nel campo di Peshawar, sfuggono però a ogni censimento. Possono essere migliaia o decine di migliaia, mancano dati certi. Si conosce, invece, la presa che sulla popolazione hanno alcuni personaggi: il comandante Sarwar Faryadi, rientrato tempo addietro da oltre un decennio di carcerazione in Gran Bretagna, venne accolto con festeggiamenti all’aeroporto di Kabul. Quella struttura è controllata giorno e notte dall’Army National Afghan Forces, l’esercito che da sei anni gli Stati Uniti finanziano e addestrano con scarsissimi risultati, che in quel caso non ha mosso un dito per impedire le manifestazioni di giubilo. I corteggiamenti rivolti all’Hezb-e Islami non sono nuovi. Nel 2005 Karzai, da poco presidente, ammise il partito d’impianto fondamentalista sulla scena politica e promosse un suo membro, Hadi Arghandiwal, a ministro dell’economia. Karzai sosteneva che tale corrente fosse diversa dall’antico gruppo dell’Hezb restato fedele a Hekmatyar e alle sue smanie stragiste verso taluni gruppi etnici, gli hazara su tutti. Invece il partito islamista appare unito e durante l’anno passato, quando il piano di pacificazione è diventato di pubblico dominio, Arghandiwal ha in più circostanze dichiarato come Kekmatyar sia l’emiro del gruppo con cui vorrà lavorare. Altre entità fondamentaliste: l’Hezb-e Muttahed-e Islami-ye Afghanistan e l’Alliance of Hezb-e Islami Councils, anziché competere fra loro sono orientate a una collaborazione col gruppo storico di Hekmatyar.
Da notare che la prima delle due sigle è registrata nell’Afghanistan “democratico” della missione Isaf dal 2006 e tutte hanno ondeggiato fra Karzai e Ghani, quando costoro si facevano paladini della lotta al fondamentalismo. Perciò i posizionamenti delle fazioni islamiste radicali, in vicinanza o appoggio al governo, sono avvenuti ben prima del progetto di pacificazione che coinvolge Hekmatyar. Accadeva per ragioni di potere, per ricavarne vantaggi e benefici personali e di clan, per business nelle varie province. Ora si pensa di utilizzare la sua figura bonificandola dalle macchie criminali, che non son poche, e puntando sulla mitologia che circola attorno al suo passato. Ricordi indubbiamente funerei che possono, comunque, avere la capacità di congelare e controllare i comportamenti di altri signori della guerra, seppure col trascorrere del tempo la categoria ne abbia perso più d’uno. L’impatto di real politik che questo leader può imprimere può tornar sempre vantaggioso, sempre che età e salute lo sorreggano. Con lui, storico elemento del primo Jihad afghano contro l’invasione del Paese, si riunirebbero tessere restate finora frammentarie: controllo militare di alcune province, rapporto con l’intellighenzia islamica interna ed estera, presenza nelle istituzioni. Fattori utili per cercare d’attrarre giovani leve che sono i veri mattoni di cui ha bisogno il movimento islamista per la costruzione dell’Emirato d’Afghanistan. Entità che può risultare un’altra versione di quella inseguita dai talebani. O magari la stessa.

martedì 21 febbraio 2017

Kabul, sussurri e grida sul ritorno del macellaio


Procede speditamente lo sdoganamento del macellaio di Kabul e il suo ingresso nel “governo democratico” di Ghani. Dallo scorso settembre Gulbuddin Hekmatyar, leader del partito islamista, uno dei più noti e sanguinari signori della guerra, era corteggiato dal presidente afghano per un piano di pacificazione nazionale. Piano che prevede di stabilire accordi coi talebani, innanzitutto per giungere a una tregua nelle province più focose dell’insorgenza (Helmand, Kandahar, Kunduz, Balch, Wardak) e strada facendo ipotizzare una divisione dei ruoli fra un governo di facciata che mantiene rapporti internazionali e i reali controllori del territorio, i miliziani col turbante, cui viene concesso un bel pezzo della gestione dell’economia dell’oppio e le tangenti per non intralciare il cosiddetto sviluppo della normalizzazione (sfruttamento del sottosuolo da parte di aziende straniere, opere come il gasdotto Tapi, più possibili servizi venturi). Così i boss politici possono vivere felici e contenti, la popolazione continuare a languire ed essere costretta a ingrassare i trafficanti di rifugiati. Alla quadratura del cerchio sta offrendo un contributo anche un organismo sempre presentato super partes: l’Onu, che ha cancellato ogni sanzione nei confronti di Hekmatyar. Il leader islamista può ora presentarsi nella capitale che martoriò a metà anni Novanta, senza il pericolo d’essere arrestato come stabiliva una sanzione emanata nel 2003 a seguito proprio d’una risoluzione Onu del 1999.
Un pericolo fittizio poiché dalla sponda governativa nessuno si sogna d’intralciare il ruolo dell’ex mujaheddin, anzi. Il suo radicamento nella politica armata locale, i trascorsi che lo rendono un’icona del jihadismo ne farebbero una pedina utile al dialogo fra amministrazione Ghani-Abdullah e insorgenza predisposto dalla regia del Pentagono. Ma gli ultimi mesi dicono anche altro. L’Hezb è un’entità a sé che solo in alcune circostanze ha condotto azioni coi Talib, inoltre l’impatto di fuoco e lo stesso reclutamento di giovani generazioni resistenti non vedono certo brillare il gruppo. Tutto gira sulla fama del vecchio ‘macellaio’, però i quadri intermedi non manistestano carisma. C’è poi stato uno scontro di propaganda fra la parte più intransigente della famiglia talebana, che snobba i colloqui governativi perché pensa di prendere il potere con le armi scalzando il governo-fantoccio, e gli emissari di Hekmatyar. Lo racconta un gruppo di ricercatori locali che sta seguendo da mesi lo sviluppo delle trattative. I turbanti hanno definito ‘insignificante’ l’Hezb, quest’ultimo li taccia di fanatismo. Comunque nelle strade della capitale gira la diceria che il grande vecchio del Jihad arriverà, ben protetto da gruppi di guardie del corpo, e si piazzerà a sud, nell’area di Chahrasyab dov’era il suo antico quartier generale. Altre voci affermano che alcuni edifici che l’amministrazione sta ristrutturando ospiteranno almeno 500 combattenti dell’Hezb che seguiranno il capo e addestreranno reparti dell’esercito.
Ma c’è chi valuto superfluo tutto questo darsi da fare governativo. Un mese fa la diplomazia talebana s’è mossa ed ha scritto al neo presidente Trump. Fra i punti della missiva spiccava: l’inutilità degli strascichi della guerra in corso sul territorio afghano, quello che per i talib è l’Emirato islamico dell’Afghanistan. Si aggiornava lo staff del nuovo inquilino della Casa Bianca sui reali rapporti di forza: 50% del territorio sotto il controllo dei resistenti, un altro 30% che ci finirà se la trattativa dovesse fallire e le enclavi dove vivono assediati Ghani e i suoi uomini. Visto l’andamento dei 14 anni di Enduring Freedom e Isaf Mission, si invita Trump a riflettere e trovare soluzioni alternative che vedono come realtà essi stessi e il progetto dell’Emirato, entità che si relaziona da tempo con altri Paesi dell’area. Vista la quantità e l’entità delle azioni offensive messe in atto dagli insorgenti l’argomento ha un peso non indifferente. Del resto è la stessa componente militare degli Stati Uniti ad aver ripreso, da diversi mesi, il progetto di dibattere una soluzione pacifica per quei territori. Certo vorrebbe farlo con la copertura del governo che almeno maschera l’accordo col fondamentalismo locale. Però i talebani dialoganti non desiderano mediatori, soprattutto se questi sono vecchi volponi della legge del taglione come Hekmatyar. Senza dimenticare che in famiglia i turbanti annoverano anche teste pensanti che vogliono trattare da posizioni di forza, dopo aver scacciato e umiliato i collaborazionisti locali. Un bel busillis.

venerdì 17 febbraio 2017

Pakistan, sangue su sangue


Hanno colpito mentre i fedeli abbandonavano pensieri e occhi sul Dhamaal la danza sacra, esoterica, mistica sino alla spinta ascetica del sufismo. Alla fine della preghiera nel santuario Lal Shahbaz Qalandar di Sehwan, Pakistan, a circa duecento chilometri da Karachi, i fedeli musulmani erano intenti ad ammirare quel momento magico quando la cintura esplosiva è stata fatta brillare da un kamikaze, provocando, per ora, 70 morti e 150 feriti. La gravità delle condizioni di molti potrebbe far salire il numero delle vittime. Purtroppo un copione quasi quotidiano in varie province, che la dirigenza di Islamabad non riesce (o non vuole) stroncare. A parole sì, il premier Sharif si mostra integerrimo e il nuovo capo dell’esercito con lui, ma lo stillicidio di attentati prosegue e l’Isi (l’Intelligence interna) sembra favorire l’Isis, che stamane ha rivendicato anche quest’attentato. Era già successo con Qaeda, eppure lo Stato nega, sottolineando il suo impegno di uomini e fondi (sono stati spesi oltre 100 milioni di dollari per finanziare la lotta al terrorismo). E mette in atto repressioni vendicative. Stamane una nota dalla capitale ha evidenziato come nelle ore successive all’attentato 39 presunti terroristi sono stati stati eliminati dall’esercito. In passato questo genere di azioni hanno avuto più una funzione di promozione dell’efficienza militare che di reale attacco a chi compie gli attentati.

S’uccidono nemici che in tanti casi non hanno diretta correlazione con le esplosioni in questione. Di fatto il governo non ha mai cessato il sottile doppiogioco d’incontro-scontro col terrorismo jihadista, che sotto varie sigle è stato, secondo i casi, foraggiato e combattuto. I Taliban delle Fata rappresentano tuttora un esempio, anche se la deregulation maggiore si è verificata con la componente dissidente dei Tehreek che si sono macchiati di stragi di bambini, colpendo, ad esempio, il collegio di Peshawar dove ricevono istruzione i figli dei militari pakistani. Sul massacro di ieri, rivendicato ufficialmente dal Daesh, è piovuta la scomunica dei Tehreek, che tramite un twitt del portavoce Imran Khan condannano questa “strage d’innocenti” (sic). La tecnologia aiuta ad ascoltare anche la voce degli abitanti autori di centinaia di “cinguetti” di dolore. Tutti denunciano l’assenza di ambulanze nella zona, cosicché molti feriti sono spirati per dissanguamento mentre venivano trasportati in cerca di soccorsi, anche gli ospedali risultavano distanti. La denuncia dell’assenza adeguata di sicurezza attorno al luogo di culto (solo dopo l’esplosione i soldati sono accorsi in forze dicono i twitt) e la carenza d’assistenza sanitaria sono elementi sottolineati chi ha usato i social media per comunicare. “Né letti, né medicine, né personale paramedico“ scrivono parenti e amici che hanno soccorso la massa di persone investite dall’esplosione. In tanti hanno tuonato contro il Pakistan Muslim League e pure contro il Pakistan Peoples Party.   

giovedì 16 febbraio 2017

Il referendum che conquista l’anima turca

L’aria che tira in Turchia va oltre quanto testimoniano i non molti giornalisti e militanti d’opposizione rimasti fuori di galera. Dopo l’approvazione parlamentare del presidenzialismo, che non riesce a mascherare il palese autoritarismo dovuto al controllo d’ogni potere (legislativo, esecutivo, giudiziario) da parte del Capo di Stato, il partito di governo attende con una certa apprensione la legittimazione democratica del voto popolare. Il referendum è fissato per il prossimo 16 aprile, molti pronostici danno in vantaggio l’assenso semplicemente sommando il voto degli elettori dell’Akp e, se non di tutto, almeno d’una parte dei nazionalisti del Mhp, che si sono prestati a sostenere i 18 emendamenti costituzionali. Più della lotta politica interna sono lo scontro armato col Pkk e la repressione delle popolazioni kurde del sud-est con centinaia e centinaia di vittime ad agitare gli animi, quindi gli attentati destabilizzanti condotti da una fazione dissidente della guerriglia kurdi (Falconi della libertà) e dall’Isis che punisce le ultime scelte di Erdoğan spargendo sangue di civili. Per tranquillizzare una nazione ampiamente polarizzata il presidente ha suggerito di non infiammare la campagna referendaria. Lui stesso, incredibile a dirsi, sta tenendo un basso profilo per cercare di recuperare anche il voto dei concittadini islamici traumatizzati dalla lotta fratricida contro i gülenisti che ha prodotto migliaia di arresti, decine di migliaia di licenziamenti e dismissioni fra dipendenti pubblici dei più svariati settori: amministrazione statale e locale, scuole, polizia, uffici giudiziari. Per perfezionare ciò che gli avversari definiscono un golpe istituzionale Erdoğan ha bisogno d’un clima non arroventato, che leghi e colleghi tutti i turchi che vogliono difendere patria e sicurezza, lavoro e affari, tradizione e innovazione.
Se son veri i sondaggi che rivelano come il 70% dei cittadini sia d’accordo a tenere in galera i deputati d’opposizione del Partito democratico del popolo (Demirtaş ha inoltrato richiesta di liberazione ma non ha ricevuto risposta), il referendum potrebbe diventare un plebiscito favorevole a questo genere di presidenzialismo autoritario. Eppure i fantasmi di una bocciatura delle urne vagano fra le fila di deputati fidatissimi. Così Ozam Erden, onorevole dell’Akp del distretto di Manisa, mentre interveniva a Soma (la località dove nel 2014 avvenne il disastro minerario con 301 morti e imputazioni per gravi inadempienze sulla sicurezza per Alp Gurkan, imprenditore e finanziatore del partito erdoğaniano), ha messo sul piatto paure e desideri più che personali di settori del partito-regime. E ha dichiarato che un’eventuale bocciatura del referendum porterebbe diritti a uno scontro aperto, una sorta di guerra civile. La cosa non è piaciuta ai vertici dell’Akp che hanno immediatamente censurato il collega. Il premier Yıldırım ha telefonato al responsabile della provincia per far dimettere dall’incarico quest’uomo d’apparato che dice quel che pensano molti paladini delle maniere forti e spicce. Eppure era stato proprio Yıldırım, premier che a breve non sarà più premier perché le modifiche costituzionali aboliscono quest’incarico, a infiammare un po’ gli animi in un intervento pubblico. “Chi s’oppone al referendum è di fatto un terrorista” aveva detto, un punto di partenza per stimolare Erden nel suo desiderio di guerra civile. Il resto lo fanno il clima d’accerchiamento, la paura di nemici interni ed esterni, che in effetti esistono, ma se capaci di golpe, come i goffi reparti di luglio, è tutto da verificare. 

Nel frattempo da mesi va di scena, quello che anche i repubblicani più morbidi definiscono un contro colpo che impaurisce anche il cittadino meno politicizzato e lo disorienta sui comportamenti da tenere. Chi vive anche nella cosmopolita Istanbul riferisce un diffondersi dell’anonimato, torna il gioco del silenzio e delle parole pronunciate a mezza bocca, come durante i regimi militari che tanti attivisti marxisti e anche islamisti hanno conosciuto a loro spese, venendo perseguitati, incarcerati, torturati, uccisi. Altri tempi ma metodi simili, soprattutto per la gente comune non implicata in appartenenze partitiche. Eppure nell’impatto ideologico che ha distinto l’attuale governo per l’azzeramento di tutte o quasi le voci libere del campo mediatico, con persecuzioni a 360°, l’ultima coinvolge l’editorialista Kadri Gürsel  accusato in contemporanea d’essere sostenitore dei fethüllaçi e del Pkk (sic). Ma la martellante propaganda sulla cospirazione che “un Occidente ostile starebbe orchestrando contro la nazione turca” continua a fare proseliti, anche in ambienti laici. C’è l’idea che un fronte geopolitico voglia mettere all’angolo la Turchia del miracolo economico e ostacolarne anche la funzione guida nelle relazioni fra Oriente e Occidente. Cavalcando questo risentimento, che si ricollega all’umiliazione della caduta dell’Impero Ottomano e alle stesse magnifiche sorti e progressive della nazione kemalista, Erdoğan rilancia la sfida che fu di Atatürk, e infatti punta a festeggiare in sella il centenario del 2023. Sebbene per applicare tale disegno dovrà negoziare con un forte giocatore in Medio Oriente che è l’Iran e con la supervisione di Mosca su tutta l’area, la mossa nostalgica può portargli nell’urna ulteriori consensi kemalisti. A quel punto l’investitura popolare al suo progetto di dominio su gente e cose sarà completa.