Della duplice frana che ha seppellito vari
villaggi del distretto di Argo in Badakhshan (provincia afghana di 900.000
abitanti, incastrata fra il Tajikistan a nord e il Pakistan a sud-est e confinante
anche con un lembo di Cina) cominciano a interessarsi alcune Ong internazionali
che inviano soccorsi, e addirittura il governo di Kabul. Questo col presidente
uscente Karzai promette aiuti alla popolazione, ma dopo dodici giorni dal
disastro ben poco si muove. Accanto al solidale manipolo del Partito
Hambastagi, di cui abbiamo dato notizia, sono le strutture di volontariato
internazionale ad attuare i primi interventi. Da un network che monitora il
Paese apprendiamo che l’area interessata è a nove ore di auto dal capoluogo Fayzabad e, catastrofi a parte, sta
subendo un rapido spopolamento: dati raccolti nel 2007 contavano 100.000
abitanti (90% uzbeki, 10% tajiki) ridottisi l’anno scorso a 76.000. Il trasferimento
è in buona parte locale, verso Argo e centri meno impervi, dove l’attività
agricola può essere realizzata con minori difficoltà. Negli anni Novanta la
produzione era incentrata sul papavero da oppio, e il partito Hezb-e Islami ne
faceva una sua diretta area di controllo.
Chi sta portando i primi aiuti si trova
nell’impossibilità di percorrere strade sterrate il cui tracciato è stato
cancellato dalle piogge torrenziali del mese d’aprile che hanno afflitto anche
altre province del nord afghano (Badghis, Faryab). Per quelle zone Croce Rossa e Save the Children parlano di 160 vittime, mille case distrutte,
16.000 profughi. Nel Badakhshan i morti accertati sono 300 ma potrebbero salire
a 2.500. I geologi definiscono quei siti ad altissimo rischio, posizionati come
sono su una terra scarsamente compatta, frutto di sovrapposizione sedimentata
di polvere trasportata dai venti dell’Asia centrale, arida e priva di
vegetazione. Così la morte giunge non tanto per crolli di capanne costruite col
fango, bensì per trascinamento delle medesime dagli smottamenti e dal liquefarsi
di colline di terra incapaci d’assorbire l’acqua piovana. Ovviamente fra le
cause di simili disastri è preso in considerazione il riscaldamento climatico,
che sta concentrando nel periodo primaverile un quantitativo straordinario di
precipitazioni in altre epoche decisamente più contenute. In soli cinquant’anni
gli studi hanno registrato un aumento percentuale di 4 cm di piogge.
Motivi di natura geologica anche per i ghiacciai
del Pamir che alimentano una rete fluviale che sovrasta la regione afghana, ma
lo stesso Tajikistan, e per altri aspetti il Pakistan, sono soggetti alle
variabili metereologiche responsabili di gravi problemi esistenziali. Comunque
un radicato risvolto del controllo del territorio e delle condizioni di vita
della gente dipendono dall’assenza d’investimenti e dalla povertà. L’agricoltura
alternativa al prolifico papavero da oppio viene finanziata esclusivamente
dalla Banca Mondiale con tutto il ritorno politico del caso. Incentivi di mezzi
come quelli per l’irrigazione non arrivano ai contadini che s’arrangiano come
possono. Se la percentuale di povertà nel Paese s’aggira sul 50% in quelle
lande sale al 63%, dal dollaro al giorno pro capite di Kabul si scende allo
0.40 $ e le stime sulla malnutrizione e la mortalità infantile salgono alle
stelle. Buona parte dell’economia dell’assistenza negli anni dell’occupazione
Isaf è stata ed è gestita dalle nazioni che partecipano alla missione, nella
fascia settentrionale si tratta delle truppe tedesche. Deleteria è poi
l’assenza di controllo dello Stato centrale sui territori. In effetti un
controllo esiste, quello dei signori della guerra diventati businessmen e
massicci edificatori in aree demaniali.
Sono loro i creatori di due nuovi volti della
capitale. Nella zona est di Kabul hanno creato i famosi quartieri per la middle
class dei giovani che vengono cooptati dalla politica (Abdullah e Ghani ne
hanno sicuramente). Le due Shahrak - Tala’i e Aria - sono centri residenziali
dove abitano i nuovi ricchi della “democratizzazione” del Paese, in appartamenti
anche da 200.000 dollari, prezzi pazzeschi anche per un afghano che lavora come
dipendente pubblico, guadagnando fra i 30 e 40 euro mensili. Di fatto una
speculazione perché i signori del mattone se non razziano direttamente quei
terreni, li ottengono a prezzi stracciati. L’esempio l’ha dato l’ex
vicepresidente Khalili, leader del partito Wahdat, acquistandoli a 6 dollari al
metro quadro e rivendendoli a 1.000. L’altro lucro criminoso è l’edificazione
selvaggia come quella realizzata nelle aree ovest di Kabul (Siabangi e Safa)
sui terreni golenali, e in alcuni casi nel letto stesso del fiume quand’è in
secca. Costruzioni travolte dalle piogge alluvionali di primavera. L’abbandono
della stessa capitale nei servizi primari, come i canali di scolo, che hanno
aggravato le inondazioni delle scorse settimane espongono il sindaco Muhammad
Nowandesh alle ire degli abitanti. Lui
si è subito lavato le mani accusando i mafiosi del territorio, su cui per anni
la vigilanza sua e del governo centrale è stata nulla.
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