Quella di
Soheila è storia dolce e drammaticamente vera. La narra il documentario “To kill a
sparrow” del Center Investigative
Reporting che ha avvicinato la ragazza dopo la sua liberazione da due
prigionìe: dal carcere di Kabul dov’era rinchiusa e dal marito da cui scappava.
In realtà la fuga maggiore Soheila la compie - come tante donne afghane - dai
tentacoli della tradizione e d’una faziosa e distorta interpretazione della
religione islamica voluta dalle figure maschili di famiglia e della società. Nell’ascoltare
le loro giustificazioni ci si sente schiacciati da un pensiero granitico che
comprime gli stessi aguzzini delle donne. Oppressori a loro volta oppressi da
consuetudini, tribalismo, ignoranza, conformismo, opportunismo maschili e maschilisti. Soheila
finisce nel vortice infernale della persecuzione giudiziaria dopo aver lasciato
il consorte cui era stata promessa da quando aveva cinque anni. Promessa
paterna, diffusissima in Oriente. Quindi inseguendo l’incontro con l’uomo di
cui s’innamora. Gli dice: “Portami via di
qui oppure vendimi; portami via o m’uccido”.
Quell’uomo
è Niaz, un suo cugino,
che dovrebbe rispettare famiglia e tradizioni, ma non ha altri orecchi che per
il richiamo del cuore. Conduce Soheila nella capitale dove qualcuno gli
suggerisce di sposarla. “Perché non lo
fai, sei scapolo?”, lei però non è libera, l’unione è illegale così i due scelgono
di vivere nascosti. Il padre della ragazza, vecchio quasi quanto il marito
abbandonato, si rivolge alla polizia denunciando la figlia. La sorte o una
soffiata conducono gli agenti nella zona dove Soheila vive e una volta scoperta
finisce in prigione. Niaz non si dà pace, va dalla polizia anche lui. Racconta:
“Mi sembrava impossibile stare fuori
mentre lei era reclusa, volevo regolarizzare il nostro amore. Lei avrebbe
divorziato”. Amore, divorzio: illusioni nell’orizzonte del fondamentalismo
tribale. Ancora Niaz: “Protestavo perché
tutto mi sembrava illecito, così hanno arrestato anche me. Avrebbero dovuto
imprigionare suo padre che l’ha venduta come fosse una mercanzia. Non c’è legge
né Corano che ammettono questo comportamento”. Non la pensa così il padre
avvinto alla tradizione più conservatrice.
“La nostra religione non fa fare a una figlia
ciò che vuole, secondo la legge
islamica una ragazza deve sposarsi con colui che il padre ha scelto. La donna
gli appartiene e non ha diritto di rifiutarsi”. Perciò Soheila sta in un carcere femminile,
Niaz in uno maschile. Dopo sedici mesi di detenzione lei viene liberata per
un’amnistia che il presidente Karzai concede a chi non ha commesso crimini
gravi. Il suo innamorato, però, rimane recluso. La donna torna nella casa
d’origine parlando di divorzio e si ritrova inquisita: padre, fratello,
cognato, zio tutti i parenti maschi l’accusano, l’insultano, la picchiano. E’
il disonore della famiglia, per causa sua sorgeranno faide. Il padre le fa una
proposta: “Ti riammetto in casa solo se
ucciderai tuo figlio”. Soheila non risponde, fa capire che ci penserà. La
notte stessa fugge ancora. Trova protezione in una casa-rifugio, medita di
lasciare l’Afghanistan, sebbene Niaz sia prigioniero… I parenti non si danno
per vinti. “Noi vogliamo convincerla a
tornare e seguire i nostri consigli, se non lo farà la uccidiamo. Non saremo
dispiaciuti, sarà come sparare a un passero”.
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