L’annuncio
di posticipare il ritiro giunge bucolico nel ‘giardino delle rose’ della Casa Bianca da
dove il presidente Obama riferisce che il rientro dei 32.000 militari
statunitensi tuttora in Afghanistan sarà proiettato per l’anno in corso, il
prossimo e terminerà a fine 2016. Ma non sarà totale, sul territorio resteranno
circa diecimila militari concentrati, come si sa da tempo, nelle basi aeree per
la guerra coi droni già in corso da almeno un biennio. Un graduale e certamente non totale distacco, poiché quel territorio continua a rappresentare un’area
d’interesse strategico, militare ed economico (con le risorse del sottosuolo) che
attira le attenzioni e concentra le tensioni di vari Paesi e di colossi che
guardano avidamente l’intera regione. L’impero Usa è ovviamente in prima fila. Non
si scatena un’occupazione pluridecennale, mascherandola per liberazione, per
poi mollarla. Sebbene alcuni graduati che contano, e vogliono mantenere
l’anonimato, hanno dichiarato al NYT che nessuna componente politica e militare
statunitense ha sottoscritto un ruolo di gendarme afghano ad libitum, c’è il
compatto fronte repubblicano che lancia l’allarme di non mollare e non ripetere
l’errore iracheno della ritirata frettolosa e inopportuna.
Nell’affermazione
in perfetto stile bushano di Obama: “Gli
americani hanno imparato come sia più doloroso abbandonare una guerra che
iniziarla” appare una lampante verità riguardante il business della propria
industria bellica che ha rafforzato se stessa e la nazione puntando sui
conflitti, direttamente vissuti o indirettamente sostenuti. Ciò nonostante nella
riduzione delle truppe (giunte sino a 101.000 unità agli inizi del 2011, cui dati
non riscontrabili perché segreti aggiungono anche svariate migliaia di
contractors e agenti della Cia) pesano l’impasse militare contro l’insorgenza e
anche i costi vivi. Nel 2010, l’anno terribile della missione Isaf per numero
di morti e attacchi subìti con ordigni improvvisati, l’Us Army e le forze Nato
ebbero drammatici riscontri tattici perdendo in agguati, azioni e attacchi
diretti contro talebani e insorgenti ben 711 soldati (497 statunitensi). Un
americano che veste la divisa ed è in missione in terra afghana costa alle
casse confederali 15.000 dollari al mese; un afghano che lo sostituisce, pur se
con minore efficienza e coerenza repressiva, ne costa solo 500.
Esistono, altresì,
prospettive politiche di varie componenti, l’Intelligence è una non certo
secondaria. Sebbene generali come Dunford, oggi responsabile dell’Us Army in
Afghanistan, dichiari che sarebbe felice di restare per missioni di
antiterrorismo contro l’onnipresente (a suo dire) Al Qaeda, la Cia ha smobilitato
alcune milizie che aveva organizzato nell’area di Kandahar e nel sud del Paese
in funzione antiqaedista. Osservatori militari sostengono che i panorami
siriano e nigeriano hanno acquisito una focalizzazione maggiore da parte
dell’Intelligence statunitense per tale funzione. Gli addestramenti anti Qaeda realizzati
dalla Cia in Giordania si stanno spostando sul fronte siriano, lì le azioni non
si simulano e diventano realmente operative. L’amministrazione Obama non è
entrata in dettagli, ma ha promesso un corposo impegno antiterrorismo versione
Cia e Intelligence sorelle in Iraq, Giordania, Turchia e appunto Siria. Perché
il fuoco tuttora acceso nell’area consiglia l’allerta agli uomini di Washington
che puntano sul coinvolgimento reiterato e massiccio degli alleati nelle
missioni di polizia internazionale, dove gli Usa godono del privilegio del
comando strategico generale.
Sul piatto
della bilancia dei tempi allungati c’è pure il rimescolamento delle carte attorno Bilateral Security Agreement, prima accettato
poi non firmato da Karzai, che comunque entrambi i contendenti al ballottaggio presidenziale afghano di giugno sostengono di approvare. Una nota al veleno di certa libera stampa
americana fa notare come i Democratici stiano pianificando a
proprio vantaggio il ritiro delle truppe con un’ultima partenza prevista un
mese prima della conclusione della gestione Obama (gennaio 2017), così da poter
far pesare politicamente sull’elettorato il mantenimento di questa promessa. La
politica internazionale ha sempre ricaschi nel giardino di casa dove fioriscono rose e spinose falsità.
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