giovedì 31 agosto 2017

Afghanistan, le leggi anti protesta

Che l’Afghanistan non sia un Paese a democrazia crescente è risaputo, solo la narrativa geopolitica dettata dalla Casa Bianca vuol farlo credere. Tranne poi oscillare attorno alla propria presenza armata sul territorio con un numero variabile di militari: ultimamente generali e Trump pensano di rispedirne in servizio effettivo quattromila. Così negli ultimi quindi mesi una parte della popolazione afghana, stanca di guerra interna e importata dalle missioni internazionali, aveva iniziato a protestare ricevendo in cambio le esplosioni mortali firmate Stato Islamico. Bombe rivolte anche contro i simboli dell’amministrazione Ghani, ma in varie occasioni lanciate sulle manifestazioni della comunità hazara, giudicata empia dai miliziani neri per il suo credo sciita. Di fatto l’obiettivo destabilizzante dell’Isis è, come altrove, quello di ingigantire le paure della gente inducendo sottomissione, e lanciare un messaggio anche ai talebani ‘ortodossi’ contattati dal presidente afghano per possibili accordi di cosiddetta pacificazione. Come ambasciatore per questo piano è stato cooptato il noto signore della guerra Gulbuddin Hekmatyar che è potuto rientrare nella capitale da cui mancava da molti anni. I suoi fan l’hanno accolto con tutti gli onori, ma per migliaia di famiglie Hekmatyar è il macellaio di Kabul, il fondamentalista che combattendo contro suoi simili (Massoud, Rabbani, Dostum) ha contribuito a seminare lutti fra la popolazione nel quadriennio di guerra civile di metà Novanta. Già difeso dal presidente Karzai, che ha impedito qualsiasi rivisitazione legale dei massacri antecedenti all’invasione statunitense del 2001, questo criminale è stato richiamato dall’attuale leader Ghani in appoggio al suo progetto di dialogo coi talebani che controllano molte delle 34 province.
Il desiderio presidenziale non prende corpo per via della spaccatura presente fra i turbanti, di cui una minoranza si rapporta al Daesh. I restanti capi talib vorrebbero trattare da posizioni di maggior forza, conquistata sul campo con le continue incursioni che rendono insicuro ogni angolo del Paese. Contro simili intrighi nei mesi scorsi s’è sollevato un pezzo di società civile che ha dato vita a manifestazioni definite “Rivolta per cambiare” e “Movimento illuminato”. Proteste spesso organizzate fra gruppi etnici, tajiko il primo, hazara il secondo, due minoranze che si considerano storicamente discriminate dai pashtun. La contestazione hazara era mossa da motivi economici, perché l’area di Bamyan (abitata da una parte della comunità) risultava tagliata fuori dal progetto Tutap (acronimo di Turkmenistan-Uzbekistan-Tajikistan-Afghanistan-Pakistan, le nazioni dove passerà una nuova linea elettrica). Le alte sfere di Kabul, rapportandosi a questo business internazionale finanziato dall’Asian Development Bank, hanno optato per un passaggio della linea da nord attraverso il passo di Salang, da lì le proteste. Ma questo risveglio con cortei e sit-in, per i motivi più vari, comprese le contestazioni dell’accoglienza governativa a Hekmatyar, ora rischiano una reprimenda statale. E’ infatti in corso scrittura e riscrittura di un disegno di legge che ha l’unico scopo d’impedire manifestazioni di dissenso. Le misure vengono abilmente mascherate con l’intento di difendere da possibili attacchi terroristici chi partecipa ai sit-in; in realtà cerca di bloccare con divieti e iper responsabilizzazioni l’organizzazione degli stessi.
Un articolo del progetto di legge esautora la polizia dai compiti di verifica e di controllo che ricadono tutti su chi promuove il raduno, e in caso di disordini, violenze o peggio dovrà risponderne penalmente. S’impedisce ai minori di partecipare alle proteste, come pure agli stranieri e a personaggi noti, s’interdicono luoghi pubblici adiacenti a zone commerciali, sanitarie, d’istruzione oltre che agli edifici di rappresentanza amministrativa e governativa. Per timore di attentati i luoghi concessi potranno situarsi nella periferia estrema delle città o in aperta campagna. Oltre all’isolamento visivo delle manifestazioni dai centri abitati, il governo cerca di rendere difficoltoso ai potenziali partecipanti il raggiungimento dei luoghi d’incontro e se questa dissuasione non dovesse bastare li intimorisce con le conseguenze legali. Perché dall’entrata in vigore della legge si potrà protestare solo se si propongono alternative. Chi non le ha, non avrà diritto di azione e parola. E qualora ne avesse certe richieste potranno venire considerate “irrazionali”, come sostiene un gruppo di senatori vicini all’attuale Esecutivo. Con simili restrizioni, che s’aggiungono alle tante già esistenti cui si può sempre applicare “il divieto dei divieti” giustificato dallo stato d’emergenza, gruppi particolari etnici o religiosi (ad esempio i Sikhs afghani) non potranno più chiedere protezione a difesa del diritto di fede. Per offrire legalità alla stretta repressiva contro ogni libero pensiero e dissenso, l’ennesimo governo fantoccio di Kabul chiede di presentare un “permesso di protesta” - lo definiscono così - che sarà soggetto all’insindacabile valutazione di un organismo preposto (finora si poteva manifestare annunciando luogo e giorno del raduno). Ghani cerca di salvarsi il cammino politico silenziando ogni voce civile e patteggiando coi taliban. Ma quest’agognato accordo non gli garantisce un futuro.


venerdì 25 agosto 2017

Un gesto che non lava la coscienza del potere

Lo stesso fotografo (Angelo Carconi dell’Ansa) che ha immortalato la scena, in assoluto rara ma reale, l’ha commentata così sulle pagine de La Stampa: Non so dire se il gesto del poliziotto fosse improvvisato o studiato. Però dalla distanza da cui ho scattato è sembrato un momento intenso: un poliziotto che ha ordine di sgomberare la piazza e una donna che vuole riappropriarsene condividono un momento di semplice umanità”. Un gesto delicato, certo. Quelle mani che stringono il volto per consolarlo dell’ingiustizia che sta subendo. Un’ingiustizia sedimentata da anni, se si scava nella vicenda di quegli eritrei e somali occupanti “abusivi” di uno stabile per far fronte all’esigenza primaria di avere un tetto, non da migranti clandestini o regolari. Ma da rifugiati, riconosciuti tali dalla Repubblica Italiana e da questa teoricamente tutelati. Teoricamente. Perché secondo quanto denuncia il rappresentante dell’Unhcr per il sud d’Europa “In quattro anni di occupazione (di uno stabile di proprietà della Banca San Paolo di Torino presso la stazione Termini di Roma) è mancata una strategia concreta di intervento sociale e abitativo. E le alternative proposte nel corso del sit-in di protesta in piazza, oltre a essere tardive risultavano inadeguate, poiché non avrebbero garantito una sistemazione a tutte le persone”.  Per inerzia della giunta Marino (giugno 2013 - ottobre 2015), del commissario prefettizio Tronca (novembre 2015 - giugno 2016), della giunta Raggi (giugno 2016 e tuttora in carica) si è arrivati, prima allo sgombero senza alternative per tutti, poi alla repressione della protesta che stazionava in una piazza centrale, seppur non monumentale di Roma. L’abbraccio comprensivo del poliziotto, decisamente migliore della foga con cui un funzionario della polizia di Stato incitava i sottoposti a spaccare le braccia a chi s’opponeva alla violenza tirando sassi, non è la faccia buona del dualismo repressivo.

Anche lo stereotipo cinematografico dell’agente buono che offre la sigaretta al fermato dopo che il collega cattivo gli ha prodotto qualche ecchimosi è trito, e comunque conferma che i due ricoprono ruoli preconfezionati per un fine. Oltre il gesto, che ci piace credere personale e sincero, del celerino, già definito dalla canea politica, buonista, c’è dell’altro. L’ignavo disegno della politica centrale e periferica di non fare nulla o quasi, per risolvere i problemi che s’affacciano e si accumulano. La volontà di applicare una fermezza senza senso, che non disdegna durezza e violenza rivolte ai deboli, accusati, come in questo caso, di trasgressione. Con l’aggiunta di lavare uomini, donne, bambini con gli idranti per levarseli di torno. Eliminarli da un arredo urbano che, pur nell’enfasi di RomaCapitale, resta polveroso e abbandonato. E in questa capitale che anche in centro mostra il medesimo abbandono delle periferie abbandonate a sé, politici e amministratori vogliono cancellare anche l’ombra delle presenze critiche. Di chi è costretto a ricordargli ciò che non fanno, a cui rispondono facendo la guerra dell’acqua o dei lacrimogeni o delle botte. Sono i compiti dei tutori dell’Ordine. E già il proprio sindacato ne difende la pratica della forza che attiene al ruolo e ai regolamenti. E’ sempre stato così. La carezza al posto del manganello resta un gesto, che rende orgoglioso il figlio dell’agente, ma non muta un sistema. Soprattutto non può celare la via intrapresa dall’attuale governo e dal nuovo ministro degli Interni, forte e convinto del suo senso della forza. Con cui schiacciare sul nascere ogni protesta, anche la più legittima che evidenzia l’ingiustizia in atto. Il dissenso, la diversità di condizione e di pensiero semplicemente non devono esistere, bisogna cancellarli dalla capitale o da altre nostre città avvinte e vinte dalla colpevole inerzia di chi dovrebbe guidarle.  Lorsignori spazzano via con l’acqua i problemi che non risolvono, sperando che anneghino.

Referendum sul Kurdistan: attese e timori

A un mese dal previsto referendum promosso da Massoud Barzani sull’ipotetica “indipendenza della regione del Kurdistan e di zone fuori dal territorio” (dunque i governatorati di Erbil, Sulaymaniyah, Dohuk più l’ambitissima Kirkuk) la Turchia, che è ferrea oppositrice dell’iniziativa nonostante i discreti rapporti col leader del Partito democratico del Kurdistan (Kdp), ha rilanciato un’azione diplomatica di dissuasione. Il ministro degli Esteri Çavuşoğlu è in queste ore a Baghdad, ospite dell’omologo al-Jaafari, per ribadire l’unicità di due obiettivi.  Primo: lavorare per la totale liberazione delle aree tuttora sotto il controllo dell’Isis (piuttosto ridotte rispetto a tre anni fa). Secondo: garantire l’integrità della nazione irachena. Parlare d’integrità per un territorio che, solo nel triennio della nascita del Daesh, ha subìto sanguinose lacerazioni accanto a idee di soluzioni buone per ogni velleità geopolitica, sembra una totale astrazione. Ma pur fra le mille incertezze prodotte dalla condizione di Stato in dissoluzione e dalle strategie per tener congelata (ma esecutiva) una guerra che dal 2003 opprime milioni di persone, chi è interessato all’Iraq e alla sua cospicua ricchezza di petrolio (epigoni delle Sette sorelle del petrolio, Usa, Daesh, petromonarchie e i capiclan dei 5  milioni di kurdi iracheni) il problema se lo pone.
Se lo pongono anche gli ingombranti vicini turchi e iraniani, interessati a un presente che è già futuro, sia nel caso d’implosione di un territorio da tutti invidiato per l’oro nero del sottosuolo, sia per il temibile effetto domino che la scelta dell’autodeterminazione dei kurdi locali potrebbe produrre fra i 15 milioni di kurdi di Turchia e gli 8 milioni presenti nel nord-ovest iraniano. Esorcizzare ed evitare questo passo, ritenuto un pericolo ad Ankara come a Teheran, fa parte della missione di Çavuşoğlu. Dal canto suo con l’attuale referendum, già proposto tempo addietro, Barzani vuol cogliere i frutti d’un momento favorevole per il territorio che amministra in virtù di quelle concessioni statunitensi successive alla prima guerra del Golfo (1991). Una soluzione di passaggio che vedeva gli Usa tutori interessati per tenere una presenza indiretta nella regione, che dal 2003 divenne occupazione. Anche in quel caso Washington fece ricorso al popolo kurdo e alle storie dei massacri da esso subiti nel 1988 su ordine di Saddam Hussein. Il vecchio leader del Kdp lancia lo strumento consultivo anche per rafforzare la propria posizione sullo scenario della dirigenza kurdo-irachena, per limitare le velleità del Movimento per il cambiamento (Gorran) propostosi nelle elezioni locali del 2013 come partito d’opposizione, una novità rispetto allo storico dualismo fra Kdp e Puk (Unione patriottica del Kurdistan).
Eppure Barzani in una recente dichiarazione ha lasciato intendere che la rinuncia al referendum, temuto da turchi e iraniani, potrebbe avvenire solo di fronte a una soluzione alternativa di buona vicinanza. Intuitivamente parlava anche dei vicinissimi dell’amministrazione di Baghdad che in caso di successo del sì, dovrebbe vedersi privata di tutta la fascia settentrionale irachena, controllate, e non da oggi, dai combattenti peshmerga. Del resto la regione autonoma del Kurdistan (Krg), rafforzata sul terreno geopolitico dal 2005, ha ricevuto un ulteriore benestare dal 2014. Gli scontri sui campi di battaglia contro i miliziani dello Stato Islamico sono stati sostenuti dai peshmerga e quest’imprinting politico, suggellato nella lotta, è la carta di credito cui il Krg non vuol rinunciare. Certo, i successi kurdi sono scaturiti scontrandosi casa per casa con un nemico motivato e feroce, ma sono seguiti alle azioni di copertura garantite dall’aviazione Nato. Attualmente l’establishment occidentale sembra preferire l’ingombrante idea dell’autonomia della regione kurdo-irachena a quell’espansione dell’Isis, che in quell’area ha seminato un biennio di lutti e paure. Ma proprio la Casa Bianca, dopo il decennio di distruzioni creato, spinge per una possibile rinascita dell’Iraq. C’è poi appunto la contrarietà turca sul tema dell’autonomia del Kurdistan orientale, cui potrebbe seguire una richiesta di quello orientale: il Rojava.

Sebbene in quest’area la continuità dei cantoni (Efrin-Kobanȇ-Jazira-Șehba) non è totalmente garantita, per la presenza ancora di sacche controllate dall’Isis, in più occasioni Erdoğan in persona ha minacciato l’uso dell’esercito contro un aggregato politico non gradito, che, a suo dire, minaccia la sicurezza nazionale turca. Non è un segreto come l’elaborazione del progetto politico del Rojava, che esalta l’autonomia territoriale e prospetta una società democratica e paritaria, veda il Partito dell’unione democratica di Siria (Pyd) in stretto rapporto col Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk). Tracciando un’equazione securitaria il presidente turco spinge affinché anche il Pyd subisca ostracismo e trattamento applicati da anni al Pkk e venga considerato un’organizzazione terroristica. Di mezzo s’è posta la guerra civile siriana, il ruolo giocato dalle determinatissime ‘Unità di protezione popolare’ e di ‘protezione della donna’, che hanno difeso con la vita quei territori, impedendo un’avanzata delle bandiere nere da sud verso nord, confine turco compreso. Così la comunità kurda meno numerosa, quella siriana che conta circa tre milioni di persone, oltre a essere giocoforza mobilitata dagli eventi, risulta altamente politicizzata e determinata, tanto da fare invidia allo stesso Barzani. Su tali divisioni vecchie e nuove, sui disegni politici che separano taluni leader kurdi e il loro seguito, insistono gli altri attori regionali. In una partita riaperta, che può però ripetere i voltafaccia compiuti nella storia del Novecento da potenze grandi e medie per lasciare un antichissimo popolo di oltre trenta milioni d’individui senza patria. Mentre nascevano Kosovo e simili.  

martedì 22 agosto 2017

Trump: guerra fino alla vittoria

Il Pentagono ordina, la Casa Bianca obbedisce. E l’Amerika della democrazia a suon di bombe rilancia un refrain noto, da cui l’amministrazione più ondivaga e pasticciona di un bel pezzo della sua storia aveva cercato di sviare, non foss’altro che per lo spirito da bastian contrario del personaggio Trump. Ma ieri è stato il presidente in persona a proclamare: in Afghanistan restiamo fino alla vittoria. Che vuol dire? Tutto e niente, seppure nel recente passato da candidato lui blaterava di ritiro definitivo. Però Trump ha una faccia tostissima, più di quella del compianto Jerry Lewis quand’era in gran forma sulle scene hollywoodiane, dunque azzera la precedente convinzione e lancia l’esatto contrario. Gongola il pool di generali: Kelly (nuovo capo), Mattis (Difesa), McMaster (National Security Council) che festosi gli si stringono attorno, omaggiandolo. Di fatto salutano se stessi, la loro compattezza, i vantaggi personali che ne trarranno professionalmente, e magari personalmente, tramite la lobby delle armi. Niente di nuovo, questi sono gli indelebili States, amministrazione più, amministrazione meno. Del resto non era stato il premio Nobel per la pace, il democratico ortodosso Obama, a far raggiungere il picco nelle presenze di truppa nelle province afghane? Centomila elmetti fra il 2010 e 2011 per non risolvere strategicamente nulla. Anzi, da quel ricarico, i talebani lanciarono la campagna di resistenza contro una più copiosa invasione straniera, e tanti giovani impossibilitati alla fuga verso Occidente, finirono per scegliere il fronte della “guerra santa”. Perché questo genere di propaganda, che sarà pure contraddittoria e pro domo propria, i turbanti continuano a lanciarla. Ma i generali statunitensi quanti soldati vogliono reindirizzare sul fronte afghano?
Non si sa. Trapela il numero non ufficiale di 4000, che sarebbero solo un anticipo. Parliamo di marines effettivi, non dei contractors che gli Usa continuano a schierare, e che già normalmente s’aggiungono alle truppe dislocate sul territorio, seppure destinati a funzioni di vigilanza armata, quella che non riesce a fermare gli attentati nemici fin dentro il sorvegliatissimo cuore della capitale. Sulle unità da schierare presidente e generali restano abbottonati, anzi lanciano l’ipotesi d’un adattamento alle situazioni del momento, che costituisce un unicum negli annunci d’intervento, solitamente pianificati e precisi in ogni dettaglio. Cosicché se si mettono in fila il ribaltone del reintervento, certe vaghezze di programmazione, la disponibilità di sostegno ai tentativi di trattative compiute dal locale presidente Ghani per cooptare nel governo la componente talib possibilista, l’insieme risulta un polverone rivolto più agli occhi americani afflitti dagli ultimi contrasti razzisti che a una strategia di lungo corso. Ma non cambia granché: gli Usa dalla “palude afghana” non sono mai usciti, hanno diminuito sensibilmente i soldati nelle missioni di terra, perché diventavano bersaglio fisso di agguati. Era più sicuro bersagliare miliziani e civili dai cieli coi bombardamenti mai terminati e con azioni mirate di droni accresciuti in tecnologia e precisione. Infatti le basi aeree, dove sono impiegate le circa 10.000 unità presenti, si sono consolidate e rafforzate. Servono per l’Afghanistan e per tutta l’instabile area attorno, a cominciare dal Pakistan, un alleato che Washington considera di fatto un nemico.

Poiché è poco obbediente ai suoi voleri, è doppio e triplogiochista in politica estera con certi premier e ministri e sul versante della sicurezza con un’Intelligence che addestra e copre jihadismi di varia natura. Seppure quest’orientamento, spesso incentivato proprio dai Servizi d’Oltreoceano, sia diventato un boomerang. Comunque le bacchettate, che nel discorso di stanotte Trump ha rivolto alla leadership di Islamabad, non avranno effetto. Perché a Levante gli americani temono e soffrono i colossi cinese e indiano e hanno, comunque, bisogno del Pakistan, visto che con altre potenze regionali (Iran e Turchia) i rapporti sono altalenanti, anche per volere di Trump e sodali. Allora non accade nulla? Non proprio. Fra i salti mortali del presidente, che per altrui o sua volontà in questi mesi ha azzerato lo staff di partenza, si rafforza un potere mai venuto meno al peso che ricopre, quello del Pentagono. Potere strabico, che nella strategia mediorientale statunitense del Terzo Millennio ha più volte imboccato strade cieche con conseguenze sciagurate, se pensiamo alle iniziative stragiste verso la popolazione afghana dei McChrystal e dei Petraeus. Eppure certi generali danno il peggio non solo sul terreno del terrore spacciato come ‘guerra al terrorismo’, ma quando si propongono in politica. Le bugie avallate e diffuse da Colin Powell a sostegno dell’invasione dell’Iraq sono entrate nelle cronache della storia recente e delle disgrazie che hanno provocato. Però ieri la pietanza sapida che Trump serviva a rappresentanti delle truppe schierati ad ascoltarlo, e alla nazione intera, partiva proprio da quelle sciagure. Inconsapevolmente o meno, diceva: staremo in Afghanistan per non lasciare vuoti dove l’Isis possa insediarsi, com’è accaduto in Iraq. Come se guerra imperialista e jihad non si fomentassero a vicenda.

domenica 20 agosto 2017

Terrorismo jihadista: una battaglia impossibile?

Eviteranno qualche vittima in più i cosiddetti jersey, le protezioni di cemento, che la sicurezza inizia a collocare nei centri storici di molte città, anche italiane. In alcuni luoghi simbolo si potranno fermare e deviare i furgoni della morte, ma la furia, e soprattutto la convinzione omicida, delle nuove leve del terrorismo islamista paiono travalicare quegli ostacoli. Perché cercheranno ulteriori strumenti, come fecero i qaedisti dell’11 settembre trasformando in proiettili gli aerei di linea. Questo conflitto è anche battaglia d’informazioni dei soggetti preposti a indagare e prevenire, con tutti i successi del caso, quando s’intercettano potenziali piani d’attacco e le contraddizioni e i buchi neri evidenziati proprio dall’attentato “spettacolare” delle Torri Gemelle, che ha aperto una più grande frontiera di scontro. La conoscenza tecnico-organizzativa di questo che è diventato, a Parigi come a Lahore, lo spettro del vivere quotidiano, risulta utilissima. Come lo sono le considerazioni d’ordine politico compiute da studiosi del terrorismo jihadista. Scorrendo un recente lavoro del trio di ricercatori Vidino, Marone, Entenmann, a cura dell’Istituto studi di politica internazionale, si hanno conferme di notizie già note e spunti interessanti di notizie utili per ulteriori riflessioni. Uno dei pilastri di quella che finora è stata la forza militare dell’Isis, che secondo qualche analista sarebbe in declino, è l’Emni. Si tratta dell’Intelligence del Daesh composta da parecchi esperti della sicurezza di Saddam Hussein, entrati, come tanti militari e poliziotti iracheni, nell’Isis. Da al-Khilafawi ad al-Adnani (il primo ucciso nel 2014, il secondo nel 2016, entrambi probabilmente dai droni della Cia in Siria), i vari agenti non solo dirigevano l’organo di sicurezza, sviluppavano anche una propaganda rivolta al proselitismo.
Con la gestione di al-Adnani il sistema di reclutamento è diventato sempre più sofisticato e mirato. La rete degli imam salafiti continua ad avvicinare soggetti nelle moschee o in luoghi di preghiera e incontro, definiti dai ricercatori ‘hub di radicalizzazione’. Lì si stabiliscono contatti diretti e personali. Come pure nelle realtà territoriali, siano esse quartieri ad alta concentrazione abitativa islamica: il pensiero va a Molenbeek presso Bruxelles, base degli attentatori parigini, oppure alla località di Ripoll, dove la ‘cellula di Barcellona’ pianificava i recenti attentati spagnoli. O ancora il caso studiato della cittadina di Hildeshein nella Bassa Sassonia, scelta da terroristi islamisti per la sua posizione centrale rispetto a grandi città tedesche, che da lì risultavano facilmente raggiungibili. Il sistema s’è ulteriormente ramificato. I predicatori abili con la parola e le tecnologie del web (un nome su tutti è Abdulaziz Abdullah, alias Abu Walaa) e quelli che vengono definiti i ‘pianificatori virtuali’ ottengono nel cyberspazio risultati altrettanto vantaggiosi. Ciascuno lavora in contatto con l’Intelligence del Califfato. Inoltre contributi, pur segnati da scelte individuali, vengono da storie di rapper radicalizzati: caso noto quello del francese Kassim, che dopo anni di pezzi inneggianti allo scontro coi kafir, è partito per il fronte siriano. Dunque moschee e strade, bistrot, social network, web, app e tutti i ganci che rendono possibile e fruttuosa la propaganda virtuale vengono sfruttati per il medesimo scopo: uccidere e seminare paura. Finanche il tradizionale ‘gruppo dei pari’ porta adepti alla causa del terrore islamista, che negli ultimi tempi per ragioni di sicurezza (la propria) si basa sempre più su legami parentali. Secondo le statistiche in Francia, Germania, Belgio hanno agito immigrati di seconda e terza generazione, dunque cittadini con passaporto francese, tedesco, belga. Che possono provenire da ambienti marginali e poveri, ma pure da ceti medi e di buona scolarizzazione, com’è accaduto nei Paesi scandinavi e in Danimarca dove cellule e ‘attori solitari’ indagati e fermati godevano di vantaggi sociali che altri migranti nel sud d’Europa (Spagna, Italia, Grecia) non conoscono. Vidino-Marone-Entenmann ci dicono che le sorprese non mancano.
Un caso in Belgio denominato Sharia4, che gli analisti hanno definito ‘jihadismo plebeo’, un’avanguardia combattente nel nome di Allah e della giustizia secondo chiuse logiche ispirate da Dio che rifiuta confronti con l’esterno, era noto al locale antiterrorismo. Ma non veniva ritenuta pericolosa, si pensava fosse un nucleo estremistico di parolai. Lo sviluppo della crisi siriana e i contatti di alcuni membri della struttura hanno dimostrato come essa avesse all’interno più livelli, compresi quelli che prevedevano una milizia di foreign fighters. Simili errori di valutazione possono costare molto caro alla sicurezza dei civili. Un gran numero di islamici d’Occidente, presenti nei Paesi attaccati dalle cellule fondamentaliste, si dissociano, condannano, additano non solo i vari imam del terrore, ma le nazioni che li foraggiano e proteggono, come fa l’imam donna Ani Zonneveld, che intervistata ieri dal Corriere della sera afferma:  L’Occidente vincerà la battaglia contro il radicalismo islamico soltanto quando si dissocerà dall’Arabia Saudita che esporta questa ideologia violenta. Europa e Stati Uniti discutono di pace e sicurezza, dimenticando di essere complici dei sauditi da cui acquistano petrolio e a cui vendono armi”. La Zonneveld, che vive e predica a Los Angeles, ed è un personaggio sui generis nell’ambiente islamico per le sue posizioni progressiste e trasgressive (celebra matrimoni interreligiosi, etero e omosessuali), non aggiunge nulla di nuovo sul ruolo della monarchia saudita, dice semplicemente una verità risaputa da tutti noi. Però la ‘geopolitica del potere’ se ne infischia di quanto studiosi e teorici della convivenza denunciano e reclamano. I suoi interpreti, che sono i governanti delle nazioni in cui viviamo, piangono le vittime civili delle popolazioni che governano, condannano il jihadismo assassino poi continuano a tessere relazioni e affari coi sovrani che foraggiano i crimini fondamentalisti. Un circolo vizioso, che vede i potenti protetti e le genti usate come bersaglio. Perché le guerre asimmetriche volute e cercate dall’Isis fanno da contraltare alle invasioni e ai conflitti militari scatenati dalla Nato.
Su questo le riflessioni pubblicate su La Repubblica del 19 agosto da parte di Tahar Ben Jelloun, propongono un richiamo a uno, non l’unico, argomento con cui il terrorismo fondamentalista rilancia la guerra all’Occidente. Scrive il saggista e poeta marocchino “… L’origine più vicina e più evidente risiede nell’invasione dell’Iraq da parte dell’esercito americano. Da quel funesto mese di marzo del 2003, quando George W. Bush ha infranto le leggi internazionali e ha agito mentendo e sostenendo di portare la democrazia al popolo iracheno, si è spalancata una porta ai soldati di Al Qaeda che hanno commesso attentati in tutto il mondo… La maggioranza dell’attuale esercito di Daesh è composta da militari iracheni che hanno scelto di seguire un ex prigioniero di Bush, Al Baghdadi, fondatore dello Stato Islamico… Se le istanze del Tribunale penale internazionale avessero giudicato George Bush per i crimini contro l’umanità che ha commesso lì, dove le sue truppe hanno rovinato la vita alla popolazione, forse queste tensioni e questi attentati sarebbero meno numerosi. Giudicare Bush sarebbe sicuramente stato percepito come un gesto di giustizia e pacificazione. Ma l’arroganza dell’America disprezza il Tribunale penale internazionale, che peraltro non ha mai riconosciuto”. Considerazioni che si possono sottoscrivere finanche nelle virgole, ma che si scontrano con una realtà politica che vede i premier occidentali succubi dei piani strategici ed economici di chi siede alla Casa Bianca. Più inquietanti risultano le ulteriori considerazioni dello scrittore: “… La religione, anche e soprattutto mal compresa, raggiunge il sacrificio supremo, ulteriormente aumentato dalla morte degli innocenti. E’ impossibile entrare nella testa di chi pianifica i massacri: è blindata… Perciò ogni tentativo di combattere questo radicalismo è votato al fallimento: perché il terrorista e l’educatore non parlano la stessa lingua, non sono sullo stesso pianeta e non hanno nessun punto d’incontro… Il jihadista è in un tunnel e procede senza guardare né indietro né di lato… La lotta si rivela inutile perché la democrazia non è attrezzata per combattere questo nuovo tipo di terrorismo che la storia non ha mai conosciuto”.

Non è la “Sottomissione” di Houellebecq, capace peraltro di scatenare orgogli e pruriti di guerra di cui si nutre la strategia per nulla vincente, che già aveva partorito l’Enduring Freedom e che medita di rendere eterne occupazioni come in Afghanistan. Il pensiero dell’intellettuale marocchino è tragicamente amaro, non s’illude e non vuole illudere. Forse prende spunto proprio dalla “convincente” follìa del proclama lanciato il 22 settembre 2014 da Abu Mohammed al-Adnani. ... Oh Americani ed Europei, lo Stato Islamico non ha iniziato una guerra contro di voi, diversamente da quanto i vostri governi e i vostri media vogliono farvi credere. Siete stati voi ad aver iniziato l’offensiva e pertanto la colpa è vostra e pagherete un caro prezzo. Pagherete un caro prezzo quando le vostre economie collasseranno… Dunque, oh muwahhid, ovunque tu ti trovi, non mancare alla battaglia. Devi colpire i soldati, i sostenitori e le truppe dei tawāg- hīt. Colpisci i membri delle loro forze di polizia, di sicurezza e di intelligence, così come i loro agenti traditori. Distruggi i loro letti. Avvelena le loro vite e tienili impegnati… Uccidi il miscredente, sia costui civile o militare, per entrambi vale lo stesso giudizio: sono miscredenti ... Riempi le loro strade di esplosivi. Attacca le loro basi. Fai irruzione nelle loro case. Taglia le loro teste. Non lasciare che si sentano al sicuro. Inseguili ovunque siano. Trasforma la loro vita mondana in paura e fiamme. Allontana le famiglie dalle proprie case, e in seguito falle esplodere...”.  Col suo cupo richiamo Ben Jelloun legge fra le righe, oltre la truce retorica di questa propaganda. L’ipotetica battaglia contro il fondamentalismo ha bisogno di armi concettuali che esplodano nelle menti e nei cuori. Armi impugnate da una coalizione trasversale, interna al mondo islamico ed esterna a esso, che possano sradicare certe fanatiche convinzioni di morte, evitando di portare morte e facendosi forte d’un diverso ordine mondiale. Un sistema che, ahinoi, non esiste. Questa è la cappa sotto cui siamo costretti a vivere.