Coi suoi discorsi d’odio, tali li definisce l’accusa delle forze di polizia, l’ex premier pakistano Imran Khan rischia la galera per terrorismo. Le leggi in vigore non lasciano scampo a chi accusa organi ufficiali del Paese, e Khan coi rally itineranti, lanciati dal momento della sua rimozione causata dalla sfiducia degli alleati di governo al suo Movimento per la Giustizia (PTI), è in guerra aperta con tutti i partiti e le Istituzioni. Non solo, dunque, la Lega Musulmana N che ha riacciuffato il potere col clan Sharif (l’attuale primo ministro Shehbaz è il fratello del condannato per corruzione Nawaz), ma gli stessi organi della forza che rappresentano una lobby intoccabile e temuta dalla stessa politica. Cosa peraltro nota al fuoriclasse di cricket, salito ai vertici dello Stato nel 2018 grazie a un sostegno non secondario offerto dai generali, che entro settembre vanno a rinnovare le loro cariche. La denuncia di Khan è tranciante: un suo collaboratore è stato torturato dopo l’arresto, di tale nefandezza devono rispondere ufficiali di polizia e una giudice. Quindi, accanto alla “cospirazione straniera” che avrebbe manovrato i politici suoi ex alleati, Khan denuncia questa persecuzione contro il partito da lui fondato che aveva rotto gli schemi di controllo del Paese. Per ora il leader del Pakistan Tehreek-i Insaf non è stato arrestato, ha pagato una cauzione ma a fine settimana dovrà comparire davanti a una Corte che, applicando le norme in vigore, può condannarlo ad alcuni anni di reclusione. La questione è delicata: magistratura e polizia tengono alle proprie autonomia e reputazione e un passaggio indolore alle accuse di Khan ne svilirebbe immagine e ruolo.
D’altro canto il campione prima di diventare premier era lodato per le gesta sportive e gode di un’amplissima popolarità. L’ascesa al vertice della nazione sull’onda di un innegabile populismo era anche un segnale al paludato modello dei clan familiari che da settant’anni decidono la vita socio-politica nazionale. Per questo i militari hanno puntato su Khan. Però non potevano tollerare certe alzate di testa con cui, ad esempio, aveva attaccato un intoccabile come l’Ex Capo di Stato Maggiore Bajwa. Insomma sulle piazze e nei tribunali va in scena un braccio di ferro fra poteri forti (i militari lo sono, il populismo di Khan è da verificare) che potrebbe avere conseguenze sanguinose. Già un suo ex ministro ha dichiarato che l’arresto del capo provocherebbe sommesse contro il governo perché i sostenitori del PTI sono rabbiosi da mesi. Osservatori interni dichiarano che l’attuale esecutivo respingerà decisamente ogni pressione. Nonostante l’aspro conflitto fra le parti, quel che sembra mancare è una presa su ampi strati della popolazione. Il quadriennio gestito da Khan è parso deficitario soprattutto sul terreno economico, a dirla tutta è lì che le promesse di cambiamento di rotta rispetto al passato hanno perso colpi. Le velleità di crescita del Pil nazionale, oltre a essere state rallentate dalla crisi scaturita dalla pandemia, hanno visto tradite le aspettative dei ceti medio-bassi. Cosicché il Movimento per la Giustizia può contare sulla fede dei vecchi sostenitori più che sulla convinzione di nuove leve, visto che tutti fanno quotidianamente i conti con l’inflazione. Eppure quel che finora è passato sulle reti social o nei comizi di piazza potrebbe lasciare il posto a una violenza cieca. Non quella dell’islamismo settario che propone una soggettiva Shari’a (i tristemente noti gruppi deobandi Lashkar-e Jhangvi, Ahle Sunnat Wal Jamaat), ma la sovversione anti istituzionale di parte egualmente bollata come terrorista.
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