giovedì 27 novembre 2014

Afghanistan, attacco continuo




Nuovo mattino, nuovo attacco. Ancora una volta nella superprotetta Kabul, che in realtà offre il fianco come e più di altri luoghi afghani. La bomba esplode nel nono distretto cittadino, colpendo l’ennesimo gruppo di auto in movimento nella capitale. Dall’area delle ambasciate (dov’è anche quella italiana), in particolare dalla britannica escono alcune vetture obiettivo dell’assalto suicida di un kamikaze su una moto. Accade nella controllatissima Jalalabad Road, già palcoscenico di recenti attentati,  dove sorgono abitazioni per gli stranieri e molti servizi delle Forze Armate locali. Sei le vittime, una dentro l’auto che secondo quanto dichiara la struttura britannica non è un diplomatico. Trentasette i feriti, come spesso accade quasi tutti passanti. Stavolta la rete talebana ha rivendicato l’attacco che, come altri che si susseguono ormai a ritmo quotidiano (quello dei giorni scorsi rivolto contro 45 giovani spettatori d’un incontro di volley nella provincia di Paktika), puntano a creare caos e colpire il disegno normalizzatore dell’asse Washington-Kabul. Il governo Ghani per sostenerlo è impegnato sul piano economico e della sicurezza. 


Fra i pesi massimi con cui dialoga e cerca partnership è presente anche la Cina. L’incontro di fine ottobre col presidente Xi Jinping prepara e amplia la disponibilità afghana verso lo sfruttamento delle risorse del sottosuolo su cui Pechino lavora da almeno sei anni. Previsto l’arrivo di miliardi di dollari, del portafoglio cinese, col presupposto che l’Afghan National Army garantisca una sicurezza per tutta la filiera del ciclo, dall’estrattivo, al logistico, al commerciale. Da parte sua Pechino dovrebbe intervenire sul Pakistan affinché quest’ultimo lasci operare la neo amministrazione afghana senza ostacoli. Ma la partita è ampia, varia e ricca di attori. Sul versante economico esistono antichi interessi di aziende britanniche e statunitensi, riguardanti sempre i minerali, e l’eventuale fornitura d’infrastrutture. Su quello strategico-militare gli americani fanno da padroni e hanno recentemente ricevuto il benestare anche dal Parlamento afghano che ha ratificato la firma posta da Ghani all’Accordo bilaterale sulla sicurezza che consente alle basi aere Usa di consolidarsi e continuare a controllare militarmente quest’avamposto strategico nel cuore dell’Asia.

Gli incomodi sono proprio Pakistan e Taliban. Il primo ufficialmente promette, anche a vicini pesanti e potenti qual è la Cina, non ingerenza nelle vicende afghane. Di fatto prosegue a non nascondere le sue velleità di potenza regionale per influenzarne la politica, finanche quella interna e continua a far lavorare la sua Isi. Più la galassia talebana, attualmente in distonia con tutti: truppe Nato, considerate cronici nemici, leadership afghana, teoricamente disponibile al dialogo coi guerriglieri ma impegnata su più tavoli diplomatici, dunque considerata inaffidabile. La rete talebana, che negli ultimi anni appariva divisa fra gruppi d’interessi anche distinti, sembra in questa fase agire omogeneamente per mettersi di traverso al disegno “normalizzatore” di Ghani e dei propri alleati interni e internazionali. Così le bombe continuano a brillare, la popolazione a morire.

martedì 25 novembre 2014

Sultanpascià Erdoğan, gli uomini che svalutano le donne


La maniacale presenza scenico-ideologica (e ora anche teologica, così Fethullah impara) con cui sultanpascià Erdoğan non si lascia sfuggire occasione per annunci, esternazioni, inviti forzosi, imposizioni, divieti e ora anche prediche s’è sviluppata a lungo negli anni di premierato. Dall’agosto scorso, che l’ha incoronato presidente islamico a furor di scheda, lui si sente in dovere anche d’interpretare il Corano. Al Baghdadi rischia di vedersi rubare la vetrina della reazione mediatica; fors’anche l’ambiente degli ayatollah sciiti si preoccupa di fronte a una presenza pronta a competere col loro velayat-e faqih. Il tempismo poi è sempre stato l’asso nella manica del leader dell’Akp. Inizialmente creduto un gaffeur, dimostratosi invece un peso massimo della provocazione e del braccio di ferro, finora vincenti per lui. Così alla vigilia della “Giornata mondiale contro la violenza sulle donne” anziché trattare il tema del maschilismo assassino nella società turca - in questo simile al mondo cattolico, protestante, ebraico e di tante religioni - discetta ex cathedra, come i papi inquisitori del tempo andato. “L’eguaglianza fra uomo e donna non esiste, c’è piuttosto l’equivalenza”. Questo dice Recep Tayyip, come si trattasse di questioni matematiche, coppie ordinate dell’insiemistica, roba da relazione binaria… E via andare: “Gli uomini e le donne non possono ricoprire le stesse posizioni perché sono diversi per indole e costituzione e non si può andare contro natura”. Quindi fra ovvietà e benevola concessione “a una donna incinta non si può dire: prendi una vanga e scava tutto il giorno”. Ma è appena un cenno, perché il suo bersaglio di sono certe idee femminili, che anziché darsi esclusivamente alla maternità concepiscono un’ideologia. Per ribadirlo prende le scritture e scomoda il Corano: “La nostra religione ha definito una posizione per le donne: la maternità”. Guai alle diverse. Ineccepibile, indiscutibile, come talune interpretazioni del salafismo duro e puro.

domenica 23 novembre 2014

Sisi insegue l’Europa

Apertura all’Europa del presidente-generale per offrire chance all’Egitto martoriato da un’economia disastrata e dall’instabilità interna sfociata negli ultimi mesi anche nel terrorismo. Abdel Fattah Sisi, il golpista legale, inizia stamane un tour italiano che lo porta al cospetto di Napolitano e Renzi, ma anche da papa Francesco, per poi volare in Francia. Un viaggio con cui cerca assensi nell’Occidente prossimo, dopo aver ricevuto il benestare di un’America che ha abbandonato l’infatuazione filo Fratellanza e aver avvicinato, già prima d’essere eletto presidente, il gigante russo. Resta la Cina, cui penserà a breve. Il dinamismo diplomatico è una necessità per il paesone arabo rimasto per un periodo nell’indefinitezza d’una partnership internazionale. Ora quel che preme maggiormente sono capitali e finanziamenti con cui sfamare milioni di persone, comprese le tante occupate nell’indotto della lobby militare che fonda la sua forza sul legame e la subordinazione di milioni di cittadini tenuti fedeli coi salari offerti dallo statalismo militare più che con un disinteressato patriottismo. Servono dollari ed euro, aziende disposte a investire in una nazione che non ha trovato una nuova via allo schema d’un potere posto sotto tutela dell’esercito che lo guida con un uomo forte.
Quest’uomo, fautore di un ordine autoritario, che non ha esitato a colpire gli avversari trucidandoli in strada, giustifica candidamente l’operato. In alcuni passi dell’intervista esclusiva concessa ieri al Corriere della Sera afferma: “I Fratelli Musulmani avrebbero potuto collaborare con le Forze armate, nessuno li perseguitava, si muovevano liberamente. Invece si dettero alla violenza e crearono un’occupazione illegale permanente nella zona di Rabaa Al Adaweya attirando provocatori d’ogni genere. Cosa dovevamo fare?” Alla puntualizzazione di Franco Venturini sulla durezza della repressione e alle successive condanne con pene di morte, risponde “Guardi, è lei che esagera”. Appare più conciliante sul caso dei tre giornalisti di Al Jazeera reclusi da 331 giorni per presunto attentato alla sicurezza del Paese: “Se avessi avuto il potere di decidere non li avrei condannati, li avrei espulsi. Comunque qualcosa si muove, ci poniamo il problema di come risolvere questa situazione”. Così parla Sisi che ha un altro punto fermo nel programma di lavoro diplomatico: accreditarsi definitivamente agli occhi del mondo scrollandosi di dosso il fantasma d’essere un dittatore. Per ottenere il benestare nel Mare nostrum pensa d’inserirsi nelle ferite sempre aperte della crisi Mediorientale.

In Palestina, dunque. Per la quale ripropone un Egitto mediatore nell’atavica contesa con Israele a garanzia della sicurezza di quest’ultimo e del diritto d’uno Stato per l’altro popolo, sfrattato e invaso. La chiave di volta è nuovamente il suo esercito che andrebbe ad affiancare (sostituire sarebbe utopico) quello di Tsahal nei Territori occupati. “Non sempre - chiosa - per il tempo necessario a stabilire la fiducia. Ma prima deve esistere lo Stato palestinese”. Non è però tornato, almeno in quest’intervista, sugli sbancamenti effettuati a Rafah, con tanto di arresti e deportazioni degli abitanti di confine per creare una ‘zona cuscinetto’ che non serve certamente ai gazawi. Dove non pensa d’inviare truppe è in Libia lì “… la Comunità Internazionale deve fare una scelta molto chiara e collettiva a favore dell’esercito nazionale libico. Aiuti, equipaggiamenti, addestramento, devono andare all’esercito regolare”. Lui pensa di proseguire la lotta al terrorismo dell’Isis e di chi s’accredita verso di loro, come il gruppo Ansar Beit Al Maqdis attivo nel Sinai e non solo. Se l’azione porterà risultati ne scaturisce il doppio vantaggio di sbrogliare a proprio favore il caos interno e mostrarsi un alleato affidabile e una pedina importante per la fase attuale che vede l’Occidente, lontano e vicino, bisognoso d’aiuto. Il generale dei generali è pronto offrirlo, dove fa comodo a lui. Ana asif, all’Egitto.

venerdì 21 novembre 2014

Tunisia, l’ora del presidente

Torna alle urne la Tunisia del cambiamento e della conservazione, stavolta votando per il nuovo presidente. Ventisette candidati, vecchi volponi e alternative reali o presunte. Tredici gli indipendenti. La tesi d’una Tunisia unica nazione delle Primavere arabe a essersi preservata dal caos e dalla restaurazione autoritaria è davanti agli occhi di tutti. Il miracolo s’è materializzato dopo le turbolenze e gli accesi contrasti d’un anno fa fra movimenti laici e Islam politico che, contestatissimo dopo gli oscuri episodi dell’assassinio politico di due capi dell’opposizione, ha evitato il braccio di ferro che avrebbe potuto dipingergli scenari cairoti. Scelta dibattuta fra opportunismo o realismo ha comunque condotto il partito a confrontarsi elettoralmente e accettare la sconfitta da parte dei laici conservatori di Nidaa Tounes, che ora pongono il leader Caid Essebsi, ottantottenne per tutte le stagioni, in prima fila per la più alta carica dello Stato. La Costituzione, adottata dal mese di gennaio, prevede un sistema semipresidenziale con presidente e premier a condividere il potere esecutivo. E’ il capo di Stato, eleggibile per due mandati di cinque anni ciascuno, a presiedere sicurezza nazionale, politica estera e nominare ministro della difesa e degli esteri.
Negli ultimi tempi una questione che ha tenuto banco è l’abolizione della legge che vietava ai politici legati al clanismo di Ben Ali e signora di ripresentarsi alle elezioni. Anche alcuni esponenti di Ennahda hanno accettato l’emendamento, decidendo di confrontarsi alle urne e nei seggi coi vecchi e nuovi volti di quel sistema più che laico, laido, oppressore e torturatore. Decisione sorprendente, che ha aperto il dibattito nelle file di quel partito, ma che lo rimette in gioco nella fase di creazione del prossimo governo. Nidaa Tounes non ha i numeri per formarlo e per ora  ha chiesto consultazioni solo dopo le presidenziali. Da quest’ultima sfida gli islamici si smarcano, non presentando uomini di punta per l’incarico, si dipingono tolleranti e democratici accettando il dialogo a tutto tondo e restano disponibili all’ipotesi di un esecutivo d’unità nazionale.  Fra i nomi noti per la presidenza oltre a Essebsi c’è il presidente uscente Moncef Marzouki, figura rispettata per i suoi trascorsi d’oppositore alla dittatura di Ben Ali; il capo dell’Assemblea Costituente Mustapha Ben Jaafar; la magistrata e prima candidata donna Kalthoum Kannou che, forse deludendo tante femministe del Paese, dichiara di non essere una candidato per le donne, ma per l’intera nazione.

Poi c’è l’out sider che fa impazzire il gossip politico nazionale ed estero. Slim Riahi, già ribattezzato il Berlusconi tunisino, e per chi ha lo sguardo fisso oltre il canale di Sicilia, in lui c’è anche un pizzico di renzismo dato dall’essere quarantenne, ammaliatore, dinamico. Come il prototipo d’ogni buon populista la forza di Riahi sta nel rapporto diretto con la gente. Lui ci va a nozze. Oltre a cercarla negli stadi legandosi e finanziando il Club African lo rincorre coi classici mezzi d’un proprio network televisivo e d’un partito patriottico (Upl). Non disdegna, ovviamente circondato da nugoli di guardie del corpo, di passare in certi tuguri dei sobborghi di Tunisi a promettere lavoro, a far sognare supporter calcistici, giovani disoccupati e disperati. I politologi sostengono che potrebbe essere una sorpresa proprio perché pesca nel serbatoio dell’ignoranza politica, fra le masse sprovvedute e bisognose da cui la famiglia Riahi s’allontanò cercando fortuna in Libia. Accreditato di legami coi Trabelsi e Gheddafi, Slim smentisce solo quest’ultima passata vicinanza. Continua a ripetere che se verrà eletto la sua esperienza di manager e affarista calamiterà investimenti e capitali. Certe chances gli giungono dall’aria che tira in Tunisia: le risposte a un sondaggio preelettorale scelgono con oltre il 70% una più forte economia rispetto a una più forte democrazia. Mentre i tifosi del club dicono: è pieno di soldi, lui non ci ruberà di certo. Provare per credere. Sull’altra sponda del Mediterraneo c’è chi piange ancora.