giovedì 25 giugno 2020

Contrasti Cina-India: accuse dal satellite statunitense


Il satellite World-Wiew3, che da sei anni orbita sulle nostre teste restituendo immagini ad altissima risoluzione di luoghi terrestri, svela come i cinesi nell’area occidentale himalayana, che li ha visti scontrarsi con oggetti contundenti con reparti indiani nella selvaggia valle in altura denominata Galway, hanno ampliato proprie costruzioni. Il satellite è opera dell’azienda Maxar che nasce dalle applicazioni spaziali di due storiche company statunitensi: l’elettronica Philco e l’automobilistica Ford. Philco-Ford nei primi anni Cinquanta iniziò a occuparsi di satelliti e per tutti i Sessanta e Settanta di missioni spaziali americane, quelle Gemini e Apollo che porteranno l’uomo sulla luna. Poi fu la volta di Voyager. Dunque, nella crisi di confine che ha risvolti geostrategici, la tecnologia americana va in soccorso dell’alleato indiano che ha sul piatto d’argento la prova d’un accrescimento di baraccamenti in cui non si sa se vengano celate armi e di che genere. Il timore, per due potenze nucleari che si fronteggiano, è quello di un’escalation della deterrenza tramite l’istallazione di armamenti letali. La notizia appare in una fase di distensione fra i contendenti, coi due comandi militari impegnati a incontrarsi, dialogare, magari sciogliere i malintesi che hanno, comunque, prodotto venti vittime fra i soldati di Delhi e una montante protesta interna anticinese del nazionalismo hindu.

Gli scontri all’arma ‘impropria’ della scorsa settimana, pur circoscritti in una lingua di terra di poco più di due miglia, erano risultati i più deflagranti dalla guerra del 1962. Col governo indiano che accusa i rivali di non rispettare la linea di demarcazione denominata Lac, mentre Pechino afferma che l’intera valle Galway è di sua pertinenza e lì le truppe indiane compiono ‘sconfinamenti’. Le strutture create dai cinesi, e i relativi camuffamenti, erano già state denunciate dai militi di Modi, ora, grazie all’azienda statunitense, costoro possono mostrare immagini dall’alto, visto che quelle scattate, con enormi difficoltà, in loco da fotografi dell’agenzia Reuters, trovavano gli obiettivi battere su mura di mascheramento. Comunque le immagini satellitari hanno creato imbarazzo a entrambi i contendenti, probabilmente ciascuno pensa alla facilità con cui può essere spiato, mentre i comandi indiani interrogati sul tema dalla stampa interna ribadiscono che la via giusta è quella intrapresa coi colloqui per ammorbidire la tensione. Solo il loro ex capo ha dichiarato ad alcuni media che al di là dei proclami verbali cinesi, si potrà credere ai fatti, e questi risulteranno positivi col ritiro sul terreno. Dal canto proprio più d’un analista non crede alla distensione: l’area è nodale per entrambi, il braccio di ferro potrà continuare.   

mercoledì 24 giugno 2020

Egitto, donne che picchiano le donne


L’aggressione, l’umiliazione, la persecuzione fino a giungere all’arresto col solito tema della sicurezza nazionale da difendere di fronte a cittadini neppure ribelli, semplicemente osservanti il principio del libero arbitrio. Così due figlie di Layla Soueif, Mona e Sanaa, che avevano sostenuto la madre nel sit-in di protesta davanti la prigione cairota di Tora per ottenere notizie d’un altro membro della famiglia, l’attivista Alaa Abdel Fattah, hanno subìto un pestaggio. Autrici altre donne, poliziotte in borghese camuffatesi da picchiatrici di strada. Per chiudere il cerchio della violenza, la minore delle sorelle, Sanaa, è stata portata via con tanto di lividi sul corpo. L’accusa: diffondere notizie false. Gli avvocati della famiglia che si sono rivolti alla polizia per denunciare l’aggressione e domandare dove fosse la giovane hanno ricevuto l’avviso dell’arresto di Sanaa. Anche a lei viene applicato il famigerato protocollo della carcerazione per quindici giorni, rinnovabile per due anni. L’arma infame con cui il regime del presidente-golpista Sisi tortura lo spirito della popolazione che non ci sta a piegare la testa. I ‘reprobi’ che poi sono cittadini degni di questo nome, persone libere e pensanti che nonostante il clima vessatorio e sanguinario non si lasciano intimorire, vengono soffocati in tal modo. Tramite un sistema che incentiva una complicità diretta e indiretta fra un’ampia cerchia della popolazione, una schiera servile in divisa e non, e una sfera ignava, opportunista col potere o incapace di qualsiasi moto di dignità innanzitutto verso se stessa. Così i colpiti possono solo unire il proprio orgoglioso martirio alla richiesta d’aiuto al mondo che si dice civile. Sebbene quest’ultimo si mostri egualmente infingardo. Oppure come evidenzia l’attuale governo italiano, invischiato nel solito affarismo di Stato che ingrassa interessi anche privati (col marchio Eni, Finmeccanica, Leonardo), un mondo che lancia finti proclami che assumono i toni d’insignificanti lamentazioni contro lo scempio compiuto sul nostro concittadino Regeni. Ma dall’assassinio di Giulio il regime di Al Sisi, continua a far morire, dentro e fuori le galere, centinaia di persone per bene che vorrebbero un altro Egitto. Un Paese che onorasse la sua millenaria civiltà e uscisse dall’incubo del luogo di omertà e terrore che i militari e un pezzo di società asservita impongono al resto della nazione. La geopolitica volta la testa, l’associazionismo internazionale dei diritti è in affanno (quello egiziano è stato distrutto), chi può salvare le Sanaa, gli Alaa, i Zaki d’Egitto?

domenica 21 giugno 2020

Layla, la caparbia madre davanti al lager di Tora


La madre coraggio del Cairo è amorevole come ogni madre, caparbia come ogni donna, determinata come ogni attivista. Ultrasessantenne, docente di matematica all’università e ora in pensione, genitrice di Alaa Abdel Fatah un antico capro espiatorio della repressione, Layla Soueif si reca da giorni davanti alla prigione di Tora. Lì il figlio è rinchiuso come migliaia di oppositori. Gli porta del cibo e un ricambio, è in ambasce per le sue condizioni psicofisiche e per quelle sanitarie, visto che l’epidemia di Coronavirus impazza anche in Egitto e la situazione igienica delle carceri è preoccupante. Le è stata promessa una lettera scritta da Alaa che non le viene mai consegnata. Ma Layla persevera. Si approssima al portone della terribile sezione Scorpion e attende. Non teme nulla, ha da perdere la libertà, un bene messo a repentaglio di continuo dal regime di Sisi, però quello stato l’ha perso egualmente. Con la detenzione del figlio è come se fosse reclusa anche lei, dunque non demorde. Sfida gli oltre quaranta gradi d’una temperatura che comincia a essere inclemente, reclama la missiva promessa. Così per intimorirla, sul marciapiede dove stazione con una borsa e un seggiolino, s’è presentato un uomo distinto che le ha sussurrato qualcosa, poi ha lasciato il campo a un gruppo di agenti, chi in divisa chi in abiti civili, che hanno allontanato la donna e sua figlia Mona all’angolo della strada. 
Altri parenti di detenuti hanno scattato una foto che è finita sui social. Le voci della rete hanno riconosciuto l’uomo, è il tenente colonnello Muhamad al Nashshar, l’ennesimo sgherro del sistema dell’intimidazione e repressione oliato da Sisi, quello su cui i coniugi Regeni vorrebbero si rompesse il velo del silenzio e si giungesse a incriminare i torturatori e assassini del figlio Giulio. Però questo modello Sisi non vuole toccarlo. E’ sulle angherie ordinate a certi poliziotti, e militari, e mukhabarat che il presidente ha consolidato il suo Stato di terrore. L’intimidazione diretta è diventata la prima fonte dell’escalation della paura, poi è subentrata la paura istillata indirettamente tramite il meccanismo  dell’ipotesi d’un reato enorme - l’attentato alla sicurezza nazionale - che può venire addebitato a piacimento, senza prove, nell’obbedienza a tesi che una magistratura acquiescente e parallela al potere della lobby militare sta praticando con l’arresto pro tempore, rinnovato quindicinalmente all’infinito. E’ l’illegalità plasmata secondo leggi manipolatorie rivolte contro la libertà d’opposizione, di stampa, di parola, di pensiero, di esistenza. E’ questa tipologia di madre, di cittadina, di coraggiosa che la politica del diritto dovrebbe sostenere e additare internazionalmente un governo che da anni ha posto il suo mortale ginocchio sul collo degli egiziani liberi. E preme. Fa finta di nulla e preme.

sabato 20 giugno 2020

India-Cina, la vendetta commerciale di Modi


Come sono morti i nostri militari disarmati?” s’interroga vigorosamente più di una testata indiana. La domanda è diretta al primo ministro Modi, che subisce anche le critiche di generali e dell’ex consigliere alla sicurezza nazionale Shivshankar Menon che ha grande visibilità interna. Quest’ultimo in un’intervista ha apertamente accusato il premier di “inappropriato e inaccurato annuncio che concede territori e spazi di aggressività ai cinesi”. Insomma nonostante il governo abbia ribadito la volontà di rintuzzare ogni provocatoria ingerenza del potente vicino, c’è chi sfida Modi sulla via del patriottismo e del nazionalismo. Poiché dopo le botte letali, i generali dei due Paesi hanno aperto un confronto e da parte cinese si cerca di sgonfiare il caso, il governo di Delhi è stretto in una morsa. Deve tenere in piedi la trattativa, ma anche adeguarsi alle piazze infiammate della capitale e di Mumbai dove la xenofobia anticinese ha assunto toni preoccupanti verso consolati e rappresentanze commerciali che rischiano di finire bruciate come le immagini di Xi Jinping. A soffiare sul fuoco sono sopraggiunte le foto inserite da un ufficiale indiano su una piattaforma social dei corpi contundenti, tubi di metallo chiodati, con cui i soldati cinesi avrebbero ferito a morte i colleghi indiani.
Fra chi cerca la vendetta sul pietroso territorio della valle Galwan, in genere i miliziani fondamentalisti del Bharatiya Janata Party e dell’ancor più estremista Rashtriya Swayamsevak Sangh, fra una parte degli ufficiali sostenitori d’un ritorno alle regole d’ingaggio precedenti l’accordo del 1996 (comunque mal digerito da entrambi i contendenti) c’è da capire come si comporterà il capo del governo. L’ultimo venticinquennio ha prodotto solo aumenti di truppe, si è evitato lo scontro a fuoco e finanche il fronteggiamento armato, eppure lo scontro a mani nude e armi improprie di questa settimana non ha smorzato i pericoli. Il sangue caldo indiano trova comunque una mente più fredda e acuta nello staff di Modi che starebbe preparando un colpo economico al nemico che ha sparso sangue hindu. Voci insistenti sostengono che Delhi taglierà molte commesse cinesi. Queste in diciotto anni sono aumentate dai tre miliardi di dollari del 2000 ai circa cento miliardi del 2018. Il 2019, ben prima della pandemia, aveva visto una frenata anche nell’affarismo asiatico, ma aveva pur sempre segnato sessanta miliardi di dollari a vantaggio di Pechino. Ecco: l’arma avvelenata di Modi all’affronto mortale delle ‘guardie rosse’ dovrebbe colpire il bilancio delle entrate cinesi. Poi si vedrà in che misura ricucire i rapporti geostrategici e geoeconomici.  

venerdì 19 giugno 2020

Contrasti sino-indiani, fra allentamento e rilancio


Boicotta la Cina’, ‘Brucia Xi Jinping’ dicono certe immagini che vengono da Delhi. Ad animarle non solo i fedelissimi del primo ministro Modi, che ha lanciato il braccio di ferro col presidente del vicino partito-stato. Agitano quei cartelli anche i seguaci del partito del Congresso, dunque i rivali interni di Modi, che in questa crisi di frontiera non possono non sentirsi innanzitutto indiani. Così il suprematismo del Bjp, che si traduce in volontà di potenza regionale e nei sogni egemonici del leader indiano, trovano un consenso interno trasversale. Insomma, grazie ai cinesi, la linea del premier si rafforza. E’ un aiuto non da poco in un momento in cui pandemia da Covid-19 e pandemia da fame colpiscono tanti strati della popolazione indiana. Mentre sulla stampa locale circolano foto dell’ineffabile primo ministro - immortalato un anno fa in una performance internazionale di yoga - e sue attuali dichiarazioni: ‘Lo yoga crea uno scudo protettivo contro il Coronavirus’, Modi incamera un abbassamento di toni da parte di Pechino nel conflitto di frontiera. Giunge, infatti, la notizia della liberazione di dieci militari indiani, fra loro due ufficiali, catturati dai soldati con la stella rossa durante gli scontri di lunedì notte e martedì. La mossa sembra una mano tesa su una questione dagli effetti esacerbati, visto il numero delle vittime.
C’è un velo di mistero nella versione dell’esercito indiano che ha sostenuto come nessun proprio uomo fosse finito in mani avversarie. Il bollettino parla di 76 feriti negli scontri, di cui 56 in settimana potranno tornare in servizio. Forse si tratta d’un moto d’orgoglio per aver avuto decisamente la peggio nello scontro,  disarmato eppure mortale fra le truppe. Da parte indiana si precisa che mentre i propri uomini agivano a mani nude, gruppi di rinforzo cinese agitavano bastoni e spranghe di ferro, ed effettivamente le ferite e il decesso di molti avvalorerebbero questa tesi. L’agenzia France Presse ha raccolto versioni di morte per caduta negli strapiombi e finanche annegamento nel vicino lago d’altura (Pangong Tso posto a 4.200 metri slm). Gli oltre 4000 km di confine nell’impervia regione himalayana, fra cui l’inospitale valle Galwan dove sono scoppiati gli incidenti, risentono dei pluridecennali contrasti fra i due giganti asiatici. L’accusa di Delhi riguarda una recente avanzata delle guardie rosse nei territori di competenza indiana per impedire la conclusione dei lavori su una strada di collegamento creata dagli indiani. Questa via conduce a una pista di decollo non lontano dallo Xinjiang e dal Pakistan.
Storie di frontiere sperdute, ma sensibilissime ai fini della sicurezza, che sommano antiche questioni come l’area dell’Aksai Chin, annessa dai cinesi col vittorioso conflitto del 1962 e che il nazionalismo hindu rivorrebbe sua. E col territorio del Ladakh passato sotto il controllo indiano per gli effetti del decreto dello scorso anno con cui il governo Modi ha cancellato l’autonomia dello Stato Jammu e Kashmir. Dopo i devastanti effetti del corpo a corpo di centinaia di militari, la diplomazia prova a ricucire. Ma le dichiarazioni a doppio senso di Narendra Modi: “Non c’è dubbio che l’India voglia la pace, ma se verrà provocata risponderà in modo adeguato” possono portare altrove. Ora uno dei suoi generali rincara la dose, definisce l’operazione di Pechino una provocazione preordinata, figlia della politica di corrosione praticata dai cinesi in quei territori. Poi c’è la propaganda del Bharatija Janata Party, volta a soffiare sul fuoco in politica interna, estera, verso le minoranze etniche, contro le componenti religiose non hindu. E se l’atea Cina non può essere accusata di confessionalismo, c’è sempre la geopolitica a offrire appigli, l’ipotesi di voler favorire il Pakistan islamico è scontata, ma di sicuro effetto.

mercoledì 17 giugno 2020

India-Cina, botte di frontiera


Entrambi lo negano, ma la rissa con tanto di morti, tutti soldati indiani, alla frontiera indo-cinese può riportare indietro d’un sessantennio la tensione fra i due giganti asiatici. Era l’ottobre 1962 e la Cina maoista aveva in ballo, oltre alle dispute ideologiche col ‘revisionismo sovietico’, concrete questioni territoriali nell’area del Ladakh, da loro controllata e rivendicata da Delhi. Quelle linee di confine risentivano degli interventi del colonialismo britannico, prima che la ‘Lunga marcia’ e l’autodeterminazione indiana avessero compimento. A metà anni Cinquanta il primo ministro indiano Nehru dichiarava non negoziabile la cosiddetta ‘linea Johnson’ risalente al 1865 e nelle tensioni crescenti con Pechino degli anni successivi riceveva l’esplicito appoggio del segretario sovietico Chruščëv, una mossa geopolitica in chiave antistatunitense e anticinese. Il conflitto sino-indiano del 1962 durò appena un mese, fece duemila morti, due terzi dei quali indiani e avvantaggiò nelle linee di frontiera le mire indiane. L’antica disputa non è stata mai sanata e riprende spazio ora che i contendenti sono due giganti della demografia e dell’economia globale. Sebbene all’interno di ciascun Paese i problemi ribollono per la pandemia da Coronavirus in atto: in questi giorni Pechino, intesa come capitale e metropoli, si sta blindando per un ritorno dell’infezione con focolai scoppiati proprio in città, mentre il governo di Delhi deve fare i conti con un vuoto economico che ricade pesantemente su ogni tipologia di lavoratore, i militari che si fronteggiavano nella valle di Galwan, si son presi a schiaffi, pugni, sassate e bastonate. Hanno avuto la peggio i soldati indiani. Nella notte di lunedì ne sono morti prima tre, poi ieri altri diciassette, alcuni dopo aver riportato tremende ferite lacero-contuse.
Le agenzie non citano scontri a fuoco, cosa che paradossalmente rende ancor più esplicita la tensione esistente se i due gruppi sono riusciti a darsi la morte con oggetti contundenti. La crisi era precipitata per la costruzione da parte indiana d’una via di collegamento nella vallata controllata dalle ‘guardie rosse’. Ognuno dei due fronti accusa l’altro d’aver attuato crescenti iniziative provocatorie, tempo addietro erano stati i cinesi ad aprirsi un percorso stradale contestato dagli indiani. Un ulteriore tragitto cinese, creato col benestare di Islamabad, è quello che attraversando il Kashmir pakistano apre un corridoio meridionale che rientra nel grande progetto della nuova ‘via della seta’. La forza di penetrazione economica di Pechino, attraverso i mercati e con ogni sorta d’investimento nei vari continenti, è una realtà che sconvolge i sonni della supremazia statunitense. Ma finora la tattica di rafforzamento della propria potenza da parte di Xi Jinping e della direzione del Pc cinese non è l’escalation militare. Certo, il controllo di talune piazze, come nella vicenda della ribellione di Hong Kong, mette a dura prova l’autorevolezza di Pechino che non vuole perdere la faccia davanti alla comunità internazionale e ai mercati finanziari. Sull’altro versante lo sfrenato nazionalismo di Modi, che ha fatto suo il più esplicito fondamentalismo hindu, enfatizza un desiderio di grandezza etnica, razziale, confessionale ed economica per una nazione dall’esponenziale crescita demografica. Gli analisti ritengono che a nessuno dei giganti convenga una guerra di confine, perciò la tensione dovrebbe sgonfiarsi. Comunque l’Estremo Oriente ha ripreso a ribollire, come mostrano le due Coree nuovamente ai ferri corti.    

martedì 16 giugno 2020

L’India sotto pandemia si stringe a Modi


In India le difficoltà della pandemia non sembrano intaccare la popolarità del premier Modi. Un sondaggio nazionale, del quale la stessa opposizione ha dovuto riconoscere la validità, conferisce al leader del partito hindu oltre l’80% di gradimento, un indice addirittura superiore a quello che l’aveva lanciato ai vertici della politica nazionale nel 2014. Alcuni commentatori locali sostengono sia l’afflato del momento di difficoltà, un effetto psicologico di ricerca di protezione da parte di ogni strato della popolazione in una fase in cui cresce la paura di presente e futuro. Uno sbandamento che oscilla fra l’epidemia di Covid-19 tuttora montante e lo squilibrio economico creato dalla chiusura per tutti, sia i lavoratori ufficiali e garantiti nella sfera statale e parzialmente in quella privata, sia per il precariato della microeconomia quotidiana, che comunque dà sussistenza a centinaia di milioni di persone. Così le figure istituzionali vengono investite di capacità taumaturgiche, in tanti casi con una specie di devozione superstiziosa, oppure vengono demonizzate. Una minoranza di ex lavoratori accusa l’esecutivo del Bjp di cattiva gestione dell’emergenza, riferendosi all’assenza d’iniziali indicazioni chiare, alle decisioni perentorie senza preavviso che, ad esempio, hanno creato il caos dell’impossibilità di rientro nelle zone d’origine per i migranti interni. Da lì le trasmigrazioni per centinaia di miglia pur senza mezzi di trasporto e gli incidenti mortali causati da questo fenomeno. Fino a ricordare, sono soprattutto i musulmani a farlo, le violenze subìte da polizia e da fanatici hindu, che indiscriminatamente li accusavano d’essere i diffusori del Coronavirus.
Una posizione tuttora sostenuta, che ha viaggiato sui media, prendendo spunto dall’episodio di un effettivo focolaio infettivo sviluppatosi all’interno della confraternita Tablighi Jammat a Delhi nel mese di marzo (a seguito d’un raduno criticato e censurato da altri movimenti musulmani) che ha, comunque, alimentato successive e reiterate aggressioni fisiche nei quartieri islamici della capitale e in altre località, con decine di morti e migliaia di feriti. Tali violenze sono state stigmatizzate dal premier, più paternalisticamente che politicamente, anche perché taluni suoi ministri (Interni e Istruzione) sono espliciti fautori della canea montante contro gli islamici, e i provvedimenti del governo negli ultimi due anni hanno incarnato un’escalation di fondamentalismo, razzismo, apartheid. Eppure nelle sue pose quasi ieratiche Modi veste i panni del ‘pacificatore’ nazionale, soprattutto nelle apparizioni pubbliche e televisive quando lancia discorsi sul bene collettivo, alla faccia di caste e discriminazioni etniche e sociali. E tra molti cittadini, ormai senza occupazione, si diffonde l’idea che il governo non possa aver colpe sulla crisi economica scaturita dalla pandemia. C’è chi sostiene che il lockdown sia diventato una tragica necessità ovunque, e pur non riconoscendosi politicamente come elettore di Modi non se la sente di accusarlo delle conseguenze pur catastrofiche del Covid-19. La recessione e le criticità sono ovunque nel mondo.

lunedì 15 giugno 2020

L’Egitto delle sparizioni: ancora giornalisti in galera


Giunto quasi all’età della pensione, 65 anni, Mohammed Mounir, redattore del settimanale egiziano Rose al-Yusuf e membro del sindacato giornalisti, si ritrova probabilmente in galera. Di lui non si hanno notizie da un paio di giorni dopo il prelevamento poliziesco alle tre del mattino dalla sua abitazione. Con l’aria che tira sotto il regime di Al Sisi la cerchia di amici e colleghi più stretti teme il peggio. Il periodico è una rivista storica della stampa araba, fu fondato nel 1925 da un’attrice, Fatma al-Youssef, meglio conosciuta col nome di Rose, nata libanese e trasferitasi al Cairo. Era figlia di un turco e di una libanese, quest’ultima morta dopo il parto. Anche il padre sparì dall’orizzonte di Rose quando lei aveva una decina d’anni: l’uomo emigrò in Brasile, lasciando la bambina a una famiglia cristiana. Da giovane la Youssef calcò i palcoscenici nelle vesti di attrice e si distinse per l’impegno sulle tematiche di genere, rompendo le convenzioni sociali sul diritto di espressione della donna e sul suo ruolo sociale in relazione alle restrizioni imposte dalle confessioni. Il tema venne riversato sul giornale fondato dalla Youssef che, sin dalle origini, affrontava questioni religiose, comportamentali e relative alla sfera sessuale.  Per i tempi un vero media d’avanguardia. Dopo la scomparsa della fondatrice altri importanti firme del giornalismo egiziano hanno diretto e lavorato al Rose al-Yusuf, su tutti Mohamed al-Tabii che ha lasciato la propria impronta orientandolo su temi sociopolitici, prima di andare a fondare il quotidiano Al-Masry. Una delle caratteristiche di questa stampa era l’uso della vignettistica e delle caricature che si radicò nella tradizione dell’informazione araba. Negli anni Sessanta il presidente Nasser aveva nazionalizzato la testata che assunse toni filogovernativi. E li mantenne in epoca recente, sia durante i tumulti anti Mubarak sia nei mesi del Consiglio Superiore delle Forze Armate e dell’anno di governo (giugno 2012 giugno 2013) della Fratellanza Musulmana. Recentemente un direttore della rivista si è dedicato alla ricostruzione del periodo politico e dell’operato della Brotherhood.

Da parte sua Mounir sembra colpito perché già solidale con colleghi arrestati e censurati per il lavoro di liberi giornalisti. Due anni fa s’era occupato dell’arresto di Adil Sabry,  direttore del sito Mars-al Arabia, chiuso dal regime militare assieme a centinaia di agenzie d’informazioni e blog in rete. Prima di lui altri cronisti, opinionisti non sottomessi al pensiero unico di Sisi avevano subìto una sorte simile: arresto o sparizione. Fra questi Yosri Mustafa della testata Freedom and Justice, accusata di avere legami con la Fratellanza Musulmana. Il mese scorso è stata la volta della cronista Lina Attalah dell’indipendente Mada Masr, prelevata da agenti della Sicurezza Nazionale mentre intervistava la madre del conosciuto attivista Abdel Fattah. Notissimo è il caso di Mahmoud Hussein, giornalista di Al Jazeera che ha collezionato finora 1270 giorni di detenzione. Per lui accuse ben peggiori: a seguito di alcuni reportage sull’organizzazione islamista e per interviste ad alcuni attivisti è accusato d’essere un membro della Fratellanza e incriminato per terrorismo. Attualmente in Egitto sono reclusi in prigioni di massima sicurezza una quarantina di giornalisti, di alcuni di loro familiari e amici hanno perso le tracce, non riuscendo a conoscere l’attuale luogo di detenzione. Nella lista nera sulla repressione della libertà di stampa il grande Paese arabo occupa la 161^ posizione su 180 nazioni esaminate.   

domenica 14 giugno 2020

Sarah, il salto nella morte


In fuga dai militari egiziani, dal loro regime e dalle loro galere seviziatrici, che aveva conosciuto. In fuga dagli stessi compagni del proprio gruppo, che pur condividendo orientamenti marxisti poco l’aiutavano sul tema dei diritti della ‘comunità Lgbtq’. Uno spaccato che nella tradizionalista società egiziana e nel conservatorismo religioso non riusciva a trovare spazi per le proprie scelte sessuali. Così Sarah Higazy, alla prima occasione dopo una scarcerazione, aveva lasciato il suo Paese. Le porte delle galere le si erano fortunatamente aperte dopo una detenzione pretestuosa, con l’accusa d’aver sventolato un drappo arcobaleno in occasione di un concerto nel settembre 2017. E conseguentemente additata per aver difeso e rivendicato quel gesto di libertà. Aveva varcato l’Oceano Sarah, finendo in Canada, allontanandosi dalla terra che amava, da amici, sodali e familiari. Si era autoesiliata ma continuava a osservare l’Egitto tramortito dall’oppressione della lobby militare. Non veniva meno agli interessi per le questioni sociali, economiche, politiche e contemporaneamente al desiderio d’amore, ai bisogni delle nuove generazioni che rivendicano anche percorsi diversi dai conformismi, consolidati ovunque. Gli amici, gli attivisti che l’hanno conosciuta, apprezzata e ora la piangono, ne raccontano la spontaneità, l’immediatezza, un bisogno di vita che confligge con le notizie che la danno suicida. Sì, la nota diffusa dopo il ritrovamento del suo cadavere sostiene che Sarah si è uccisa. Forse perché non accettava la costrizione in cui lei stessa e tanti come lei, dentro e fuori dai confini nazionali, sono costretti a vivere. 

India, pandemia di Covid-19 e fame fra l’esasperazione generale


L’India vive un lockdown lungo finora novanta giorni nei suoi trentadue Stati. Certo in tantissimi luoghi, e non necessariamente nelle megalopoli, confinamento non fa il paio col distanziamento, sia perché risulta impossibile in tanti condomini di Delhi e di Mumbai come pure nelle precarie baraccopoli di periferie urbane e di villaggi rurali. In tal modo il Paese si barcamena fra un’epidemia che non registra regressi e il bisogno primario alimentare che travalica anche la necessità di lavoro. Ovviamente per i più le due ultime questioni s’inseguono: chi non può lavorare non mangia e non riesce a sostenere famiglie assai numerose. Gli iniziali 23 miliardi di dollari investiti dal governo per far fronte alla pandemia della povertà, potevano valere per il primo mese di chiusura non per il secondo e il terzo. Perciò l’India fa i conti col duplice fronte infettivo e sotto occupazionale che mette in ginocchio decine di milioni di persone e preoccupa l’establishment. Al vertice della crisi, un vertice amplissimo, si collocano gli ex esecutori dei tanti impieghi precari che si svolgono prevalentemente nel cuore delle metropoli - micro commerci e micro impieghi, dai trasportatori di cibo ai conducenti dei rickshaw - ma anche i lavori in nero dell’edilizia, dell’agricoltura, in gran parte pendolari fra i distretti più popolosi e bisognosi (Uttar Pradesh e Bihar) e il resto della nazione.
La fuga verso i villaggi d’origine svolta soprattutto ad aprile, quando dopo un mese di blocco e di distribuzione di cibo ai poveri, non si vedeva alcuna soluzione all’orizzonte, hanno prodotto tragici incidenti. Avvenuti durante le trasmigrazioni interne, compiute a piedi da milioni di cittadini per decine e decine di chilometri, vista l’assenza di trasporti pubblici. C’è chi è morto per via, cercando una via di salvezza. Ucciso da fame e sete, come in un ipotetico deserto, oppure tranciato sulle rotaie da treni che non dovevano passare e a un tratto si materializzavano. Caos e disorganizzazione, con l’aggiunta di chi ha soffiato sul fuoco del fondamentalismo politico cercando capri espiatori fra etnìe e confessioni, nonostante il tragico momento internazionale. Solo da poco il governo di Narendra Modi, pur ribadendo il proseguimento delle chiusure, ha ristabilito trasporti su gomma e ferro rivolti esclusivamente agli spostamenti interni per i pendolari del lavoro, rimasti senza lavoro. Una decisione estremamente tardiva che sta creando nuove tensioni nelle regioni raggiunti da questi cittadini che se non hanno in esse parenti assai stretti ai quali unirsi, vengono osteggiati dai locali timorosi d’essere infettati dal coronavirus dalla massa che giunge da metropoli dove i focolai pandemici sono accesissimi. I numeri, che la Comunità internazionale considera comunque parziali e sottostimati, pongono l’India al quarto posto fra le nazioni colpite nel mondo. Trecentoventunomila infettati e novemiladuecento decessi.

sabato 13 giugno 2020

Turchia, così diversa così uguale


La passione europea infiamma e affligge il cuore turco sin dai singulti finali dell’impero Ottomano, che non scaturirono dalla Grande Guerra, ma un secolo prima coi sultani riformatori Mahmud II e Abdülmecid I. “Riformarsi o morire” era il concetto che i due traducevano nelle leggi cosiddette benefiche (tanzimat) sostenute da ceti rampanti: i burocratici e l’élite urbana. Costoro, e consenzienti sultani, del modello europeo prendevano tutto: la leva obbligatoria, la scuola di pubblica amministrazione, un sistema educativo con primarie, secondarie, collegi, licei laici accanto a madrase e scuole cattoliche. E investimenti tecnici con la creazione di ferrovie e l’utilizzo di nuovi strumenti di comunicazione come il telegrafo. Ciò nonostante il sultanato non sopravvisse e la Sublime Porta crollò. Ma la moderna Turchia kemalista conservava tutti i tratti citati, esaltando quel nazionalismo tanto diffuso in Occidente e, con gli effetti dell’accordo Sykes-Picot, anche a Levante. Un nazionalismo segnato col sangue dell’amor patrio (vatan). Insomma, i turchi del Novecento del leone dei Dardanelli Atatürk, nonostante quel che credono tanti deputati di Strasburgo, ci somigliano. Ed Erdoğan? Di lui si può pensare tutto, tranne che non sia un politico con la maiuscola nelle accezioni migliori d’intuitività e strategia, e nei peccati mortali di cinismo e autocrazia. Il tira e molla sull’apertura dell’Unione Europea alla Turchia, con cui il vecchio continente ha intensissimi scambi mercantili e patti militari, è legato alla limitazione delle libertà individuali e di gruppo in Anatolia. Alla repressione generalizzata non solo di oppositori, come deputati e amministratori del partito filo kurdo Hdp, ma di giornalisti, intellettuali, artisti accusati di attentare alla sicurezza nazionale. Considerati terroristi da arrestare o eliminare com’è accaduto ad attivisti, avvocati dei diritti, alla popolazione di centri del sud-est messi a ferro e fuoco dall’esercito di Ankara. Un Paese guidato da un regime che calpesta i cittadini non può entrare nell’Unione. Però la Ue ha la memoria corta rispetto a questioni geopolitiche su cui Erdoğan gioca le sue carte. I tre milioni di profughi siriani che la coscienza europea non ha tenuto fuori dai suoi confini, pagandone al presidente turco la gestione, può risultare strumentalizzata quanto si vuole, ma di quelle anime l’Europa dei diritti non vuol saperne. Per quieto vivere, imbarazzo sociale, egoismo, xenofobia. Di fatto nell’edificio Louise-Weiss albergano tutti questi sentimenti con tanto di logo politico. Se il presidente turco è un cuore di tenebra nell’uso di migrazioni indotte dalle guerre, che peraltro perora e combatte, noi non siamo cherubini. Tanto si discute dell’invadenza e dell’incoerenza con cui Erdoğan ha consolidato, in dieci anni d’ingombrante affaccio internazionale, un potere interno ormai ventennale. Spregiudicato e doppiogiochista, ma capace come pochi d’inserirsi nelle falle altrui, di sporcarsi le mani lì dove altri non riescono a sbrogliare situazioni intricate. Nel recente caso della liberazione, ovviamente pagata, di Silvia Romano, che vede il governo del Belpaese e la sua Intelligence gloriarsi del buon esito dell’operazione, fa capolino la reale chiave di volta: i contatti coi rapitori stabiliti dal Mıt turco. Senza quel contributo il ritorno a casa dell’ostaggio sarebbe stato problematico o impossibile. Tutto ciò avrà un costo nei luoghi deputati a quella politica che preme all’uomo che si sente il nuovo padre dei turchi. Ad esempio, nell’intricatissimo intreccio d’interessi sulle Zone Economiche Esclusive nel Mediterraneo, che riconverte antiche diatribe sulle aree di pesca verso il pescaggio di gas dai fondali d’un mare che ogni Paese, a nord come a sud, ritiene il proprio. Le alleanze e i veti incrociati si susseguono attorno a norme interpretate a convenienza. Erdoğan, che più dell’Italia dell’Eni o della Francia griffata Total, pensa e briga in grande e punta a fare del suo Paese il super hub dell’energia, sfida questi giganti. Per incartarli li riporta sulla scacchiera libica, lì dove hanno compiuto mosse avventate nel 2011. Così le due nazioni sostenitrici di Al Serraj si ritrovano al fianco Ankara che, nella lotta interna a un territorio tornato suddito, sceglie l’uomo di plastica anziché l’uomo di ferro Haftar. Un calcolo, simile a quello dei governi di Parigi e Roma. Diversi nella forma, e neanche sempre, non nella sostanza.

martedì 9 giugno 2020

Accordi a Kabul, linea della pace e sdoganamento talebano


Il mantra è l’accordo di pace, e ora che a Kabul gli uomini dei Palazzi si sentono considerati dai taliban non si parla che di questa, fondamentale, questione. Finirla con mattanze e stragi è un interesse comune. La stessa popolazione può esserne contenta visto che fra i due fronti in guerra, è lei a contare la maggioranza delle vittime. Quel che sta scaturendo dopo l’ultimo ‘cessate il fuoco’, che regge dalla fine del Ramadan, è un confronto sui ruoli di potere da assumere e, parole a parte, bisognerà verificare ogni passo. Comunque le due delegazioni si fan forti del sentire della gente che appare pragmatico: “L’importante è che finisca tutto: lo spargimento di sangue, le bombe sulle nostre case, le mogli vedove, i figli orfani” riporta un’agenzia governativa. Vero. Ma sembra propaganda, anche perché segue un’altra affermazione che sull’onda della ‘linea della pace’ calca la mano sul necessario compromesso che dev’essere applicato dai due fronti. E nel baratto entrano i diritti, umani e delle donne. Così una seconda ‘voce del popolo’, riportata dalla stampa afghana, afferma: ”Diritti umani e delle donne sono importanti per chi vive nella capitale, nelle aree sperdute del Paese chi ha perduto i figli pensa alla fine delle ostilità e basta”. Dunque chi ha orecchie per intendere, intenda. Poi viene mostrato come i negoziatori del gruppo di governo, che appartengono prevalentemente alla sponda di Abdullah, tentino di convincere i ‘coranici’ della necessità d’introdurre negli accordi proprio diritti e libertà d’espressione.

I taliban annuiscono. Ormai i loro turbanti risultano più diplomatici delle feluche. Addirittura concordano in tutto, l’importante è che questi diritti non confliggano con la legge islamica. Dice uno dei loro portavoce, Suhail Shaheen: “Nel futuro sistema gli ulema e gli esperti di diritto islamico discuteranno e formalizzeranno le leggi così che nessun soggetto (uomo o donna, ndr) sarà deprivato dei propri”. A suo dire l’unica questione non negoziabile, è la guida islamica del governo, tutto il resto non dev’essere deciso ora. Prende tempo, lanciando una sorta di chi vivrà vedrà. Nel duetto mister Rahimi, pontiere e portavoce di  Abdullah, risponde sibillino che: “Aggirare richieste radicali con idee radicali, è una prassi dura da digerire”. Messaggi in codice da decriptare. Quel che il fiuto ci dice è che, come in altre circostanze, si stia patteggiando per il potere, un’altalena più o meno violenta che l’area dell’Hindu Kush ha conosciuto dagli anni Sessanta. E oltre mezzo secolo di storia afghana, accanto agli appetiti esterni di chi vuole trarre vantaggi da quest’immenso e ingovernabile altopiano polveroso (ora riconducibili al controllo aereo da parte statunitense e allo sfruttamento del sottosuolo da parte cinese), ripete un ciclico scontro fra signori della guerra e fondamentalismi politici interni più o meno ortodossi (talebani e islamisti del Khorasan). Perciò l’auspicabile spinta della pace - osannata dai dialoganti opportunisti filoccidentali e miliziani scannatori - rischia di rimanere un accordo scritto sulla sabbia. Capace di sommergere sotto la polvere dell’intolleranza quei diritti tanto chiacchierati, ma usati solo come maschere dai pacificatori dell’ultim’ora.   

Egitto, galera anche per i medici anticovid


Mica solo giovani - rapper, registi, blogger - il regime del generale-golpista Al Sisi se la prende anche coi medici, coloro che nel corso dell’epidemia di coronavirus erano stati definiti dalla stampa di regime “l’armata bianca egiziana”. Ora sono gli stessi media a puntare il dito sui dottori che hanno sollevato critiche per la gestione di fondi e strutture negli ospedali, specie quelli della magalopoli cairota. In un sistema sanitario indebolito dai tagli e dalle restrizioni (su questo versante Egitto e Italia vivono le medesime contraddizioni) il personale sanitario ha iniziato a esprimere i propri dubbi, a sollevare lamentele più che manifeste critiche. Anche temendo effetti repressivi. Eppure quest’ultimi non si sono fatti attendere. Gli incauti che avevano postato su social media come Facebook alcune immagini di disservizi nei reparti in cui lavorano sono stati prelevati dalla Sicurezza Nazionale e rinchiusi in prigione. Per quello che si sa la situazione infettiva egiziana non è delle peggiori al mondo, i casi ufficializzati di Covid-19 superano di poco le trentamila unità e il numero dei deceduti ammonta a mille e cento. Però i medici sono preoccupati da una curva di crescita dei contagi e chiedono al ministero della Salute sforzi maggiori per adeguare i reparti d’emergenza. Il personale sanitario impegnato nella cura agli infettati reclama le carenze nella quantità del materiale di profilassi, e questo li accomuna almeno ai tre quarti dei loro colleghi nel mondo. Per il regime del Cairo non è questo il problema, ma la divulgazione e la denuncia del fatto. Come per ogni altra questione del Paese, non sono ammesse critiche né punti di vista diversi e finanche le parole per raccontarli. Così fioccano arresti e accuse nientemeno che di terrorismo. Dopo l’iniziale pugno di ferro c’è stato un allentamento della tensione, visto che il sindacato del personale medico ha avviato una protesta contro il ministero del settore con tanto di denuncia alla magistratura in cui si legge che “… i comportamenti passivi e negligenti dell’apparato ministeriale possono condurre a una catastrofe sanitaria”, negli ospedali i reparti di quarantena dove collocare i positivi al Covid-19 (fra cui anche medici e infermieri) non erano stati predisposti. Quindi l’organo politico ha cercato di smorzare i toni e addivenire, almeno nelle intenzioni, a comportamenti meno totalizzanti verso i sanitari. I picchi della pandemia sono attesi per metà giugno e, per ammissione del ministro della ricerca scientifica, il numero dei contaminati è sicuramente superiore rispetto alle cifre rilevata dai non numerosi test. L’unico elemento che appare favorevole sono i sintomi dei colpiti, in genere meno aggressivi che in altre nazioni, a tal punto che da alcuni ospedali della capitale giungono notizie di posti letto di terapia intensiva rimasti vuoti. Quel che non si svuota sono le carceri egiziane, dove gli stessi medici protestatari sul web restano rinchiusi.

lunedì 8 giugno 2020

Libia, clandestini egiziani vittime del deserto


Mahmoud, Said, Ibrahim, Tamer, Gamal, Mohamed. Venticinque, trentasei, trentatrè, ventisei, ventisette anni. Dal Cairo a Minya. Sono stati uomini e giovani uomini. Hanno vissuto nell’Egitto tornato al travaglio, alla paura, al terrore dopo la parentesi della speranza. Ora sono cadaveri nella polvere del deserto libico. Assieme ad altri centodieci connazionali. Li hanno scoperti operatori della Mezzaluna Rossa di Libia, che continua a operare nonostante la finzione di Stato che ultimamente accredita Al-Sarraj. Gli egiziani erano in fuga dalla sempre più scarsa possibilità di lavoro e sostentamento nel proprio Paese, cercando riparo e aspettative nella rotta libica. Pericolosissima rotta per le condizioni naturali, per le milizie che lì si scontrano, per le bande che praticano sciacallaggio verso i clandestini illusi dalla rotta mediterranea. Sulla vicenda non si hanno notizie certe. La carovana, che procedeva a piedi e aveva varcato da poco il confine, potrebbe essere stata colta da tempeste di sabbia. Di fatto i clandestini, forse abbandonati dai ‘passeur’ sono morti per mancanza d’acqua e viveri. E’ uno dei tanti drammi, alcuni conosciuti e ricordati dai media, altri ignoti o peggio ignorati per opportunità dalla politica che in questi giorni sta definendo il quadro d’un territorio tuttora chiamato Libia. Certo, la precarietà dei mesi scorsi sul reale potere fra il fantoccio occidentalista Sarraj e il piccolo signore della guerra su cui la Russia putiniana puntava le sue carte a tal punto da impiegare nel deserto i propri killer del Wagner Group, è stato superato dall’ennesima ingerenza di un dominus dell’attuale geopolitica mediorientale: Recep Tayyip Erdoğan. Intervenuto sui tavoli diplomatici e nei cieli libici, trasferendo l’appoggio da Haftar a Sarraj e spiazzando un po’ tutti.
Putin ha pensato di far rientrare a casa i mercenari, l’Occcidente s’è visto sollevato da impegnare propri reparti in loco facendo fare all’alleato Atlantico turco. Quest’ultimo, tramite il suo presidente, sta usando una delle mine vaganti della questione libica - appunto i clandestini - per imporre all’Europa proprie richieste riguardo a flussi migratori e campi profughi. Come se non bastasse la già annosa questione siriana. Così, mentre tramonta il piano, valido sino a poco tempo addietro, del fronte di sostegno all’uomo forte Haftar (su cui convergevano Russia, la stessa Turchia, Francia, Egitto, Emirati Arabi Uniti) chi resta stordito da ritiri e cambi di passo è il presidente-golpista egiziano Al Sisi. Dal cui regime, dalla cui miseria per il popolo fuggiva il gruppo trovato cadavere. E l’Italia, che proprio ieri col premier Conte ha dialogato col dittatore egiziano, parlando appunto di Libia, non del dramma dei migranti, bensì della leadership, degli interessi energetici che lì e al Cairo coinvolgono l’Eni, delle commesse di armi (900 milioni di euro lo scorso anno) e ora le fregate di Fincantieri e i caccia di Leonardo che di miliardi ne farebbero addirittura dieci. Quest’Italia la tragedia della migrazione clandestina la conosce perché la vive sulla pelle dei territori. La teme, la esorcizza, ma non la risolve con le ambiguità rivolte non solo alla Bruxelles del rifiuto, che non è esclusivamente Visegrád, ma verso i regimi-canaglia che l’opportunismo geopolitico sostiene. L’Egitto di Sisi è uno di questi. Mentre la Libia è un ibrido a uso e consumo del cinismo dei momenti: ieri Sarkozy, oggi Erdoğan.