Sono
le donne d’affari, in realtà pochissime, e un tempo le più
numerose impiegate nei ministeri, ambasciate, Ong locali e straniere, ad aver
subìto l’ostracismo lavorativo del primo anno del secondo Emirato afghano. Che
era partito con buone intenzioni e tante promesse proprio nei confronti delle
donne, quelle autodeterminate economicamente con un lavoro di concetto, o
professionale come le insegnanti dei vari livelli d’istruzione, dottoresse e
infermiere finanche giornaliste. Invece gli annunci del portavoce Zabihullah
Mujahid, famoso il suo: “le donne
lavoreranno spalla a spalla con noi”, mese dopo mese, si sono rivelati infondati.
Sì, i rapporti diplomatici dopo il ritiro delle truppe statunitensi s’erano
subito irrigiditi per il blocco dei fondi rimasti nelle banche americane; e i
non amati turbanti, che rintuzzavano le proteste contro un loro ritorno,
dovevano affrontare guai peggiori: crisi alimentare per due terzi della
popolazione e rilancio di attentati dell’Isis
Khorasan che evidenziavano il pressappochismo della sicurezza interna. Ci si
metteva anche l’emergenza terremoto nella provincia di Paktika, però sin
dall’avvìo il governo talebano risultava spaccato fra orientamenti morbidi e
rigidi. Non solo in politica estera, dove Baradar incontrava i potenti del
mondo, mentre Haqqani apriva casa ad acerrimi nemici dell’Occidente come
al-Zawahiri, ma pure fra i confini domestici. L’attacco di genere, sostenuto un
po’ da tutti, assumeva i contorni del blocco dell’istruzione secondaria col
pretestuoso alibi della mancanza di divise, della limitazione di movimento,
dell’obbligo se non del burqa d’un chador che spingeva indietro la condizione
femminile, pur limitata dal fondamentalismo che i vent’anni d’America a Kabul
non avevano sradicato né dalle vie, né dalla Loya Jirga. Per le donne e le
ragazze dei villaggi cambiava poco. Per le kabuliote, pur non inserite in alcun
circuito lavorativo simile a quelli descritti, la differenza era evidente. La
polizia religiosa non si comportava come ai tempi del mullah Omar, ma il ministero
per la Promozione della virtù e prevenzione del vizio, lanciato già il mese
seguente la presa del potere, lasciava presagire poco di buono per la
condizione femminile. Così è stato. Ora statistiche da Kabul, riguardanti la
minoranza di donne emancipate da particolari occupazioni, sottolineano che a
perdere quei lavori sono soprattutto loro (16% in meno, e in alcuni casi 28%),
rispetto agli uomini la cui riduzione occupazionale s’attesta al 6%. Sono state
raccolte testimonianze di impiegate lasciate a casa, subdolamente ridotte
all’inattività seppure non licenziate, tenute a stipendio minimo ma fuori dagli
uffici. Oppure “lusingate” dalla possibilità di conservare il salario che serve
alla famiglia, trasferendo il proprio ruolo a un uomo di casa. Passo egualmente
viscido che degrada anni d’impegno e capacità di quelle donne. Le vendette
incrociate, dunque, non seguono traiettorie che scavano in un passato
“collaborazionista” coi governi collaborazionisti. Ma rivolgono gli strali alla
società femminile, colpita e umiliata in quanto tale.
Nessun commento:
Posta un commento