mercoledì 30 settembre 2015

Afghanistan, quell’occupazione che accresce il mito talebano

Solo taluni personaggi discretamente supponenti o eminentemente propagandistici, che pure rivestono ruoli anche d’alto profilo nella Nato, possono fingere stupore nella presa della città di Kunduz da parte talebana. Il flop più recente delle loro geostrategìe ha la denominazione di Resolute support, il piano che dallo scorso dicembre ha lasciato 13.000 marines e istruttori statunitensi nelle diverse basi aeree afghane: Kabul, Bagram, Kandahar, Camp Marmal, Herat, Mazar-e-Sharif, Jalalabad, Khost, da dove continuano a partire F16 e droni per azioni “antiterroristiche”. A questi s’uniscono, ruotando, contingenti di varie nazioni (l’Italia resta in prima fila) che partecipano alla missione di polizia internazionale secondo i dettami del Pentagono. L’intento è formare un’efficiente struttura militare interna che dovrebbe garantire una sicurezza minima alla quotidianità. Ma secondo la cronaca, già enunciata più volte nei mesi scorsi, il passaggio di consegne fra l’Isaf e l’Afghan National Army risulta in oggettiva difficoltà. Dietro a roboanti numeri si celano solo diffuse debolezze. L’esercito locale è giunto a contare 400.000 uomini, ma spesso il reclutamento segue interessi soggettivi incentrati su un salario da riscuotere (fino a 500 dollari) che per la famiglia dell’afghano in divisa significa sopravvivenza, almeno fino alla sopravvivenza del congiunto. Inoltre è sempre presente una cospicua quota d’infiltrazioni che l’insorgenza riesce a introdurre fra i militari. Niente di nuovo sotto il sole, dunque, dopo quattordici anni dall’inizio della “risolutiva” Enduring freedom utile solo a mantenere l’economia di guerra statunitense.
L’attuale conduzione politica locale, oltre a mostrare contraddizioni del binomio Ghani-Abdullah, servito ad accontentare i potenti alleati di entrambi che rispondono ai nomi noti di Dostum (vicepresidente) e altri indomiti signori della guerra alla Sayyaf ed Hekmatyar, mostra tutta la sua impotenza. Essa è divisa fra: accondiscendere alle direttive di Washington, spartirsi gli aiuti internazionali, più gli introiti della produzione e traffico di oppiacei che ha raggiunto il 97% della quota mondiale, soppiantando totalmente quello che negli anni Settanta era il triangolo d’oro indocinese. Le forze talebane sono state sempre presenti in molte province del Paese, sia nel proprio rilancio del 2003-2005, sia negli anni seguenti. Hanno resistito a operazioni complesse del biennio 2009-2010, pianificate dai generali McChrystal e Petraeus, (un esempio per tutti è stato il cosiddetto “Colpo di spada” nell’Helmand, la più imponente azione aeromobile dalla guerra vietnamita). I turbanti neri applicavano pratiche storiche della guerriglia, sganciandosi e ricomparendo in zone diverse, ma conservando un rapporto con la popolazione e gli stessi avversari, rendendosi disponibili a discutere con americani e raìs locali, fra cui l’ex presidente Karzai. I colloqui intavolati già nel 2010 fra il capo della Cia Panetta,  quindi da Holbrooke, con gli uomini del mullah Omar e una parte della Shura di Quetta, testimoniano una tendenza talebana alle scelte tattiche. Senza, però, chiudersi in una subalternità di fatto. Se ogni trattativa riuscita tende a concludersi con un compromesso che porta la rinuncia a qualcosa, i Taliban, pur senza lasciare un brillante ricordo della propria guida della nazione dal 1996 al 2001, sono rimasti attori attivi sulla scena. Agli occhi di tutti.  
Paradossalmente proprio il mantenimento d’uno stato d’occupazione del Paese, assieme alle considerevoli perdite sul campo riscontrate dalla coalizione Nato che introdusse un numero crescente di contractors (fra il 2012 e 2013 ne sono stati calcolati circa 160.000), ha aumentato il mito della resistenza talebana all’invasione duratura dell’Occidente. Ogni afghano, eccetto chi è considerato collaboratore o venduto allo straniero, è contrario alla soluzione militare attuata da Washington e dagli alleati. Perché essa non emancipa la nazione e ne tarpa un’economia autoctona, limita la libera crescita d’una società civile, coi bombardamenti aerei, che di fatto proseguono, produce vittime civili. L’insorgenza è vista da molti come una guerra di liberazione, le stesse figure dell’attivismo democratico che abbiamo più volte intervistato (Malalai Joya, Belquis Roshan, Selay Ghaffar) si pronunciano contro la mistificante missione Isaf e l’attuale mantenimento d’una presenza delle truppe Nato nel Paese. I talebani, inseguendo il piano di jihad antioccidentale, oltre a vantarsi di difendere il Paese, diffondono fra strati crescenti della gioventù un modello da perseguire, che in molti casi risulta più attraente di progetti pacifici che le poche componenti alternative e democratiche riescono a indicare. Peraltro negli ultimi mesi spaccature interne a gruppi talebani, che si rapportano alla rete di Haqqani e all’area delle Fata, ha creato una sorta di competizione sul fronte armato. Ahktan Mansour, il nuovo leader che ha rimpiazzato il mullah Omar, non intende cedere spazi interni a possibili aperture verso Al Baghdadi. Le prove di forza di Kunduz servono anche a delineare appartenenze e gerarchie. 

martedì 29 settembre 2015

Turchia, l’Hdp tende la mano ai repubblicani

Nelle sorprese della politica, che scombussola situazioni sui più diversi panorami internazionali, ben s’inserisce l’apertura fatta dal co-presidente di quel gruppo che da mesi costituisce la possente novità del panorama turco: il Partito Democratico del Popolo. Cos’ha detto Selahattin Demirtaş di tanto stravolgente? Una cosa semplice che, nelle settimane successive al terremoto del voto di giugno che ha reso ingovernabile la Turchia erdoğaniana, alcuni analisti già dibattevano: se il Chp, maggior partito d’opposizione, e la nuova formazione democratica capace di portare in Parlamento 80 deputati unissero le proprie forze in una coalizione, all’orizzonte apparirebbe una componente che sfiora il 40% del voto di giugno. Percentuale ancora inferiore al 47% del Partito della Giustizia e Sviluppo e ai suoi 252 seggi, ma non lontana da una possibile alternativa, anche perché le consultazioni del 1° novembre possono rimettere in gioco i rapporti di forza fra i partiti. Durante un recente viaggio in Germania il leader dell’Hdp ha ricordato come i media vicini al governo avevano diffuso notizie diffamatorie verso di lui e la sua organizzazione. Nel mirino della stampa pro Akp i rapporti che intercorrono fra le leadership dell’Hdp e del Pkk, e pure le “vicinanze” della sinistra turca finita nel Partito Democratico del Popolo a taluni nuclei marxisti combattenti presenti nel Paese. Ne scaturiva la tesi, neppure tanto velata, di fiancheggiamento del terrorismo, che gli accusati rispediscono al mittente come una colossale mistificazione.
Stavolta il compassato Demirtaş è stato tranciante: o l’Akp cambia il suo gene oppure la Turchia dovrà sbarazzarsi di questo partito-regime. In tal senso va letta l’apertura, fino a qualche mese fa impensabile, nei confronti del partito repubblicano, dove l’anima socialdemocratica convive con una tradizione kemalista che ha nella centralità turca una pietra miliare da cui non è facile recedere. Con tutte le contraddizioni del caso. Certo, l’attuale gestione dell’alauita Kılıçdaroğlu, mostra un volto più conciliante verso la questione delle minoranze etniche, ma se il connubio fra i due partiti prenderà corpo sarà soprattutto la valutazione d’opportunità politica del momento a favorire un avvicinamento di sola coalizione. Comunque per i comportamenti presidenziali dell’estate i repubblicani hanno il dente avvelenato. Erdoğan s’era rifiutato di offrire al loro segretario un mandato consultivo, dopo che gli incontri condotti dal premier incaricato Davutoğlu si erano conclusi con un nulla di fatto. Voci di palazzo sostengono che il presidente-padrone fosse irritato dalla mancata visita dei membri del Chp alla sua nuova sontuosa residenza del quartiere di Beştepe ad Ankara. Il fatto seguiva le critiche che la componente laica della società turca ha rivolto al contorno ottomano del nuovo palazzo presidenziale che sorge su un’area di 300.000 metri quadrati, con tanto di Moschea dai quattro minareti e lussuosi arredi. Sebbene filmati e foto abbiano sminuito le dicerie sulla presunta rubinetteria d’oro dei servizi, le polemiche non si sono spente e fra repubblicani e rappresentanti del governo la tensione è alta.

Alcuni deputati del Chp ventilano una clamorosa protesta alla riapertura del Parlamento attesa per giovedì 1° ottobre, a un mese dalle consultazioni. C’è chi propone un’irriverente girata di spalle al presidente durante il suo discorso previsto per la riapertura della Camera. Col clima che si respira nella nazione, che ha avuto sanguinosi scontri fra fazioni con morti e feriti, sarebbe come gettare benzina sul fuoco. Eppure ciò darebbe ulteriori prospettive all’avvicinamento dei due partiti d’opposizione. Quel che fa riflettere è la linea dura mostrata dalla formazione di maggioranza sulla questione kurda. Mentre Demirtaş cerca nuove aperture alla pacificazione, incontrando a Strasburgo il segretario generale del Consiglio d’Europa, il ministro dell’Interno turco Akdoğan dichiara perentoriamente che “il processo di pace è diventato impraticabile. Anche volendolo rilanciare, non si può fare. Il vuoto di sicurezza aggravato da rapimenti e uccisioni di poliziotti ha creato una situazione di non ritorno”.  Lo stesso presidente, intervenendo sul tema, aveva detto che attualmente il processo è congelato per colpa di quei partiti che richiamano posizioni separatiste e terroriste. In una sistematizzazione di alleanze in funzione elettorale, bisognerà vedere se si muoverà anche la destra nazionalista del Mhp, che cova al suo interno il fascismo dei Lupi grigi. L’Akp, abituata a primeggiare non ha mai preso in esame ipotesi di appoggi. Anche i recenti incontri falliti per formare l’esecutivo non hanno introdotto novità e avvicinamenti. Solo su un punto i facinorosi dei due schieramenti si sono ritrovati: nel devastare le sedi dell’Hdp e di taluni giornali.

lunedì 28 settembre 2015

Afghanistan, talebani su Kunduz

Un attacco in grande stile sulla città di Kunduz è stato effettuato stanotte da vari commando talebani. Non si conoscono ancora le strutture colpite, ma un primo lancio dell’agenzia Reuters riferisce di assalti partiti dagli ingressi di Khanabad, Chardara, Imam Sahed. Attualmente la città è isolata, l’aeroporto è chiuso; la polizia e l’esercito, che hanno chiesto rinforzi dalla capitale, intimano ai residenti di serrarsi nelle abitazioni. Tolo tv ha contabilizzato le vittime: sarebbero in totale 21, di cui 13 guerriglieri. Il governo parla, invece, di “venti terroristi uccisi”. L’azione è stata ad ampio raggio, studiata probabilmente per settimane, volta a mettere in mostra l’efficienza militare e l’arditezza dei miliziani utilizzati sul terreno. Finora nessun aereo s’è sollevato dalle basi Nato per bombardare la zona dov’è presente un alto numero di civili. In questi giorni il locale governatore Omer Safi è in visita in Tajikistan, anche il capo della sicurezza era fuori della provincia, notizie cui i talebani sicuramente hanno accesso tramite propri informatori infiltrati. Kunduz rappresenta un nodo strategico per le comunicazioni fra la rotta meridionale che conduce a Kabul e quella occidentale verso Mazar-e Sharif, mentre a nord insiste l’instabile confine tajiko.
I taliban considerano la città uno dei luoghi familiari della propria organizzazione perché qui il - da loro - mai dimenticato mullah Omar stabilì legami politico-amministrativi e teologico-culturali facendone una roccaforte pari alla nativa Kandahar. Alla fine del periodo del governo talebano la provincia aveva raddoppiato il numero degli abitanti che raggiungevano le 100.000 unità. Ogni componente politico-militare punta le proprie attenzioni su quest’area che è l’unica via d’accesso alle province di Badakhshan e Takhar, e un bacino di produzione di cereali, fra le poche zone agricole che resistono alla riconversione al papavero da oppio. Le cronache d’instabilità interna facevano registrare nella giornata di domenica l’esplosione di un’auto-bomba che ha fatto nove morti e decine di feriti nella provincia orientale di Paktika. Più a nord, a Nangarhar, s’era verificato un assalto a un check point controllato dalle Forze armate afghane al quale avrebbero preso parte non meno di 300 combattenti armati.  Enormi le perdite degli assalitori che hanno lasciato sul terreno 60 miliziani. L’agguato è stato condotto dalle componenti fondamentaliste che si proclamano alleate dello Stato Islamico e usano tali azioni per propaganda, reclutamento e addestramento militare.  

venerdì 25 settembre 2015

Islam afghano: non solo Taliban

Nell’anno in cui anche l’Afghanistan e i territori delle Fata, le aree tribali confinanti col Pakistan, hanno vissuto la comparsa di talebani dissidenti (Tehreek-e Taliban) desiderosi di rapportarsi all’Isis, uno studio condotto sul campo dal ricercatore Borhan Osman mette in luce una presenza stabile e crescente di forze islamiche sunnite alternative agli storici ceppi dei turbanti neri, in crisi di guida carismatica. Si tratta ovviamente di mondi paralleli, perché la presenza talebana è una realtà oggettiva, forte e radicata, cui guarda lo stesso governo ufficiale di Ghani, tenuto in vita dai finanziamenti statunitensi. In contrasto a quest’establishment corrotto, ma anche in alternativa al ruvido fondamentalismo talebano si pongono quattro gruppi esaminati nella ricerca. Tutti puntano a una difesa della tradizione islamica, guardando al maggior patrimonio che il Paese offre: le giovani generazioni.
Hizb ut-Tahrir è un’organizzazione che mira alla rinascita del Califfato: un’unica grande nazione per tutti gli islamici, seguendo il modello indicato dal profeta. Il gruppo, fondato negli anni Cinquanta dal giurista palestinese Taqiuddin Nabhani, risulta radicale negli intenti sebbene segua una pratica non violenta. Solo in una fase recente alcuni membri, una minoranza, si sono espressi per un rapporto coi talebani e con la loro jihad praticata contro le truppe d’occupazione della Nato. Nel 2008 è stata notata una crescita di adesioni al gruppo nelle province di Kabul e Kapisa dove, assieme a Badakhshan e Herat, si concentra il maggior intervento della struttura, rivolto prevalentemente ai giovani delle università. Divulgazione di messaggi tramite seminari, incontri e manifestazioni pubbliche sono le strade battute da Hizb per sostenere l’obiettivo del Califfato. Questo può scaturire da un percorso “entrista” che prevede l’adeguato indottrinamento dei membri del gruppo, un successivo ampliamento alle masse, il conseguimento del potere tramite soggetti penetrati nel governo e nelle Forze Armate. La bella teoria deve fare i conti con la realtà e nel 2009, nel corso delle presidenziali vinte a suon di brogli da Karzai, una trentina di aderenti al gruppo vennero  arrestati provocando una contestazione diretta da Hizb ut-Tahrir contro gli stessi princìpi elettorali, denunciati come haram. Da quel momento il network ha formato anche un nucleo semi clandestino con differenti livelli di protezione e segretezza, seppure l’intento politico continui a essere basato su una presenza pubblica che utilizza incontri e dibattiti per fare proselitismo. L’attenzione, come accennato, è rivolta anche a uomini dell’apparato statale e delle forze di sicurezza con cui, però, cresce la contraddizione rispetto a una purezza islamica, sia per l’approvazione fra gli Esecutivi di leggi che contrastano con la Shari’a, sia per la presenza di finanziamenti occidentali anch’essi giudicati “contrari alla linea”.
Jamiat-e Eslah sostiene d’occuparsi di riforme e sviluppo sociale, il suo senso d’islamizzazione si sviluppa sul versante dell’individuo, della famiglia, della società. Il raggruppamento nega l’appartenenza alla grande branca della Fratellanza Musulmana, ma le posizioni politiche s’ispirano al famoso motto di al-Banna secondo cui “l’Islam è Religione e Stato”. S’è calcolato che l’espansione degli ultimi anni ha portato a oltre mille i membri impegnati ufficialmente col gruppo, più diverse migliaia di sostenitori sparsi in venti province, con una concentrazione su Kabul, Kunduz, Herat e Nangarhar. Strutturato anche il settore di comunicazione e propaganda grazie a stazioni radio, un canale televisivo presente a Herat, due campus ospitati nelle università della capitale e di Kunduz, tutto grazie ai cospicui finanziamenti provenienti dai Paesi del Golfo. L’organizzazione proibisce ai suoi membri i ruoli nel governo, nel 2005 Eslah partecipò alle elezioni, ottenendo due deputati in Parlamento, dal 2010 non s’è più ripetuto avendo boicottato le consultazioni. Najm (Nehad-e Jawanan-e Musalam) con 1.200 attivisti presenti in molte province è l’ala giovanile del movimento e, grazie allo slancio energetico degli adepti, risulta attivissima. Pubbliche letture islamiche sono l’arma con cui Najm fa viaggiare il suo credo per incrementare il reclutamento che resta una finalità centrale. Chi assolve con meticolosità tale lavoro può guardare direttamente alla militanza in Eslah, che ha un processo di reclutamento rigorosissimo. La valutazione dei membri avviene dopo una prova che varia dai 2 ai 5 anni, superata la quale segue un giuramento di fedeltà alla causa; l’organizzazione garantisce una segretezza interna e richiede ai soci un contributo finanziario che s’aggira su un versamento del 3% del reddito. L’uso dei fondi è sociale: serve per attività caritatevole, servizi medici e di sostegno alle donne, insegnamento e anche all’informazione e alle pubblicazioni.
Hezb-e Islami Youth rispetto agli altri due gruppi attenua le connotazioni ideologiche, sebbene riguardo al tanto dibattuto Bilateral Security Agreement, che trattava la questione del “ritiro” e della permanenza delle truppe Nato sul territorio afghano, il gruppo abbia creato un’intensa campagna polemica e di dissenso con chi, come il presidente Ghani, l’ha ratificato appena assunto l’incarico. Rispetto alle altre formazioni la sua militanza appare più leggera, dati relativi all’ultimo raduno tenutosi a Kabul alla fine del 2013 riconducevano a settecento gli attivisti lì riuniti, la provenienza era da varie province (Nangarhar, Farah, Khost, Wardak). Ma, per diretta ammissione di alcuni partecipanti, si annotava una crisi d’impegno fra una prima fase di adesione orientativa e di sostegno ideale e una successiva di pratica che ovviamente costa sacrificio personale.

Il salafismo afghano, che pure si rifà al movimento fondato nel XVIII secolo in Arabia Saudita da Muhammad al-Wahhab, più che wahhabita preferisce definirsi muwahiddin e, rigettando la classica interpretazione dell’Islam della giurisprudenza, mira a un ritorno agli ideali islamici di diretta dipendenza dal Corano. Differentemente da altri salafiti gli afghani sono relativamente tolleranti verso gli sciiti, seppure momenti di conflitto fra etnìe che professano confessioni diverse (pashtun e hazara) si siano vissuti nella sanguinosissima guerra civile degli anni Novanta. All’inizio del decennio precedente furono i gruppi dei mujaheddin salafiti a lanciare e gestire la grande jihad antisovietica. Fu una fase di espansione di quest’orientamento islamico grazie agli enormi aiuti materiali e spirituali provenienti dall’Arabia Saudita e dal supporto tecnico-militare offerto dalla Cia, che manovrava il conseguente conflitto geopolitico. Il salafismo era diffuso tramite predicatori e canali di formazione e studio che portarono migliaia di giovani nelle scuole coraniche saudite. Durante l’insurrezione antisovietica nelle province di Kunar, Nuristan e Badakhshan vennero dichiarati dei mini Stati islamici che, comunque, ebbero vita breve anche dopo la ritirata dell’Armata Rossa. Abdul Rassul Sayyaf, uno dei più noti Signori della guerra, vicino al fondamentalismo salafita, è rimasto sempre un pragmatico, attento a interessi personali, più che lasciarsi prendere da battaglie d’ortodossia islamica. Un’altra diffusione dei princìpi di rigida interpretazione del libro sono giunti dagli studenti delle madrase pakistane, i taliban appunto, che hanno incarnato una fase del dominio politico del Paese dal 1996 al 2001. Gli attuali gruppi del salafismo raccolgono non solo studenti ma chi non ha un lavoro e vive la contraddizione della subalternità all’apparato dell’assistenza, diventato il motore dei governi-fantoccio che si susseguono dal 2004. Negli ultimi tempi un gruppo salafita come Jamaat ud-Dawah, operativo a Kunar e nel Nangarhar, che pure tiene un basso profilo ideologico, ha scelto d’integrarsi coi talebani. E, caso più raro, c’è notizia di qualche sheikh salafita che predica a favore del disegno dello Stato islamico attuato dagli uomini di Al-Baghdadi. 

mercoledì 23 settembre 2015

Rafah, pulizia territoriale

Tremila e duecento e cinquantacinque sono le case che in due anni il golpista e poi presidente-salvatore nonché modernista Al Sisi ha fatto saltare in aria a Rafah, lungo il chilometro di confine con Gaza. Secondo la denuncia di Human Rights Watch l’ha deciso in totale disprezzo e violazione delle leggi interazionali. L’esercito del Cairo ha iniziato l’opera di “pulizia” per creare una zona cuscinetto lungo la frontiera con la Striscia a fine luglio 2013. Con operazioni crescenti, attuate senza preavviso, tramite sfratti esasperati e soprattutto senza offrire alternative abitative alle persone che vivevano lì. L’intento era cacciarle via, punirle per il rapporto non solo commerciale coi gazawi, basato sul contrabbando realizzato attraverso i famosi tunnel che in molte occasioni sono stati distrutti dai militari egiziani (o dall’aviazione d’Israele negli sbocchi sulle sabbie della Striscia). Tunnel comunque sempre ricreati, scavando magari all’interno delle stesse abitazioni. La finalità della pulizia territoriale è rivolta anche a colpire i gruppi del jihadismo palestinese e da un anno a questa parte - con la presenza dei filo Isis nella penisola del Sinai - tutto è stato più facile e accettabile all’opinione pubblica interna e internazionale. Perché si dice che si fa pulizia contro lo Stato Islamico.
Oltre tremila, per la precisione tremila e seicento, sono i morti scaturiti dalle operazioni, buona parte civili, ma anche miliziani jihadisti e militari delle Forze Armate, che hanno subìto un crescendo di attentati negli stessi  luoghi che presidiano assiduamente. Situazioni che rafforzano intenzioni e programma di sicurezza del governo cairota che proprio in queste ore rilancia un nuovo Esecutivo forte di 33 ministri (solo due donne) guidati da Sherif Ismail, tecnocrate in carriera senza legami coi partiti che Sisi esibisce come dimostrazione del proprio progetto “apolitico”, votato a rilanciare l’Egitto nel Medioriente e nel mondo. Ma la cartina al tornasole dei suoi piani si specchiano in due uomini forti: il ministro della Difesa, Sedki Sobhi, ovviamente un collega, ex responsabile delle Forze Armate proprio nel sud del Sinai. E Abdel-Ghaffar all’Interno, già capo di quei Servizi di Sicurezza che nel 2011 sostituirono i famigerati mukhabarat di Mubarak. Una sostituzione nel nome non certo nei metodi, come hanno potuto constatare migliaia di attivisti, non solo della Fratellanza ormai fuorilegge. A Ghaffar la demagogia non manca: anch’egli, come il suo nuovo raìs, dichiara di lavorare per il bene del popolo.

Le demolizioni avvengono in maniera scientifica, con tanto di mappe verificate da ricognizioni aeree. Quindi si minano mura e fondamenta e si crea l’effetto tabula rasa che piace agli uomini d’ordine. Così sono state ripulite 30 miglia quadrate a ridosso del confine, che comprendono la città di Rafah rimasta in piedi coi suoi 78.000 abitanti. L’alibi del contrabbando d’armi tramite i tunnel regge parzialmente, perché si è evidenziato come la fornitura delle stesse per i jihadisti filo Isis proviene da molto più lontano, il confine libico, oppure è l’effetto della perdita da parte dei soldati che subiscono agguati e rapine. Secondo alcuni rappresentanti della struttura di Human Rights Watch mediorientale, che ha il polso della situazione attraverso i contatti con la popolazione locale, l’abbattimento delle case rappresenta un boomerang per la campagna di antiterrorismo in quanto semina odio fra la gente. Il governo egiziano è di parere esattamente opposto e sostiene di “offrire ogni garanzia e protezione della proprietà dei cittadini, preoccupandosi di alleviarne le sofferenze. Tutte le misure prese sono state concordate e coordinate coi residenti, che sono consapevoli dell’importanza della sicurezza nazionale e partecipano e contribuiscono allo scopo”. Fatto e rivenduto con la spudoratezza del potere.

martedì 22 settembre 2015

Cizre, l’assedio, il sequestro, la morte

Il “pericolo di attentati” allontana il voto da Cizre, nel distretto di Sirnak, la città uscita con morti e feriti, da uno stato d’assedio durato dal 4 al 12 settembre. Per cui il Consiglio del distretto elettorale decide di non collocare urne nelle aree di Cudi, Nur e Sur che raccolgono 48.000 dei 66.000 elettori di Cizre, dove il voto plebiscitario per la formazione filo kurda dell’Hdp (98% alle elezioni di giugno) può sicuramente punire l’Akp. I quartieri in questione, come la città tutta che la stampa filo governativa definisce “irrequieti”, sono accusati di fiancheggiamento alle posizioni del Pkk e dunque continuano a essere al centro di palesi discriminazioni. Un recente rapporto di giuristi democratici aderenti all’European Association of Lawyers for Democracy and World Human Rights fra cui l’italiana Barbara Spinelli ha raccolto dati sul terribile assedio subìto. Dati ingombranti per violenza, sopraffazione, impostura. Dalle 6 del mattino del 4 settembre 130.000 abitanti, in maggioranza kurdi ma anche armeni e assiri, sono stati obbligati con la forza a restare in casa. Chi non ha rispettato l’obbligo è stato colpito con armi da fuoco, restando ferito o ucciso.
Perché contestualmente è stato impedito, egualmente con la forza, al personale medico e di associazioni umanitarie di soccorrere i feriti. I cittadini sono rimasti per giorni senz’acqua ed energia elettrica, fortemente isolati per l’interruzione del funzionamento delle reti mobili, GSM e internet. Esercizi commerciali e abitazioni sono stati bersagliati da militari e agenti di polizia accorsi in forze. Dopo quattro giorni di assedio diventava difficile recuperare anche generi alimentari. Il copresidente dell’Hdp Demirtaș, in compagnìa dei ministri dell’attuale governo turco per gli Affari Europei Konca e dello Sviluppo Dogan, hanno chiesto al ministro dell’Interno Altinok di visitare la città, ma gli è stato impedito. Una marcia a piedi che s’era avvicinata alla cittadina di Midyat, a 80 km da Cizre, è stata bloccata sempre dalla polizia. Egualmente una corposa delegazione formata da 300 avvocati kurdi e turchi che volevano osservare quanto stava accadendo non ha avuto possibilità di proseguire il tragitto verso Cizre. La città restava isolata dal mondo. Solo alle 6 del mattino del 12 settembre si diffondeva la notizia della cessazione dello stato d’assedio. Da quel momento un gruppo di avvocati è potuto accedere per le vie e,  dopo aver dovuto superare parecchi posti di blocco iniziava a osservare, fotografare, discorrere con la gente, tutta indistintamente provata.
Nel narrare quanto appariva ai loro occhi gli avvocati hanno scritto Davanti ai nostri occhi si è presentato uno scenario di guerra, lungo le vie principali (Nusaybin e Idil Caddesi) si potevano raccogliere centinaia di bossoli esplosi contro case e centraline elettriche. In quei giorni le temperature erano comunque elevate, sfiorando i 40 gradi, e l’interruzione dell’energia elettrica ha prodotto il deterioramento dei cibi nelle abitazioni e nei magazzini della città. Il danneggiamento con esplosivo di condutture d’acqua e dello stesso sistema fognario produce problemi igienico-sanitari non indifferenti, producendo tuttora una situazione in emergenza assoluta e di pericolo per la comunità. “Nelle strade - prosegue il rapporto -  l’odore è insopportabile per fuoruscita di gas da tubi divelti, cibo avariato, animali morti, immondizia non ritirata”. Dai familiari delle vittime la delegazione ha raccolto le testimonianze di alcuni uccisi. Abdul, cardiopatico, è morto per un attacco di cuore durante il bombardamento della sua abitazione, due donne di 35 e 17 anni Mașallah e Zeynep sono morte insieme a un bambino di 11 mesi, colpite dai cecchini mentre rincasavano sono morte dissanguate.

Anche un’altra donna, la cinquantaduenne Meryem, è deceduta per le ferite: colpita da schegge d’una bomba lanciata dai soldati non ha avuto soccorso poiché è stato impedito l’arrivo dell’ambulanza. Medesima disgrazia che ha colpito Sait, studente di 16 anni, il cui corpo, attraversato dal proiettile sparato da un cecchino, sanguinava per sei ore prima di giacere esanime. Alla famiglia veniva vietata la sepoltura, pena altre sparatorie indiscriminate e omicide. Se i comunicati dell’esercito parlano di 32 miliziani del Pkk uccisi, i dati raccolti dalla delegazione degli avvocati dell’Eldh parlano anche di uccisioni di donne, giovani e alcuni anziani. Ne sono stati contati 26 e oltre duecento feriti, tutti costoro erano disarmati tanto che l’équipe di avvocati lancia l’accusa di vere esecuzioni sommarie. Gli assalti sono stati condotti via terra con l’uso dei Panzer Kobra e via aria tramite elicotteri Leopard. Utilizzate anche armi pesanti ad ampia gittata con cui dall’alto di alcune abitazioni “conquistate” dai corpi speciali si sparava ad ampio spettro sui tre quartieri citati. Il rapporto lancia un monito alla politica interna affinché sia aperta un’inchiesta che individui dirette responsabilità esecutive e decisionali, alla Comunità Internazionale che deve esaminare prove e testimonianze raccolte e, secondo la Carta dell’Onu, proteggere le popolazioni locali da crimini di tale natura.