martedì 30 agosto 2022

Piogge monsoniche mai viste sommergono il Pakistan


L’alluvione che sta affliggendo da giorni il Pakistan assume i contorni del disastro. Sono oltre un migliaio di vittime finora accertate e un milione gli sfollati, ma per 33 milioni di persone la situazione abitativa è totalmente precaria poiché oltre mezzo milione di case di cittadine e villaggi delle province del sud-ovest del Baluchistan, dell’est del Punjab, nel meridione del Sindh sono state spazzate via dalla furia delle acque. Fiumi e torrenti sono ingrossati da piogge monsoniche che proseguono battenti nelle aree montuose, ovviamente l’incidenza del cambiamento climatico sta facendo la sua parte in tali stravolgimenti. L’assistenza ha tardato a partire con un palleggiamento di responsabilità fra le autorità che dovevano provvedere e tuttora taluni soccorsi latitano. Il primo ministro Shehbaz Sharif si è recato in visita in alcune zone, più come atto dovuto e operazione-immagine davanti a una palese emergenza per la quale il governo ha stanziato 1.2 miliardi di dollari. Nell’immediato saranno stornati dai finanziamenti, circa 3 miliardi, che il Fondo Monetario Internazionale aveva ultimamente concesso per le difficoltà economiche e l’asfissiante inflazione che tira in basso la rupia. Ma il ministro per la Pianificazione Iqbal stima in 10 miliardi di dollari le perdite per il Paese.  Il quadro politico è ingessato, concentrato com’è sin dalla scorsa primavera dalla crisi del precedente esecutivo tenuto da Imran Khan. Questi ha avviato crescenti proteste di piazza contro i maggiori partiti che avrebbero favorito un ‘complotto’ con cui è stato allontanato dall’incarico. Nelle aree disastrate servono interventi eccezionali, le immagini diffuse dalle emittenti locali e da Al Jazeera mostrano persone allo sbando cui l’aviazione con elicotteri fornisce viveri, solo nelle situazioni più isolate e disperate i mezzi atterrano caricando feriti. Preoccupano presente e futuro prossimo: ben 80 milioni di ettari di terreno coltivato sono stati sommersi con conseguente distruzione dei raccolti e questo a breve creerà ulteriori criticità. Rompendo il rigido protocollo, peraltro reciproco, con la vicina e rivale India il ministro delle Finanze pakistane Ismail ha affermato che si possono ristabilire scambi mercantili con Delhi, riguardo a derrate alimentari. Il premier Modi, per ora, ha solo dichiarato di sentirsi rattristato dalle catastrofiche notizie. Più concretamente Turchia e Iran stanno fornendo cibo, la Cina ha spedito 25.000 tende e 300.000 dollari di primi soccorsi. Dall’Occidente s’è mosso solo il Canada con 5 milioni di dollari per l’assistenza umanitaria. Come hanno ribadito Croce Rossa Internazionale e Mezzaluna Rossa, immediatamente mobilitate, insieme al cibo servono tende per ripararsi dai ripetuti temporali, vestiario e coperte che nelle parti montuose possono essere distribuite solo via aria, viste le interruzioni subìte da strade asfaltate e sterrate. Gli smottamenti e le frane sono all’ordine del giorno. Esperti di meteorologia hanno affermato che da oltre mezzo secolo non si registravano monsoni tanto invasivi e distruttivi. Però il fenomeno delle piogge periodiche è sempre esistito e nessun governo ha predisposto piani di protezione per i civili. Il cospicuo numero dei soldati e la lobby dei generali, così presente nella vita politica nazionale, s’interessano esclusivamente alla ‘sicurezza’ nazionale.  

giovedì 25 agosto 2022

Khan, il costo d’una libertà vigilata

 

Centomila rupie, quattrocentocinquanta dollari, è costato all’ex premier pakistano Khan restare a piede libero. Per le tasche d’un ex campione strapagato come lui fu, si tratta d‘una mancetta che può permettersi. La Corte che stamane ha avviato il dibattimento per una sua eventuale incriminazione per terrorismo rimanda tutto alla seduta di mercoledì prossimo. Per nulla contento Khan continua a lanciare commenti al vetriolo su un Pakistan “deriso in tutto il mondo che si comporta come una Repubblica delle banane”. Mentre i commentatori locali - già preoccupati per uno sviluppo violento del conflitto fra fazioni, coi sostenitori del Pakistan Tehreek-e-Insaf mobilitati attorno all’abitazione del proprio leader per impedire fisicamente ai poliziotti di portarlo via, qualora i giudici dovessero disporre l’arresto - dichiarano che la crisi è apertissima.  Infatti la cauzione non esclude il fermo dell’accusato per le prossime battute. La battaglia di Khan contro chi l’ha spodestato nello scorso aprile - i partiti alleati - e chi a suo dire avrebbe architettato la manovra - la Casa Bianca che gli critica la libertà di azione in politica interna (aperture al fondamentalismo) ed estera (avvicinamento a Russia e Cina) - trova, sempre secondo le sue valutazioni, una novità assoluta sullo scenario nazionale: cittadini comuni che si mobilitano spontaneamente senza spinte di partito. Infatti il primo ministro disarcionato considera le mega manifestazioni di massa a suo favore, un fenomeno che prescinde dall’organizzazione del suo stesso partito. Nelle piazze stanno scendendo quei cittadini che hanno toccato con mano il suo impegno contro la corrotta linea dei gruppi familiari, un cancro nel panorama interno, i cittadini che non temono neppure la possibile repressione di polizia ed esercito. 

 

Tale fidelizzazione rientra nella fiducia conquistata per l’impegno governativo precedente e, in queste settimane, per l’opposizione alla coercizione con cui l’esecutivo Shahbaz cerca di bloccarlo. Khan denuncia ancora la minaccia a cronisti a lui vicini, oltreché il sequestro e la tortura del suo collaboratore di rango Shahbaz Gill. Per queste dichiarazioni verrà giudicato secondo le leggi sull’antiterrorismo: starebbe infangando le Istituzioni. L’ex premier, nient’affatto sprovveduto, sta giocando forse la partita della vita e vuole condurla a fondo. Vista la notorietà e la particolarità della vicenda – nella storia dello Stato pakistano nessun primo ministro è stato mai sfiduciato, per giunta a un anno dalle elezioni – riesce a restare sotto i riflettori mediatici. Così dice: gli ufficiali che hanno compiuto atti contro la legge (le sevizie al suo collaboratore) sono stati imbeccati dall’alto. La magistratura dovrà svelare i contorni dell’oscura questione, essa sì degna di terrorismo oppure di un intrigo internazionale. In realtà,  tutto ciò sta accadendo in una nazione dove l’Intelligence è dalla nascita addestrata dalla Cia, che in fatto d’illegalità non si fa scrupoli, dunque i sospetti di Khan metterebbero quasi in discussione la sua scaltrezza. Ma è anche vero che sulla scena interna l’Isi è un attore a sé stante, poco propenso a sostenere a priori qualsivoglia governante.  Sembra un controsenso ma in quella latitudine è così. Peraltro l’Inter-Service Intelligence risulta spesso concorrente delle Forze Armate, che infatti hanno una propria agenzia segreta. L’unica vicinanza fra Isi e militari consiste nel reclutamento di figure di spicco della lobby delle stellette inseriti al vertice della struttura. Costoro, però, una volta in organico assumono un orientamento in linea con l’apparato degli 007. Perciò riassumendo: nel contrasto fra Khan (Pakistan Tehreek-e-Insaf) e Shahbaz (Lega Musulmana-N) sono in ballo altre figure istituzionali: magistratura e partiti tradizionali dei clan familiari (Pakistan People Party), più Intelligence, controservizi militari, Forze Armate quest’ultime tre alla finestra in osservazione. Con la variabile di centinaia di migliaia di supporter, “i cittadini di Khan”. Seppure per decine di milioni di pakistani il cuore batte angosciato per un’inflazione a doppia cifra che ha ampiamente superato il 20%.

martedì 23 agosto 2022

Pakistan, dall’odio religioso a quello laico

Coi suoi discorsi d’odio, tali li definisce l’accusa delle forze di polizia, l’ex premier pakistano Imran Khan rischia la galera per terrorismo. Le leggi in vigore non lasciano scampo a chi accusa organi ufficiali del Paese, e Khan coi rally itineranti, lanciati dal momento della sua rimozione causata dalla sfiducia degli alleati di governo al suo Movimento per la Giustizia (PTI), è in guerra aperta con tutti i partiti e le Istituzioni. Non solo, dunque, la Lega Musulmana N che ha riacciuffato il potere col clan Sharif (l’attuale primo ministro Shehbaz è il fratello del condannato per corruzione Nawaz), ma gli stessi organi della forza che rappresentano una lobby intoccabile e temuta dalla stessa politica. Cosa peraltro nota al fuoriclasse di cricket, salito ai vertici dello Stato nel 2018 grazie a un sostegno non secondario offerto dai generali, che entro settembre vanno a rinnovare le loro cariche. La denuncia di Khan è tranciante: un suo collaboratore è stato torturato dopo l’arresto, di tale nefandezza devono rispondere ufficiali di polizia e una giudice. Quindi, accanto alla “cospirazione straniera” che avrebbe manovrato i politici suoi ex alleati, Khan denuncia questa persecuzione contro il partito da lui fondato che aveva rotto gli schemi di controllo del Paese. Per ora il leader del Pakistan Tehreek-i Insaf non è stato arrestato, ha pagato una cauzione ma a fine settimana dovrà comparire davanti a una Corte che, applicando le norme in vigore, può condannarlo ad alcuni anni di reclusione. La questione è delicata: magistratura e polizia tengono alle proprie autonomia e reputazione e un passaggio indolore alle accuse di Khan ne svilirebbe immagine e ruolo. 

 

D’altro canto il campione prima di diventare premier era lodato per le gesta sportive e gode di un’amplissima popolarità. L’ascesa al vertice della nazione sull’onda di un innegabile populismo era anche un segnale al paludato modello dei clan familiari che da settant’anni decidono la vita socio-politica nazionale. Per questo i militari hanno puntato su Khan. Però non potevano tollerare certe alzate di testa con cui, ad esempio, aveva attaccato un intoccabile come l’Ex Capo di Stato Maggiore Bajwa. Insomma sulle piazze e nei tribunali va in scena un braccio di ferro fra poteri forti (i militari lo sono, il populismo di Khan è da verificare) che potrebbe avere conseguenze sanguinose. Già un suo ex ministro ha dichiarato che l’arresto del capo provocherebbe sommesse contro il governo perché i sostenitori del PTI sono rabbiosi da mesi. Osservatori interni dichiarano che l’attuale esecutivo respingerà decisamente ogni pressione. Nonostante l’aspro conflitto fra le parti, quel che sembra mancare è una presa su ampi strati della popolazione. Il quadriennio gestito da Khan è parso deficitario soprattutto sul terreno economico, a dirla tutta è lì che le promesse di cambiamento di rotta rispetto al passato hanno perso colpi. Le velleità di crescita del Pil nazionale, oltre a essere state rallentate dalla crisi scaturita dalla pandemia, hanno visto tradite le aspettative dei ceti medio-bassi. Cosicché il Movimento per la Giustizia può contare sulla fede dei vecchi sostenitori più che sulla convinzione di nuove leve, visto che tutti fanno quotidianamente i conti con l’inflazione. Eppure quel che finora è passato sulle reti social o nei comizi di piazza potrebbe lasciare il posto a una violenza cieca. Non quella dell’islamismo settario che propone una soggettiva Shari’a (i tristemente noti gruppi deobandi Lashkar-e Jhangvi, Ahle Sunnat Wal Jamaat), ma la sovversione anti istituzionale di parte egualmente bollata come terrorista.


lunedì 22 agosto 2022

L’Emirato afghano nel condominio asiatico

Se fra i Paesi confinanti col territorio afghano Pakistan e Iran accolgono gran parte dei fuggiaschi - rispettivamente 1.3 milioni e 800.000 profughi e continuano a rappresentare le nazioni rifugio per ogni tipologia: ex membri dell’esercito e funzionari di Ghani, sfollati da città di confine come Jalalabad ed Herat, piccoli mercanti che non si fidano del regime e rivolgono altrove il loro commercio minuto - anche Turkmenistan, Uzbekistan e Tajikistan sono coinvolti in un via-vai d’interessi. Coi tajiki e la stirpe Massud i taliban hanno vecchi conti in sospeso. Nella primavera 2021 il figlio del defunto leone del Panshir, Ahmad junior, era stato accreditato di una pseudo-resistenza all’avanzata talebana che invece non ha trovato ostacoli fino alla presa di Kabul. L’enclave della famosa valle non ha rappresentato né una diga né un’alternativa al successo dei miliziani coranici. Il leoncino e i suoi fedeli sono riparati a Dushambe e per i sei milioni di tajiki, da generazioni radicati nell’area settentrionale dell’Afghanistan, la vita nell’Emirato è diventata più dura. Come per gli hazara sparsi fra la provincia di Herat, quella di Bamiyan e la stessa capitale.  Del resto negli oltre 1.300 km di confine con lo Stato tajiko i sei punti di attraversamento fra le due nazioni sono da un anno  in mano talebana e chi vuole espatriare deve ricevere l’assenso loro e di chi sta al di là. Inoltre su questo limite i turbanti dell’Emirato sono coadiuvati dai combattenti della Jamaat Ansarullah, l’ala tajika del Movimento Islamico dell’Uzbekistan a Dushambe bollata come terrorista. Così il locale presidente Rahmon, adducendo ragioni di sicurezza, negli ultimi mesi ha mobilitato truppe verso una frontiera diventata nient’affatto tranquilla. 

 

Da parte sua l’Uzbekistan è concentrato sulla questione dei servizi di cui l’Afghanistan è privato da decenni, con l’aggravio dei venti anni d’occupazione della Nato che dei 2000 miliardi di dollari lì convogliati ha fatto scempio senza creare alcuna infrastruttura. Tutt’oggi il 60% delle forniture elettriche presenti sul territorio afghano provengono dall’Uzbekistan, sebbene gli attuali governanti di Kabul non stiano pagando le forniture, sostenendo di non essere in grado di farlo. Eppure nonostante i black-out la corrente corre. Fra i confinanti settentrionali a tendere una mano alla pochezza economica afghana c’è pure il Turkmenistan, che durante il primo Emirato s’era posto in posizione neutrale davanti al mullah Omar. Ora da Ashgabat dicono che i bistrattati vicini necessitano di quegli aiuti che l’Occidente nega, però solo un’economia normalizzata può portare sicurezza e stabilità. Volendo far seguire alle parole fatti sempre aleggia il progetto del gasdotto Tapi, basato appunto sul business energetico. Se ne parla da più d’un decennio, le condotte sono già posate in territorio turkmeno, parzialmente altrove, nulla nel lungamente belligerante e travagliato Afghanistan. I taliban, accettando i lavori in loco, avevano promesso 30.000 unità per controllare i cantieri nelle provincie attraversate dalle condutture. Ma l’incapacità di garantire la sicurezza anche in pieno centro di Kabul ha bloccato nuovamente tutto, come ai tempi di Ghani e degli americani. Quella pipeline fa gola all’esplosivo dell’Isis Khorasan e chi finanzia non vuol gettare al vento denaro. In attesa di chissà quale vigilanza, il Tapi resta fermo. Nel loro pragmatismo spiccio i coranici hanno patteggiato con Ashgabat un migliaio di tonnellate di metano per tirare avanti nei prossimi mesi. Poi si vedrà. 

 

Di Pakistan e Iran s’è detto dell’accoglienza, concessa o forzata, alla massa afghana. Con conseguenti differenze. Teheran ha accettato oltre tremila militari del disgregato esercito kabuliota in cambio di cosa non è chiaro, invece sul lunghissimo limite orientale che ricalca la coloniale ‘linea Durand’ un vulnus è costituito dall’area tribale delle Fata dove spadroneggiano i Tehreek-i Taliban. Il governo di Islamabad la vorrebbe inglobare azzerandone l’autonomia. Oltreconfine il clan Haqqani, forte di ministeri chiave nell’Emirato, rappresenta una garanzia per il fondamentalismo pakistano, non certo per l’attuale premier Sharif. Il quale, nello scorso aprile, appena insediato ha ordinato o avallato gli attacchi dei propri militari nella zona contestata. Il fuoco dall’alto era garantito da droni di fabbricazione cinese e come in altre occasioni i missili hanno falciato anche civili. A seguito di questi attacchi in Pakistan le condutture del Tapi, che da Herat e Kandahar dovrebbero proseguire per Quetta, non hanno visto avanzamento di lavori perché si temono attentati. E l’energia fa addirittura retromarcia: anziché gas giunge carbone afghano che non viene pagato in dollari bensì in meno appetibili rupie pakistane. Prendere o lasciare. I talebani non sono nella condizione di lasciare. L’unico flusso ininterrotto, su confini in certi casi blindati, è quello dell’eroina. Alla tradizionale porta iraniana s’è aggiunta e ampliata quella tajika che, a detta di chi studia le ‘vie della droga’, conduce con maggiore facilità al mercato russo. Ai proventi diretti dei trafficanti - per ora non ci sono prove che uomini di spicco dell’Emirato pratichino il commercio ma non c’è neppure certezza del contrario - s’aggiungono le ‘tasse di dogana’ che The Economist ha calcolato fra i 27 e i 35 milioni di dollari. Neppure tanto se il passaggio d’ogni genere di merce frutta annualmente dieci volte di più: 245 milioni di dollari.

sabato 20 agosto 2022

Pakistan, passerella di generali

Venti giorni di fuoco o poco più, per il primo ministro pakistano Shehbaz Sharif che deve designare il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito e l’organico dei collaboratori, nel Quartier Generale delle Forze Armate e nel Comitato congiunto delle stesse. Accanto ai 650.000 soldati di terra, si contano i 70.000 piloti e i 35.000 marinai, oltre ai 400.000 paramilitari divisi fra guardia nazionale, ranger, militi di frontiera e polizia di frontiera (quest’ultimi in numero di 110.000 davanti ai confini fra i più porosi del mondo geopolitico, se si pensa al via-vai talebano e jihadista nelle aree delle Fata e del Waziristan). Ora che anche i militari di Islamabad s’uniscono al fronte asiatico nella muscolare esercitazione Vostok-2022 la collocazione dei generali nei posti chiave del comando costituisce un busillis per la politica e nelle sfere di chi determina cosa nel Paese. Un Paese atomico per le centosessantacinque testate nucleari di cui è dotato e la crescita demografica esponenziale che oggi fa registrare 220 milioni di abitanti, ma già fra un anno la cifra crescerà com’è accaduto per decenni. La lobby delle stellette rappresenta, come e più di altre nazioni, un potere che in diversi casi ha influenzato la politica, quando non l’ha completamente sostituita. Due nomi su tutti: il generale-dittatore Zia ul-Haq, dominatore del decennio 1978-88 e il presidente in odore di dittatura Pervez Musharraf, in carica dal 2001 al 2008.  Quest’ultimo venne indicato come il mandante dell’attentato a Benazir Bhutto, un’esponente dell’altro volto che caratterizza la giovane nazione islamica: i clan familiari. Sull’influenza, i compromessi, la dura contrapposizione, che travalica le sigle di partito, dei due pilastri del sistema pakistano - generali e familismo politico - s’innescano i due incomodi: l’Intelligence e il fondamentalismo jihadista. Sistemi che s’intersecano e interagiscono contro nemici interni ed esterni. 

 

Perciò le nomine di queste settimane diventano importantissime, dopo il pensionamento del dominus, il generale Javed Bajwa, la cui ombra ha percorso il Paese ben oltre un mandato avviato nel 2016. Da Capo di Stato Maggiore dopo un triennio Bajwa avrebbe dovuto lasciare, invece il nuovo premier Khan gli prolungò il servizio di tre mesi, per poi rinnovarglielo per tre anni. Diversi analisti hanno avallato l’ipotesi della ricompensa per il lavoro occulto e palese con cui lui aveva isolato l’allora partito di governo, Lega Musulmana, favorendo il Movimento per la Giustizia di Khan trionfatore alle urne nel 2018. Insomma così potente è l’impatto di queste cariche? Pare proprio di sì. Ufficialmente la scelta sarà operata dal governo, ma scorrendo i curricula dei sei candidati alla direzione dello Stato Maggiore quasi sempre ricorre l’ombra del generale Bajwa, assai probabile suggeritore del suo successore. Il sestetto degli alti ufficiali papabili s’apre con Asim Munir, che del generalone è stato collaboratore. Nel suo passato anche un ruolo di vertice nei Servizi segreti, durato però misteriosamente pochissimo. In ottima posizione è Shamshad Mirza, che vanta una ragguardevole carriera.  Negli ultimi anni sua la direzione generale di operazioni d’importanza strategica accanto al generale Raheel Sharif, il grande persecutore dei Tehreek-i Taliban nel Warizistan settentrionale. Alle qualità guerresche Mirza aggiunge doti diplomatiche, mostrate in occasione dei colloqui inter-afghani che hanno accompagnato il ritiro delle truppe statunitensi. A quel tavolo partecipavano le delegazioni americana e cinese, maestre di trattative, e vista la disilvoltura di Mirza il ministro degli esteri pakistano Qureshi ne ha richiesto la presenza in successivi incontri con l’omologo cinese Wang Yi. 

 


Azhar Abbas ha curato con avvedutezza e fermezza i rapporti con la focosa India di Modi. La preparazione a certe difficoltà è passata attraverso la direzione del X Corpo, unità d’eccellenza di stanza a Rawalpindi, utilizzata nelle aree calde come il Kashmir.  Anche lui ha consolidato la carriera accanto al ferreo Raheel Sharif di cui era responsabile per la formazione del personale. Nauman Mehmood, dopo una profonda esperienza quale istruttore capo del Comando del College militare di Quetta, è stato cooptato come direttore generale nella sezione analisi dell’Inter-Services-Intelligence. La posizione gli ha offerto un’ampia gamma di esperienze e confronti coi Servizi stranieri. Chiudono il gruppo Faiz Hamid e Mohammad Amir. Hamid si pone prima fila nel possibile incarico di Capo di Stato Maggiore per una speciale vicinanza al generale Bajwa. Anche lui è passato per il citato X Corpo, l’ha fatto proprio sotto la guida di Bajwa di cui era ammiratore e fedelissimo collaboratore. Nella spedita carriera di Hamid è giunta poi la responsabilità per la sicurezza interna e gli affari politici dell’Isi. Ma proprio la posizione nell’Agenzia gli ha creato una controversia con l’ex premier Khan che, spingendo sugli alti comandi militari, trasferiva il generale al Corpo di Peshawar, nonostante lui non gradisse. Sebbene Hamid sia entrato in contrasto col maggior avversario politico dell’attuale leadership governativa, gli informati sostengono che ormai il ceto politico non si fida di lui. Anche Amir è cresciuto sotto l’ombra protettrice del generale Bajwa, di cui era confidente. Ha comandato la divisione di fanteria nella turbolenta Lahore, è stato pure segretario militare del presidente Zardari dal 2011 al 2013. Ma quella che sembra una medaglia non è detto che diventi un trampolino di lancio.  

giovedì 11 agosto 2022

Afghanistan, donne censurate dai taliban

Sono le donne d’affari, in realtà pochissime, e un tempo le più numerose impiegate nei ministeri, ambasciate, Ong locali e straniere, ad aver subìto l’ostracismo lavorativo del primo anno del secondo Emirato afghano. Che era partito con buone intenzioni e tante promesse proprio nei confronti delle donne, quelle autodeterminate economicamente con un lavoro di concetto, o professionale come le insegnanti dei vari livelli d’istruzione, dottoresse e infermiere finanche giornaliste. Invece gli annunci del portavoce Zabihullah Mujahid, famoso il suo: “le donne lavoreranno spalla a spalla con noi”,  mese dopo mese, si sono rivelati infondati. Sì, i rapporti diplomatici dopo il ritiro delle truppe statunitensi s’erano subito irrigiditi per il blocco dei fondi rimasti nelle banche americane; e i non amati turbanti, che rintuzzavano le proteste contro un loro ritorno, dovevano affrontare guai peggiori: crisi alimentare per due terzi della popolazione e  rilancio di attentati dell’Isis Khorasan che evidenziavano il pressappochismo della sicurezza interna. Ci si metteva anche l’emergenza terremoto nella provincia di Paktika, però sin dall’avvìo il governo talebano risultava spaccato fra orientamenti morbidi e rigidi. Non solo in politica estera, dove Baradar incontrava i potenti del mondo, mentre Haqqani apriva casa ad acerrimi nemici dell’Occidente come al-Zawahiri, ma pure fra i confini domestici. L’attacco di genere, sostenuto un po’ da tutti, assumeva i contorni del blocco dell’istruzione secondaria col pretestuoso alibi della mancanza di divise, della limitazione di movimento, dell’obbligo se non del burqa d’un chador che spingeva indietro la condizione femminile, pur limitata dal fondamentalismo che i vent’anni d’America a Kabul non avevano sradicato né dalle vie, né dalla Loya Jirga. Per le donne e le ragazze dei villaggi cambiava poco. Per le kabuliote, pur non inserite in alcun circuito lavorativo simile a quelli descritti, la differenza era evidente. La polizia religiosa non si comportava come ai tempi del mullah Omar, ma il ministero per la Promozione della virtù e prevenzione del vizio, lanciato già il mese seguente la presa del potere, lasciava presagire poco di buono per la condizione femminile. Così è stato. Ora statistiche da Kabul, riguardanti la minoranza di donne emancipate da particolari occupazioni, sottolineano che a perdere quei lavori sono soprattutto loro (16% in meno, e in alcuni casi 28%), rispetto agli uomini la cui riduzione occupazionale s’attesta al 6%. Sono state raccolte testimonianze di impiegate lasciate a casa, subdolamente ridotte all’inattività seppure non licenziate, tenute a stipendio minimo ma fuori dagli uffici. Oppure “lusingate” dalla possibilità di conservare il salario che serve alla famiglia, trasferendo il proprio ruolo a un uomo di casa. Passo egualmente viscido che degrada anni d’impegno e capacità di quelle donne. Le vendette incrociate, dunque, non seguono traiettorie che scavano in un passato “collaborazionista” coi governi collaborazionisti. Ma rivolgono gli strali alla società femminile, colpita e umiliata in quanto tale.


sabato 6 agosto 2022

Emirato afghano, la forza delle spie

 

Osservatori di questioni talebane ipotizzano che dopo l’eliminazione di Ayman al-Zawahiri - colpito dal drone americano in pieno centro di Kabul, mentre era onorato ospite in un rifugio dorato del clan Haqqani - il ministro Sirajuddin sia riparato in tutta fretta altrove. Probabilmente fuori dallo stesso territorio dell’Emirato, nelle familiari aree tribali delle Fata o nell’altrettanto favorevole Waziristan oppure accettando la protezione dell’Isi pakistano.  L’attentato, preparato peraltro da mesi, rovina l’anniversario della presa del potere un po’ a tutto il Gotha dei turbanti, ma ancor più ai membri della famiglia Haqqani. La ritirata del ministro dell’Interno, l’uscita con lui dello zio Khalil ministro anch’egli (dei rifugiati), e di altri parenti stretti rappresenta una doppia conferma: gli apparati della sicurezza interna sono ampiamente insicuri per gli stessi grandi capi; ai vertici del gruppo continuano divisioni e lotte. Che gli Accordi di Doha, sbandierati da Trump, Biden, mullah Baradar e Khalilzad siano stati una maschera per consentire agli statunitensi di uscire da un disonorevole conflitto lungo vent’anni, e ai taliban di sostituirsi ai politici collaborazionisti locali, è un dato acquisito. Su quanto accade da circa un anno sul territorio esiste un confronto-scontro con vendette postume: il blocco dei miliardi di dollari afghani imposto dall’attuale amministrazione della Casa Bianca con ricadute sulla crisi alimentare della popolazione; le promesse non mantenute dell’Emirato sull’istruzione e i diritti delle donne. I firmatari dell’accordo s’accusano reciprocamente per le mancanze di cui sono responsabili. Così, a seguito dell’uccisione di al-Zawahiri, Washington punta il dito: i talebani ospitavano uno dei maggiori terroristi del mondo disattendendo l’accordo, e di contro additano l’allarme per nuove operazioni di guerra della Cia sul proprio territorio, vietate dai patti qatarini. 

 

L’addio a Kabul, non solo per le truppe Nato, ma per quel personale protetto dai piani di evacuazione che trasferiva in luoghi sicuri soldati e poliziotti afghani fedeli ai vecchi regimi in quanto possibili obiettivi di ritorsione, non ha smobilitato il sistema ‘paramilitare’ occidentale in loco. Lo dimostra, appunto, l’evoluzione della caccia al capo qaedista, giunta a conclusione con l’agguato a suon di ‘lame rotanti’ sganciate dal drone vendicatore. Un aeromobile salito in quota dal Pakistan, o di lungo raggio da basi aree saudite, da portaerei nel Golfo, addirittura da un probabile decollo uzbeko. Non è dato sapere, resta il segreto dei Servizi. Invece palese è la presenza fra chi vive nella capitale afghana, ne percorre le polverose strade, gira per bazar e rivendite ambulanti di una oliata rete d’informatori che riescono a riversare, probabilmente con l’ausilio dell’informatica, notizie e spiate oltreconfine e oltre cortina. Da chi sia composta la rete amica di Washigton sarebbe facilmente ipotizzabile. Collaboratori degli statunitensi meno esposti e conosciuti di chi, temendo faide estreme, ha preferito espatriare. Oppositori dei taliban che non trovano altro modo per contrastare l’Emirato che aiutare gli occupanti d’un tempo, si può supporre venendone ripagati con molto denaro per l’alto rischio che il compito comporta. In fatto di mercimonio si possono prevedere tradimenti interni, ben conosciuti dagli stessi talebani, perché se ne sono avvantaggiati quanto reclutavano soldati dell’Afghan Security Forces stipendiandoli il doppio del governo Ghani. Del resto nel tuttora presente conflitto a distanza che li contrappone ai dissidenti riuniti sotto la sigla dell’Isis Khorasan, in molti casi la scelta dei miliziani non è ideologica né teologica, ma banalmente economica. Nel fiume di dollari che accompagna la militanza accanto alle disponibilità organizzative, gli Haqqani si sono sempre distinti per fiuto degli affari e capacità di attuarli. Oggi sembrano perdere terreno, se stanno rintanati all’estero per timore di finire affettati come l’amico Ayman.

martedì 2 agosto 2022

Eliminato Zawahiri, una giustizia maramalda

Ayman al-Zawahiri, il medico della Jihad qaedista, ha chiuso il suo percorso - combattente o terrorista - su un balcone, così dichiara l’agenzia Reuters, d’una zona neppure tanto appartata di Kabul. In quell’area, abitata anche da Signori della guerra e ora da talebani, ha sibilato il missile che l’ha disintegrato, per volere della Central Intelligence Agency.  Disintegrato in solitudine, s’è inizialmente detto: l’uomo era appunto affacciato all’esterno di un’abitazione. Poi è giunta una precisazione: c’è un’altra vittima. E che vittima! Il figlio di Serajuddin Haqqani, ministro dell’Interno dell’Emirato e uomo di punta dell’omonimo clan che influenza non poco l’attuale governo talebano. Se così fosse il clima di reciproche accuse seguite all’agguato: la Casa Bianca che esulta, dice giustizia è fatta (riferendosi all’attacco alle Torri Gemelle di cui Zawahiri sarebbe stato pianificatore) e incolpa i taliban di aver violato l’accordo di Doha ospitando un terrorista. Mentre i turbanti sostengono che gli Stati Uniti hanno violato la legittimità statale e l’accordo stesso che impediva future azioni di guerra o di “sicurezza” americane sul suolo afghano. Se la morte del rampollo Haqqani verrà confermata la famiglia cercherà vendetta, come del resto il regime di Kabul intende questa della Cia, giunta 21 anni dopo l’attentato addebitato al medico egiziano e a 11 anni dalla prima punizione inflitta a Qaeda con l’eliminazione del capo supremo Osama bin Laden.  Sapere da dove sia partito il drone che ha posto fine ai giorni di al-Zawahiri non è un fatto del tutto secondario. Precisa le dinamiche militari del Pentagono e dell’Intelligence statunitense dopo il grande ritiro del 15 agosto 2021. Dalla fine di quel mese Washington dichiara di non avere militari in Afghanistan, però non ha smantellato e abbandonato tutte le basi aeree create dal 2001. Il drone vendicatore sarebbe potuto partire da una di queste oppure dal confine pakistano, visto che già in occasione dell’incursione di Abbottabad quel Paese aveva ospitato, volente o nolente, il commando dei Navy Seal che agì indisturbato nel penetrare nell’edificio dov’era rintanato bin Laden.

 

Le unità speciali lo uccisero, ne trafugarono il cadavere e lo distrussero. L’Occidente applaudì, ma si trattava dell’ennesima operazione fuorilegge, cui nessun premier alleato oppose critiche. Solo l’ex cancelliere tedesco Schmidt parlò di “chiare violazioni delle leggi internazionali”, quelle in base alle quali i nemici degli Usa vengono appunto bollati di terrorismo e gli vien data la caccia. Ovviamente nel corso dell’operazione, tenuta segreta, il governo di Islamabad né i suoi Servizi furono messi al corrente delle intenzioni americane. Ma Washington potè godere di basi d’appoggio, luoghi che risultano sempre disponibili in virtù della consolidata alleanza politico-militare. Far volare da lì un drone verso Kabul risulta più semplice che da basi emiratine, saudite o del Bahrain. In attesa di ulteriori chiarimenti che non concernono solo la cronaca, è bene ricordare come Zawahiri rappresentasse ormai solo un simbolo, cui tenevano più Cia e Casa Bianca che i nuclei operativi di Qaeda. Gli analisti li dipingono piuttosto in disarmo nelle antiche aree, mentre resistono in Africa occidentale e orientale (Mali e Somalia) e in ristrette enclave siriane. Il dottore se non proprio un uomo morto era certamente consunto, lo riferivano più fonti pur non svelando la tipologia del male. Del resto l’attuale Qaeda ha nuovi leader, un nome noto, non giovane è Saif al-Adel, cinquantanovenne ex colonnello egiziano, che nel curriculum vanta ampia esperienza proprio nel settore degli esplosivi. Altro orizzonte rispetto al riservato e colto Zawahiri, proveniente da un ambiente agiato e intellettuale del Cairo, con magistrati e letterati in famiglia. Lui stesso che aveva scelto la via della ‘guerra santa’, portando l’iniziale contributo medico ai mujaheddin afghani che resistevano all’Armata Rossa, scriveva versi. Teorico e organizzatore Zawahiri riuscì a far crescere Qaeda con varie filiali, nel suo Paese, già all’epoca dell’attentato a Sadat, quindi nella Penisola araba, in India, e lì dove in questa fase i ranghi ridotti della struttura militare cercano giovani combattenti: tutta la fascia sub-sahariana.