giovedì 10 settembre 2015

Elezioni turche, la guerra di Erdoğan

Non si può dire che i Lupi grigi, o gli attivisti del kemalismo più feroce, e quelli dell’Islam politico, plasmati un tempo da Erbakan e poi da Erdoğan, familiarizzino facilmente. Anzi. Tendenzialmente laici i primi, oppure credenti secondo quel soggettivismo privato indicato da Atatürk, investiti d’una religiosità pura e totale, vissuta nelle scelte quotidiane, gli altri. Già con le formazioni disciolte dai militari nel 1971 e dopo il golpe del 1980 i teorizzatori dell’Islam turco chiamavano il loro partito del “Benessere”, della “Giusta via”, sino a giungere al vincente “Giustizia e sviluppo” e mostravano intenti populisti e interclassisti. E al tempo stesso un mai celato nazionalismo che li aiutò a superare le ripetute persecuzioni collettive e personali scatenate contro di loro dalla casta militare. Un elemento riusciva facilmente a rilanciarne le velleità politiche: il senso di Patria con la maiuscola, grazie al quale facevano della nazione turca un patrimonio genetico facilmente spendibile su ogni piazza e latitudine. Perciò dopo divieti e scioglimenti spuntava una rigenerazione che vedeva l’Islam turco interloquire con ogni ceto sociale. E quando, dalla fine degli anni Novanta, la direzione di quest’area politica passò all’intraprendente e motivata generazione dei Gül ed Erdoğan taluni orientamenti precedenti cambiarono rotta.
Islam sì, ma niente antioccidentalismo e antimodernismo, cosa che da subito piacque molto al Pentagono e alla Nato che sui generali anatolici e sulle loro basi aeree continuavano a investire tantissimo per il controllo dell’urente scacchiere Mediorientale. Dall’inizio del Millennio l’ascesa e le fortune dell’Akp e del modello erdoğaniano continuano a poggiare sul piedistallo conservatore del suo predecessore e trovano nel nazionalismo l’elemento con cui quel partito ha ricevuto voto e consensi anche da famiglie precedentemente vicine al kemalismo. Ecco un comune denominatore che in questi giorni avvicina i seguaci dell’Akp e del Mhp nel bruciare le sedi del Partito democratico del popolo, nell’inseguire e picchiare i suoi militanti, nell’umiliare, linciare, uccidere uomini e donne kurde sotto il vago sguardo delle forze dell’ordine. Una storia antica e recente fatta di assassini, persecuzioni, deportazioni esaltate negli anni Ottanta e Novanta, soprattutto nel fascismo che albergava fra militari di professione e quelli di aspirazione, come sono i Lupi Grigi. Eppure durante il suo secondo mandato l’allora premier Erdoğan ha usato tattiche d’apertura verso candidati indipendenti (docenti universitari e uomini di cultura, rappresentanti industriali, businessmen e women); ai kurdi del sud-est prometteva spazi d’autonomia e autogoverno, mentre fra il 2010 e 2012 su suo input il capo degli agenti del Mıt preparava la via ai colloqui di pace col leader incarcerato Öcalan.
E allora da dove viene la follìa esplosa da due mesi a questa parte, rinfocolata dai discorsi nient’affatto pacificatori del presidente? Viene da lontano. Chi segue le vicende turche interne e internazionali conosce le manìe di grandezza e l’avventato determinismo con cui Erdoğan ama muoversi, col consenso di chi, anche nelle alte sfere, lo segue ciecamente e contro chi gli indica differenti passi. Dal durissimo contrasto coi vertici delle Forze Armate e la magistratura (per promuovere uomini del suo entourage o comunque fedeli alla sua linea) a quello con amici diventati freddi e distaccati (Gül) o acerrimi nemici (Gülen); passando allo scontro coi giovani metropolitani per Gezi Park, ai giri di walzer sulla scena internazionale con cui ha dato solidarietà a Gaza additando le criminali azioni d’Israele, alla tolleranza e supporto ai ribelli anti Asad, miliziani dell’Isis compresi. Ultimo, ma non certo secondario, il progetto d’un presidenzialismo cucito sul suo immenso potere personale e clanista. Gioco non diverso da altri autocrati, benedetto comunque da passaggi democratici, elezioni, Parlamento. E’ con l’intoppo dello scorso giugno che quest’ultimo ingranaggio s’è bloccato, e da lì proviene l’escalation della violenza che dalla strage dei volontari pro Kôbane a Suruç ha preso un’accelerazione pericolosissima. Perché oggi si brucia e s’ammazza  come nei periodi più neri della storia di quel Paese. Ieri altre trenta vittime nella marcia promossa dal partito filo kurdo a Cizre.
Dal 7 giugno il ‘sultano’ non ha più certezze e con questo clima d’assedio cerca un riscatto che nella normalità non verrebbe. I sondaggi per le elezioni del 1° giugno vedono tutte le forze d’opposizione stabili o in crescita. Proprio l’Mhp e l’Hdp potrebbero addirittura aumentare le buone percentuali registrate a giugno; entrambi con gli attuali 80 deputati ciascuno impediscono all’Akp di volare alto e occupare quella maggioranza di seggi che riproporrebbero il monocolore islamista e soprattutto il cambiamento unilaterale della Costituzione. Indiscrezioni sostengono che lo stesso premier Davutoğlu sia stato intralciato dal presidente nei tentativi di formare un governo di transizione. Erdoğan e i fedelissimi puntano tutto sulle elezioni in un clima agguerrito, affermando di voler combattere terrorismo, caos interno e stasi economica. Per ottenerlo i passaggi diventano: un Hdp intimidito nel poter svolgere una campagna elettorale regolare o peggio una sua esclusione in quanto accusato di fiancheggiamento dei guerriglieri del Pkk. Un imbavagliamento dell’informazione sgradita che ha trovato nel Doğan group e nel gülenista Koza Ipek, capri espiatori da azzittire, così da preservare da qualsiasi dissenso e pensiero critico un elettorato che per l’80% è orientato dai media. E nella corsa al tutto per tutto in chiave autoritaria che sdogana i massacri, c’è chi non esclude un avvicinamento erdoğaniano proprio al Milliyetçi Hareket Partisi di Bahçeli. Un realismo politico diabolico per multietnicità, democrazia e vita.

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