mercoledì 28 maggio 2014

Obama: via dall’Afghanistan, ma nel 2016




L’annuncio di posticipare il ritiro giunge bucolico nel ‘giardino delle rose’ della Casa Bianca da dove il presidente Obama riferisce che il rientro dei 32.000 militari statunitensi tuttora in Afghanistan sarà proiettato per l’anno in corso, il prossimo e terminerà a fine 2016. Ma non sarà totale, sul territorio resteranno circa diecimila militari concentrati, come si sa da tempo, nelle basi aeree per la guerra coi droni già in corso da almeno un biennio. Un graduale  e certamente non totale distacco, poiché quel territorio continua a rappresentare un’area d’interesse strategico, militare ed economico (con le risorse del sottosuolo) che attira le attenzioni e concentra le tensioni di vari Paesi e di colossi che guardano avidamente l’intera regione. L’impero Usa è ovviamente in prima fila. Non si scatena un’occupazione pluridecennale, mascherandola per liberazione, per poi mollarla. Sebbene alcuni graduati che contano, e vogliono mantenere l’anonimato, hanno dichiarato al NYT che nessuna componente politica e militare statunitense ha sottoscritto un ruolo di gendarme afghano ad libitum, c’è il compatto fronte repubblicano che lancia l’allarme di non mollare e non ripetere l’errore iracheno della ritirata frettolosa e inopportuna.

Nell’affermazione in perfetto stile bushano di Obama: “Gli americani hanno imparato come sia più doloroso abbandonare una guerra che iniziarla” appare una lampante verità riguardante il business della propria industria bellica che ha rafforzato se stessa e la nazione puntando sui conflitti, direttamente vissuti o indirettamente sostenuti. Ciò nonostante nella riduzione delle truppe (giunte sino a 101.000 unità agli inizi del 2011, cui dati non riscontrabili perché segreti aggiungono anche svariate migliaia di contractors e agenti della Cia) pesano l’impasse militare contro l’insorgenza e anche i costi vivi. Nel 2010, l’anno terribile della missione Isaf per numero di morti e attacchi subìti con ordigni improvvisati, l’Us Army e le forze Nato ebbero drammatici riscontri tattici perdendo in agguati, azioni e attacchi diretti contro talebani e insorgenti ben 711 soldati (497 statunitensi). Un americano che veste la divisa ed è in missione in terra afghana costa alle casse confederali 15.000 dollari al mese; un afghano che lo sostituisce, pur se con minore efficienza e coerenza repressiva, ne costa solo 500.

Esistono, altresì, prospettive politiche di varie componenti, l’Intelligence è una non certo secondaria. Sebbene generali come Dunford, oggi responsabile dell’Us Army in Afghanistan, dichiari che sarebbe felice di restare per missioni di antiterrorismo contro l’onnipresente (a suo dire) Al Qaeda, la Cia ha smobilitato alcune milizie che aveva organizzato nell’area di Kandahar e nel sud del Paese in funzione antiqaedista. Osservatori militari sostengono che i panorami siriano e nigeriano hanno acquisito una focalizzazione maggiore da parte dell’Intelligence statunitense per tale funzione. Gli addestramenti anti Qaeda realizzati dalla Cia in Giordania si stanno spostando sul fronte siriano, lì le azioni non si simulano e diventano realmente operative. L’amministrazione Obama non è entrata in dettagli, ma ha promesso un corposo impegno antiterrorismo versione Cia e Intelligence sorelle in Iraq, Giordania, Turchia e appunto Siria. Perché il fuoco tuttora acceso nell’area consiglia l’allerta agli uomini di Washington che puntano sul coinvolgimento reiterato e massiccio degli alleati nelle missioni di polizia internazionale, dove gli Usa godono del privilegio del comando strategico generale.

Sul piatto della bilancia dei tempi allungati c’è pure il rimescolamento delle carte attorno Bilateral Security Agreement, prima accettato poi non firmato da Karzai, che comunque entrambi i contendenti al ballottaggio presidenziale afghano di giugno sostengono di approvare. Una nota al veleno di certa libera stampa americana fa notare come i Democratici stiano pianificando a proprio vantaggio il ritiro delle truppe con un’ultima partenza prevista un mese prima della conclusione della gestione Obama (gennaio 2017), così da poter far pesare politicamente sull’elettorato il mantenimento di questa promessa. La politica internazionale ha sempre ricaschi nel giardino di casa dove fioriscono rose e spinose falsità. 

Egitto, presidenziali elastiche: un giorno di voto in più



Non bastano due giorni per decretare il trionfo di Al-Sisi, così la Commissione Elettorale ne introduce un terzo. D’autorità. Oggi l’Egitto vede ancora seggi aperti nella speranza che altri elettori si rechino alle urne alzando il quorum che è diventato l’unico avversario del generale che sognava Sadat e s’illude di rincarnare Nasser. L’imitazione passa più che per grandi azioni - pur militaresche come il putsch che abbatté la monarchia di Farouk - per un altro genere di blitz, condotto contro un Capo di Stato legittimamente eletto qual era Mursi. Il presidente proveniente dai ranghi della Fratellanza Musulmana è il fantasma che s’aggira sul palcoscenico di queste elezioni che assumono toni da Oriente estremo, più vicine alle forzature e ai brogli afghani che alla presunta democrazia foriera di stabilità promessa dall’ex militare. A denunciarlo è la componente che s’è prestata a quest’imitazione del pluralismo, offrendo col candidato Sabbahi l’alibi del confronto aperto. Ben altro aspetto avrebbe assunto la consultazione se su palco della recita si fosse presentato come unico pretendente il pur lodato Sisi. Solo con se stesso, ma privato di un confronto vero, proprio come Mubarak aveva per lungo tempo abituato i suoi concittadini-sudditi.

Eppure la fobìa di non essere quel numero schiacciante con cui democratizzare il sanguinoso golpe d’un anno fa che introduce la terza giornata elettorale  crea dissapori nel Comitato di sostegno di Sabbahi che si dichiara stupito della decisione e lamenta stranezze, già accadute ieri e che col divieto odierno di accesso ai seggi per mandato scaduto (sic) fa temere irregolarità o aperti brogli. Un’ottima via per alimentare sospetti e polemiche, non c’è che dire. Ma la Commissione Elettorale è stata perentoria sostenendo che l’ampliamento dei giorni “seguiva il volere del popolo” che è decisamente al di sopra di quello dei candidati. E di fatto anche delle regole precedentemente scritte. Evidentemente l’ossessione dei numeri deve aver preso per il bavero la dirigenza della Commissione che s’è prodotta in un’inusuale prolungamento. Solo a cose fatte anche lo staff di Sisi ha avanzato delle proteste, sospette secondo chi l’addita d’essere il motore dell’iniziativa, visto che il candidato vincitore con un quorum di votanti più alto ne guadagnerà in autorevolezza. Ai sabbahisti è parsa pura formalità. La stampa locale racconta anche lo stupore fuori dai seggi di chi aveva già votato, nessuno s’aspettava il prolungamento dell’ultim’ora. 

martedì 27 maggio 2014

Malalai Joya: Elezioni farsa a copertura degli affari statunitensi


I rivoluzionari afghani osservano la parata elettorale. Loro sono fuori dalla corsa fin dalla presentazione dei candidati, un po’ per scelta e soprattutto per emarginazione: ricevono l’ostilità e le minacce di signori della guerra presenti nelle istituzioni; sono tenuti fuori gioco dal grande sponsor di queste elezioni - la politica statunitense - che essi accusano di sfruttamento e abuso d’una nazione sovrana; vengono ostacolati dalla burocrazia del presidente uscente che non hanno mai esitato a definire fantoccio. Seppure minoritari questi uomini e queste donne sono inseriti in molti gangli del territorio e un’attivista di lungo corso come Malalai Joya può togliersi più d’un sassolino dalla scarpa parlando delle presidenziali. Chi dopo l’espulsione dalla Loya Jirga la voleva morta, e ha attentato alla sua esistenza, ne ha solo accresciuto impegno e determinazione. Malalai nel pieno della maturità di politica e di donna prosegue il percorso di lotta e denuncia e non si fa sfuggire l’occasione per dire la sua sul quadro offerto dalla sfida presidenziale. Un pensiero fatto circolare sul web con parole e immagini registrate perché nessuna delle pur numerose emittenti afghane è disposta a rischiare ritorsioni per ospitarla. Non c’è piazza o sala dove la sua vita sia sicura, dopo la scoperta due anni or sono d’un piano per ucciderla durante un intervento pubblico in un edificio pur controllato dalle proprie guardie del corpo.

Joya è al solito esplicita e determinata, sostiene che in questi mesi i media afghani sostenuti dagli Usa cercano di manipolare gli elettori illudendoli sul passaggio alla democrazia attraverso le presidenziali “Si tratta d’una commedia che si ripete. In un Paese sotto occupazione, guidato da anni da un presidente fantoccio, le elezioni non possono essere libere, i candidati rispondono a interessi personali e ingannano i cittadini con false promesse. La popolazione ha avuto di fronte una lista di nomi, non dei progetti, tutti i candidati sono infami e non lasciano uno straccio di speranza. Gli statunitensi, sostenitori di questa farsa, hanno incontrato i pretendenti alla presidenza nella loro ambasciata di Kabul, a porte chiuse, e influenzeranno il risultato. Ci ricordiamo del 2009 quando nonostante 1.5 milioni di voti truccati Karzai venne dichiarato vincitore. E lui anziché far luce proseguì sulla via dell’intrigo nominando un boss della corruzione come Dawood Najafizada ministro dei trasporti e Azizullah Ludin capo degli uffici anticorruzione dei ministeri. L’attuale Commissione elettorale ha ammesso che 3000 suoi dipendenti sono coinvolti in frodi, però continuano a lavorare lì”.

Malalai ricorda l’avvicinamento a Ramazan Bashardost, sempre nel 2009, quando questi presentò la candidatura alla presidenza del Paese “Avemmo un confronto franco, gli espressi le mie simpatie, ma immaginavo che gli Usa non avrebbero mai permesso a una figura patriottica e mossa da vero senso di libertà di prevalere. Bashardost non mi ascoltò, diceva che se anche Obama piangeva e strillava, lui avrebbe potuto ottenere voti dalla popolazione. Si dovette ricredere, tantoché ora è passato a boicottare le consultazioni. Il suo slogan odierno: - Tu voti, Obama decide – riflette una triste verità della nostra condizione”. Joya propone valutazioni trancianti bollando le elezioni come l’altra faccia della forza armata statunitense. Di fatto alimentano un sistema che offre legittimità a governi che opprimono e praticano corruzione, arricchimento per pochi e mantengono una povertà diffusa, un vero insulto al concetto di democrazia. Secondo lei basta guardare le facce, i curricula dei candidati e dei loro sostenitori: Adbullah, Sayyaf, Helal, Mohaqqiq, Khan, Dostum, Danish sono i vecchi signori della guerra che continuano a decidere le sorti della nazione, facendo compromessi con l’Occidente pur di sopravvivere. Gli Stati Uniti hanno la gravissima responsabilità di continuare a offrire copertura e patente democratica a costoro. Infine un messaggio: “Le sofferenze del nostro popolo avranno fine solo se esso sarà unito e lotterà contro gli occupanti stranieri e i traditori nazionali per l’indipendenza, la libertà e la giustizia sociale afghane”.

domenica 25 maggio 2014

Egitto, l’icona Sisi nel cuore del potere


Le icone s’incorniciano, nei cuori prima che sui muri. E Abdel Fattah Sisi, il generale che sacrifica la divisa per amore del suo popolo, ha da mesi afferrato l’anima degli egiziani che oggi e domani lo eleggeranno. Non tutti, ovviamente, la nazione che vota. La sua faccia seria e all’apparenza bonaria campeggia sulle pareti, nei negozi, su magliette e gadget ben prima che iniziasse la soluzione finale verso gli avversari della Brotherhood. Sisi è venerato come salvatore d’un Paese ch’era finito nelle mani della Fratellanza Musulmana. E i massacri dell’estate scorsa - milletrecento forse duemila fra uomini, donne, giovani assassinati da esercito e polizia - è come se non fossero mai avvenuti. Non se ne parla e non se ne deve parlare in casa e fuori. Chi lo fa è considerato traditore o terrorista, un impostore che vuole destabilizzare la vita egiziana. Così da mesi magistratura e polizia tengono rinchiusi, e processano, decine di giornalisti, alcuni accusati d’essere spie al soldo di nemici esterni. Nel caso del manipolo dei cronisti di Al Jazeera, agenti dell’emiro qatarino Al Thani in combutta con altri esponenti dell’Islam politico. Repressione su repressione, dopo gli arresti di decine di migliaia di attivisti sono arrivate le condanne a morte di massa (oltre seicento). E si vuol far credere che tutto sia normale.

Si giunge alla formalità dell’elezione con divieti alla libertà d’espressione, leggi liberticide, galera in cui torture nuove s’aggiungono alle vecchie con una continuità che distribuisce una presunta sicurezza riseminando il germe della paura, quella paura che Tahrir voleva rimuovere e rimpiazzare con la dignità. La prima purtroppo riappare, mentre l’orgoglio torna clandestino. Scegliere fra due candidati come oggi fanno gli egiziani nell’urna (seppure c’è chi diserta come nell’era Mubarak) è solo un camuffamento di democrazia cui si presta unicamente la risibile autoreferenzialità di Sabbahi. Eppure Sisi parla d’un suo mandato a tempo, le cronache e la cronologia gli daranno conferma o smentita. Se manterrà la parola lo farà perché la sua missione di riportare il Paese agli equilibri favorevoli ai capitali occidentali, cui contribuiscono  sempreverdi feloul, sarà definitivamente compiuta. Se invece continuerà ad libitum potrà sempre dire: è il popolo che mi vuole. In effetti ora è così:  una massa adulante agogna l’uomo forte, l’ennesimo raìs per la più popolosa nazione araba che aveva perduto il senno e che lui punta a ricondurre all’ordine e alla stabilità.

In una campagna elettorale giocata, probabilmente per motivi d’incolumità, al totale riparo degli studi televisivi con interviste dirette o registrate ma senza contraddittorio, Sisi ha fatto diffondere maggiori notizie sul suo passato. Quello trascorso in divisa (vestita secondo alcuni a vent’anni, secondo altri ancor prima) e quello infantile e adolescenziale. Figlio d’una borghesia minuta, prima artigianale poi mercantile, presente nello storico bazar di Khan El Khalili dove il padre gestiva una rivendita ingrandita nel tempo. Un genitore austero e severo mister Sisi che è stato molto presente nella formazione e ha fatto di tutto per sostenere la carriera del figliolo, fino all’ingresso nelle Forze Armate. Nella struttura militare Abdel s’è dedicato alla scalata ai vertici, lavorando con impegno allo scopo. Attualmente la propaganda che ne esalta l’immagine lo presenta come un predestinato: Sadat gli sarebbe apparso in sogno predicendogli il massimo incarico. Vera o creata ad arte la rivelazione serve a mitizzarne la figura, come quando gli viene riconosciuta una forza offerta con fermezza e sentimento. E mentre gli adulatori hanno scritto che “amoreggia col popolo”, il gossip locale rivela che molte donne impazziscono per lui, ma i morigerati costumi del suo laicismo conservatore non lo fanno cadere in tentazione.

Si dice che abbia sempre proibito alle donne di famiglia (madre, cugina divenuta moglie, figlia) di lavorare fuori casa, un tocco talebano che non si coniuga con le personali persecuzioni dell’Islam politico anche moderato. Come uomo dell’Intelligence, carica ricoperta sotto Mubarak, s’è dimostrato un perfetto tempista nel prevedere la rivolta contro il presidente, nel suggerire ai generali dello Scaf di non riabilitare il raìs deposto, nell’accettare senza batter ciglio l’apertura di Mursi che gli proponeva il dicastero della Difesa. Però da martedì, dopo l’elezione, l’attende la sfida più dura da combattere su un terreno che non è solo quello a lui congeniale di sicurezza e antiterrorismo. L’aspetta un’economia traballate e in bancarotta da ben più d’un triennio, che ha bruciato in un anno quasi tutti i prestiti provenienti dalle petromonarchie del Golfo (dai 12 ai 18 miliardi di dollari). E il rilancio di un’attività produttiva che i Paperoni occidentali non vogliono finanziare affatto, la lotta contro le generalizzate consuetudini assistenzialiste su carburante e certi prodotti primari che costano allo Stato cifre esorbitanti. E ancora: il caos assoluto del commercio minuto (un vero contrappasso familiare) rissoso, resistente a qualsivoglia normativa ed evasore fiscale incallito. Per tacere d’inquinamento, servizi pubblici come sanità, trasporti, istruzione totalmente in ginocchio. Nel piano di rilancio della produttività agricola Sisi propone d’irrigare tratti di deserto. La stessa idea di Sadat nei primi anni Settanta, forse anch’essa incrociata nel sogno rivelatore. 

sabato 24 maggio 2014

Voto afghano: forza e debolezza dei sempiterni warlords


Ritardato, dopo l’attacco talebano del marzo scorso ad alcuni strumenti di calcolo della Commissione elettorale ora sostituiti, il ballottaggio delle presidenziali afghane slitta dal 28 maggio al 14 giugno. L’attenzione è tutta concentrata sulla rete delle alleanze, palesi e occulte, attuate dai candidati Abdullah (45% al primo turno) e Ghani (32%). All’interno delle quali la presenza di noti signori della guerra può produrre agli sfidanti fortune e disgrazie. A spostare ulteriormente il peso del voto verso Abdullah è il terzo incomodo del primo turno, quel Rassoul che porta come patrimonio un 11% di elettorato capace di determinare l’esito finale. Rassoul aveva ricevuto l’appoggio del presidente uscente che gli aveva sacrificato, facendolo ritirare, l’ennesimo fratello lanciato in politica (Qayyum). Ora sostiene il dottor Abdullah, che si fa forte di due potenti warlords come Sherzai e Hekmatyar. Sherzai, che era fra gli undici candidati al nastro di partenza, ha riconvertito l’uso del kalashnikov verso questioni finanziarie prima che di politica tribale. Le sue aree d’influenza sono Khandahar e Nangarhar e si vanta d’essere un pashtun. E’ ben visto dall’amministrazione Obama, e con 10 milioni di dollari è stato un finanziatore estero della campagna dell’attuale inquilino della Casa Bianca.

A fianco di Abdullah c’è l’Hezb-i Islami di Hekmatyar, come ha potuto constatare l’attivista di Hambastagi Selay Ghaffar che la scorsa settimana ne ha affrontato due ceffi in una tavola rotonda trasmessa da una tivù locale. Anche l’altro fondamentalista Sayyaf, dell’organizzazione islamica afghana - 7% di preferenze - ha orientato l’appoggio su Abdullah, che magari lo ripagherà sostenendo uno dei cavalli di battaglia dell’ormai anziano mujaheddin: l’amnistia verso questi combattenti, trasformatisi da resistenti anti occupazione sovietica a oppressori e assassini della propria  popolazione. L’estesa e composita alleanza dovrà impegnare il beneficiario Abdullah in un’articolata diplomazia delle concessioni, ma le tattiche per ora sembrano dargli ragione. Più coesa doveva essere la componente tajika e uzbeka che parteggia per Ghani attraverso il suo guerriero-sponsor Rashid Dostum, colui che più d’ogni altro conserva un’efficiente macchina paramilitare camuffata da struttura di partito. In effetti Jombesh-i Melli ye Islami nasce come gruppo di fuoco a difesa, inizialmente delle istallazioni di gas nell’area Jawzjan, quindi dello stesso partito impegnato, come altri, nella violentissima guerra civile che fra il 1992 e il ’96 sparse il sangue di 100.000 afghani, donne e bambini compresi.

Invece una fresca indagine sul voto, realizzata da un network di ricerca nelle zone tajike e uzbeke per eccellenza, vede cospicue crepe nell’assenso di quelle genti all’uomo che le controlla da un ventennio, e coi defunti Massoud e Rabbani costituì il mito dei mujaheddin afghani. Da quel che il voto mostra il rude e crudele Dostum non ammalia e intimorisce più i suoi che gli voltano le spalle in province come Samangan, Balkh, Konduz e nell’alluvionata Badakhshan, dove Abdullah raccoglie più preferenze di Ghani. Se tutte le località ad alta concentrazione tajika e uzbeka avessero fatto come Takhar, Abdullah (lì al 50.3%) sarebbe stato eletto presidente al primo turno. Ciò è accaduto anche per gli ampi dissapori, trasformati in conflitto interno, fra la componente militarista del Jombesh, strettamente fedele al suo signore della guerra, e un’ala giovanile riformista che, chiedendo il ricambio d’una leadership intermedia va contestando anche la  cariatidea presenza di Dostum. Questi per alcuni anni era riparato nell’area turkmena - si disse anche in Turchia - e controllava dall’estero le vicende del partito. Volendo contrastare il Palazzo, con cui i rapporti s’erano incrinati, sostenne il lancio d’un Fronte nazionale col fratello di Massoud e Mohaqqiq, un patto non durato a lungo e contrastato dentro Jombesh sempre dai riformisti.

Due di loro: Jamaher Anwari e Wahidullah Shahrani, entrambi con esperienza politica istituzionale, sono impegnati nella trasformazione del gruppo dirigente perorando la causa di nuove leve formate culturalmente e amministrativamente in Turchia. Costoro dovrebbero trovare spazio al posto di vecchi scagnozzi del capo militare. Il mancato accordo proietta un pericolo già visto fra le fila del partito: la scissione, come quella operata dal manipolo denominato ‘Riforma e partecipazione’. Saranno stati anche quest’ultimi a convincere famiglie uzbeke a dirottare altrove il voto, visto che dichiarano che la comunità ha il diritto di scegliere liberamente il candidato, fuori da schemi e tradizionali steccati. Ghani non entra nella diatriba interna al partito che non gli appartiene, continua a fidarsi del generale che risulta uno dei cinque più potenti e carismatici uomini pubblici della nazione. Eppure il tetragono di cento battaglie in questo frangente appare vulnerabile e rischia di risultare da freno più che da volàno per il suo candidato-presidente. Sulle insoddisfacenti percentuali uzbeke e tajike pesa il sospetto di vicende denunciate dallo stesso Ghani: una presenza nei seggi di scrutatori non locali e l’ostracismo verso i suoi osservatori delle urne. Ma chi sa scuote la testa: il vero male che mina il controllo del voto più che gli intrallazzi di parte sono i contrasti intestini sopra accennati.