lunedì 24 aprile 2023

Elezioni del centenario nella patria turca

 


Pianifica il futuro in casa, prima che nel Paese, Kemal Kılıçdaroğlu l’anti Erdoğan del ‘Tavolo dei sei’, l’alleanza che alle elezioni del 14 maggio sogna di spezzare il ventennio di potere dell’Akp. Così, per tener buoni i sindaci di Istanbul (İmamoğlu) e Ankara (Yavaş), due vincenti alle amministrative 2019 cui non ha concesso la palma di candidato alla presidenza imponendo se stesso, gli promette un contentino in caso di successo. Rispettivamente la gestione dell’emergenza terremoto e delle politiche sociali. Entrambi schivi e allineati accettano e si fanno fotografare al tavolo col grande alevita convinto di battere l’attuale presidente. Nel corso delle reiterate successioni al ministero del Tesoro i sondaggi autunnali davano Erdoğan sotto di parecchie lunghezze. Anche nei primi drammatici giorni del sisma, con migliaia di crolli di edifici che non contavano neppure un decennio e avevano spezzato migliaia di vite, il governo appariva in grave difficoltà. Ma pur fra i ritardi la macchina dei soccorsi, statali e privati, partiva. Ci sono state polemiche e denunce di boicottaggio di Ong estranee all’area governativa, la più famosa AHBAP della popstar Haluk Levent, poi le braccia si sono unite al soccorso, nonostante i numeri dello strazio (oltre 50.000 vittime), quelli della catastrofe (circa 2 milioni di sfollati, di cui la metà bambini), quelli del bisogno per la ricostruzione (40 miliardi di dollari) fanno tremare i polsi. Non ai politici, che da ogni versante promettono una rapida soluzione delle criticità e invitano i turchi a votarli, compresi gli elettori delle tendopoli. Si prevede che più della metà di costoro non lo farà, un fattore che aggiunge incognita a incognita.  Perché da una parte si dice che quel voto avrebbe abbracciato la protesta antigovernativa a causa dei mancati controlli e delle collusioni di amministratori locali verso i costruttori senza scrupoli. Dall’altra c’è chi parla d’un recupero dell’Akp grazie alla promessa di avere una casa entro un anno, questo ha affermato Erdoğan per convogliare consensi alla sua rielezione. 

 

Frattanto Toki, Toplu Konut İdaresi Başkanlığı, l’agenzia statale che s’occupa degli alloggi ed è sostenuta dall’esecutivo, fa vanto dei  130.000 palazzi di sua edificazione che hanno mantenuto le fondamenta ben salde nel terreno anche lì, come a Kaharamanmaraş e Hatay, il suolo s’è aperto sotto le scosse di 7.9 gradi della scala Richter. Nella giostra elettorale basata su promesse e meriti acquisiti i duellanti alla presidenza e nel Maclis dovrebbero avere il buon gusto di non attribuirsi la gestione di Toki, che peraltro non è stata sempre proba, perché trattasi d’una partecipata dove manager e tecnici vengono nominati dai governi in carica. Questi, nell’ultimo ventennio, rispondono all’Akp e al patto fra Partito della Giustizia e Movimento nazionalista, ma quando nel 1984 l’agenzia venne fondata quegli incarichi partivano dai premier dell’epoca fra cui c’erano anche repubblicani. Insomma molto dell’odierna Turchia è legata al modello che l’ha preceduta e la polarizzazione, cresciuta in tempi recenti, è un tratto storico  della nazione. Sono cambiate sigle e attori non orientamenti, specie riguardo alla sfera economica. Così l’iper attivismo governativo in campo edilizio e di opere pubbliche aveva fondamenta, è il caso di dirlo, durante le scelte liberiste di Turgut Özal. Non solo. Poiché la storia finanziaria è ciclica, fasi espansive e recessive, si succedono da decenni, con tanto d’inflazione, carovita, disoccupazione. Tutto ciò non giustifica il presente con cui l’attuale popolazione fa i conti, ma talune fasi sono state sottoscritte da statalisti repubblicani, liberisti in cerca di nuove vie, islamisti che hanno preceduto Erdoğan. Anche bandiere d’appartenenza, quella alevita di recente sventolata da Kılıçdaroğlu a sostegno d’una minoranza emarginata, hanno già scosso in altri momenti la vita interna. Nel 1978 nella Kaharamanmaraş ora frustata dal terremoto, gli aleviti subirono un terribile strascico di pogrom. Furono sterminati in cento per mano dei Bozkurtlar,  i Lupi grigi, al servizio della Gladio mondiale che organizzava colpi di Stato e stragi. Egualmente venivano assassinati, nel silenzio del kemalismo repubblicano, 230 lavoratori il Primo maggio 1977 a piazza Taksim e svariate centinaia di militanti marxisti per tutto quel decennio. Era una Turchia gendarme Nato, tanto carezzata Oltreoceano.  
 

 
 

giovedì 20 aprile 2023

La via tunisina alla repressione

 

Facendo arrestare Rached Ghannouchi alla non più tenera età delle ottantuno primavere, l’attuale uomo forte tunisino Saïed vuole incatenare un simbolo, quello dell’Islam politico. Che ha di certo gestito male, sia al governo sia nelle piazze, la ribellione del 2010 con Bouazizi immolato nel fuoco e il popolo che si ribella al clan dell’autocrate e ladro Ben Ali, ma che ha mantenuto una presa sull’elettorato. Nonostante tutto: la deriva fondamentalista, il copioso reclutamento di combattenti da parte di frange jihadiste, il ritorno al potere, col mandato presidenziale del vecchio Essebsi che era stato per decenni al servizio di Bourguiba, dei nuclei faccendieri. E la successiva navigazione a vista fino alle secche del colpo di mano di Saïed, senza che però nessuno risolvesse la disperante trìade di: assenza d’investimenti, disoccupazione, livellamento delle diseguaglianze. Sono essi a generare il dramma migratorio punto affligente dell’altra sponda del Mediterraneo (Italia in testa) affannata dagli effetti e incurante delle cause, come l’intera comunità internazionale oggi carezzevole verso Saïed come lo è stata con Essebsi e Ben Ali. Al suo interno la piccola Tunisia riproduce con forme più morbide ma ben radicate la spaccatura presente in altre Repubbliche nordafricane, a cominciare dall’Egitto. Un mondo laico timoroso delle organizzazioni islamiche, siano la più recente Ennahda o quelle storiche della Fratellanza Musulmana, che vengono osteggiate e scalzate anche quando vincono le elezioni e guidano il Paese. L’arresto dell’anziano e malandato Ghannouchi segue quello d’una ventina di oppositori con cui mister Robocop - il sessantacinquenne presidente che due anni addietro umiliò le Istituzioni e sciolse il Parlamento per farsi successivamente eleggere da neppure il 20% dell’elettorato - reitera in maniera per ora meno sanguinaria quel che fece il generale egiziano Al Sisi: stragista nell’agosto 2013 davanti alla moschea cairota di Rabaa (si contarono fino a duemila militanti assassinati a colpi d’arma da fuoco), persecutore dapprima degli islamisti della Brotherhood ma non del fondamentalismo salafita, quindi di sindacalisti e di quei socialisti e attivisti laici che avevano criticato la presidenza Morsi. 

 

I democratici tunisini possono sperare che Saïed non raggiunga il record repressivo del presidente golpista d’Egitto che da un decennio ha rinchiuso oltre sessantamila cittadini nelle carceri speciali delle Forze Armate, ha fatto sparire e assassinare centinaia d’individui, fra cui il ricercatore italiano Regeni, ma di fatto la canea ideologica contro l’organizzazione politica islamica ha matrici comuni. E la visione sistemica laica di orientamento progressista o conservatore, che s’oppone a un para-confessionalismo inseguito dai politici islamici che trova nel nodo di leggi da mettere in relazione alla Shari’a l’ostacolo principe per un confronto paritario, finora ha seguìto scorciatoie che sfociano nella demonizzazione dell’avversario e nella sua repressione. Se parte delle dispute ruotano attorno a questioni di primaria importanza come la concezione del ruolo femminile e delle opportunità di genere nella società, ben al di là delle norme su abbigliamento e obbligo del velo, e sulla concezione dei diritti civili, gli esecutivi del “laicismo armato” su questi temi hanno mostrato in varie circostanze un approccio simile se non comune. La contrapposizione è quasi sempre legata a ragioni d’interesse e di potere più che a elementi culturali e di credo religioso, anche perché l’islam resta la fede di riferimento per gli stessi carcerieri Saïed e Sisi. Dunque tanta ideologia e poco pragmatismo da parte di tutti. Fattore non nuovo che, solo per restare agli ultimi tempi, ha spinto molta gioventù insoddisfatta a cedere alle lusinghe del reclutamento islamico armato, ingaggiato nelle file dei foreign fighters dell’Isis, per scelta di campo e pure per parcelle mercenarie. Invece per risalire a un trentennio fa ha prodotto scempi nella sanguinosissima guerra civile algerina. Tanto, se non tutto, perché il Fronte islamico di salvezza che vinceva le elezioni nel 1991, subendo lo scippo del successo e nel giro d'un mese il giogo del golpe militare, non finiva in toto fra le file del Gruppo islamico armato, organizzato nei tre anni seguenti. L’eredità di quel decennio nero furono 150.000 vittime e un milione di sfollati. Eppure sembra essere servito a poco. 




sabato 15 aprile 2023

Tunisia, calciatore a fuoco come Bouazizi

 


Poco più di cento chilometri in linea d’area separano le località tunisine di Haffouz e Sidi Bouzid. Lungo le vie asfaltate il percorso è maggiore, gli spazi semideserti e polverosi bruciati da mesi di siccità, le esistenze difficili, specie negli ultimi due anni d’inflazione e repressione. Ad Haffouz lunedì scorso un uomo, Nizar Issaoui, s’è dato fuoco. E ieri è giuntala notizia, tragica, del suo decesso. Il gesto è una protesta estrema che fa venire alla memoria – anche per l’ampia eco che ebbe all’epoca e per quello che innescò – l’azione dell’ambulante Mohamed Bouazizi che a 26 anni si diede fuoco contro la polizia di Ben Ali che gli sequestrava la merce perché privo di licenza commerciale. A Mohamed il fuoco segnò inesorabilmente il corpo, alla società tunisina funse da scintilla per far divampare la ribellione socio-politica che nelle settimane seguenti cacciò il raìs Ben Ali ed espanse le proteste nel mondo arabo. Nizar all’epoca aveva un anno meno di Mohamed, venticinque, non sappiamo se partecipò alle tumultuose manifestazioni che lanciarono le cosiddette ‘primavere’ travolte e tramontate in molti Paesi islamici. Nella vita lui ha fatto altro, giocando al calcio è riuscito a raggiungere la massima serie tunisina, che non è lucrosa come quelle del Gotha calcistico europeo o sudamericano, ma è pur sempre un’occupazione pregiata rispetto a vendere frutta senza licenza. Il destino ha voluto che sulla frutta, un chilo di banane, che il rivenditore proponeva a 10 dinari  triplicandone il prezzo ordinario, Nizar abbia innescato le  rimostranze sino a finire davanti a una stazione di polizia. Evidentemente il suo status non era proprio benestante. 

 

Lì la tensione è cresciuta a tal punto che Issaoui è stato accusato di azione terroristica. Incredulo ha continuato a contestare e, prima che gli agenti giungessero ad arrestarlo, s’è dato fuoco, forse emulando Bouazizi. Anche per lui l’effetto è stato drammatico: le ustioni non gli hanno dato scampo ed è deceduto. La morte ha spinto in strada decine di giovani che hanno assediato la stazione di polizia lanciando pietre e sono stati respinti con lacrimogeni. Da mesi lo stress nel Paese è altissimo. La presunta “cura” inventata dal presidente Saïed - che un anno fa gli è valsa solo una trasformazione della Carta Costituzionale in funzione iper presidenzialista con cui ha limitato i poteri del Parlamento a favore del suo ruolo - è stata seguita da un progetto autoritario sulla “sicurezza nazionale”. Grazie al quale Robocop (così Saïed viene definito per la sua propensione allo stato di polizia) sta attuando una sequela di arresti verso figure d’ogni genere. Ultime vittime: l’imprenditore Eltaïef, Jelassi uno dei leader di Ennadha, il direttore della radio Mosaïque, Noureddine Boutar. Davanti a un clima repressivo che non conosce confini non si facevano eccezioni per il calciatore Issaoui, applicando l’equazione: protestatario uguale a terrorista. Cercando di cavalcare una recente fase in cui s’è anche diffusa la diceria d’una malattia che l’affliggerebbe, peraltro subito smentita dal suo staff, il presidente ha cercato d’intervenire da par suo sulla questione dei flussi migratori che attraversano il Paese. Dallo scorso autunno i porti di Sfax a sud, Biserta a nord e pure Tunisi sono diventati gli avamposti per il salto verso l’Italia o Malta di centinaia d’imbarcazioni della fuga migratoria. 

 

Su quei natanti di fortuna viaggia una gran quantità di gente proveniente dall’Africa profonda, ma tentano la traversata anche tanti giovani tunisini afflitti da disoccupazione e assenza di futuro. Mister Robocop braccato dagli omologhi dell’altra sponda del Mediterraneo, Meloni in testa, interessati a bloccare quelle partenze, ha stigmatizzato la presenza di troppi subsahariani nel proprio Paese e ha denunciato un pericolo di sostituzione etnica (sic). A tali dichiarazioni erano seguiti atti di violenza fisica verso i migranti, realizzati dalle stesse forze dell’ordine alla maniera razzista già conosciuta in territorio libico. Organismi umanitari internazionali avevano inoltrato proteste alle autorità tunisine e al presidente medesimo senza ricevere riscontri. Intensa, invece, l’iniziativa rivolta agli incontri istituzionali col governo italiano e coi rappresentanti del Fondo Monetario Internazionale che ha promesso un aiuto che s’aggira sui due miliardi di dollari. La contropartita sarebbe una riforma di cui a tutt’oggi non si vede alcun contorno poiché la fobìa liberticida di Saïed fa terra bruciata non solo nei confronti dell’intera opposizione che ha boicottato le elezioni di dicembre (ha votato il 20% dell’elettorato) ma, come accennavamo, anche verso elementi dell’imprenditoria e della comunicazione. Il Paese,  bisognoso di capitali per risollevare una disoccupazione che supera ampiamente il 30%, non trova investimenti né fra gli “amici” occidentali tanto attivi all’epoca dei Bourghiba e Ben Ali, né fra i solventi emiri dei petrodollari che guardano altrove. E il fuoco che ha devastato la cute del calciatore Issaoui, finito suicida come Bouazizi, può aggirare l’autolesionismo e scatenarsi altrove.

venerdì 14 aprile 2023

Turchia, un mese di volata elettorale

 


I magnifici quattro delle elezioni del centenario turco si mettono in fila sulla scheda. Due volti sono noti, uno addirittura idolatrato oppure odiato, è il presidente uscente Recep Tayyip Erdoğan, cui fa eco lo sfidante maggiore, il segretario del partito repubblicano Kemal Kılıçdaroğlu. Fra i restanti Muharrem İnce ha conosciuto un momento di notorietà guidando nel 2020 una sorta di ribellione al narcisismo di Kılıçdaroğlu al quale contestava la reiterata centralità personalistica nel Chp. Di quel partito İnce era membro, s’era anche presentato alle presidenziali del 2018 senza molta fortuna. Oggi entrambi si ritrovano candidati per la massima carica e ritentano la sorte. Il quarto uomo, poiché nessuna donna è stata premiata con una candidatura, è l’azero Sinan Oğan, proviente dal partito di estrema destra Mhp, da tempo alleato fedele dell’Akp erdoğaniano. Oğan col partito d’origine ha conti in sospeso: nel 2015 fu espulso, fece causa e la vinse tanto da essere reintegrato nel gruppo per venire successivamente ancora una volta cacciato. Col dente avvelenato ha presentato la candidatura alla presidenza sostenuto da 100.000 firme e completa la quadriglia. Oğan nutre vendette personali e, ben sapendo di non poter aggiungere neppure uno zero alle sei cifre che l’hanno condotto al fianco di chi aspira alla guida della nazione, può fungere da guastatore togliendo voti agli ex amici lupi grigi orientati su Erdoğan. Per indispettire ulteriormente il suo fronte sta coadiuvando Kılıçdaroğlu nel sostenere la teoria dei ‘brogli indiretti’. In una conferenza stampa incentrata sulla “sicurezza elettorale” i due hanno denunciato alcune anomalie. La prima è l’incongrua presenza di siriani, afghani, pakistani nelle liste degli elettori, non è chiaro se si tratti di rifugiati che hanno preso la cittadinanza turca e dunque sono ammessi nei seggi  oppure siano stati scritti indebitamente. 

 

La seconda particolarità riguarda i terremotati, oltre un milione e mezzo dei quali non sono registrati nelle sezioni pur provvisorie che vengono allestite nelle aree colpite dal sisma del 6 febbraio scorso. Per la cronaca stanotte è stata registrata l’ennesima scossa: 4.3 di magnitudo nel distretto di Sincik. A detta dei candidati in questione il Consiglio Elettorale Supremo è chiamato alle verifiche e ai provvedimenti del caso. Erdoğan e il suo staff non hanno neppure sfiorato questi temi, sono concentrati nel divulgare il progetto secolare della Turchia, quello del Duemila da affiancare al centenario della nazione di Atatürk. Un piano rivolto alla Vatan del futuro sempre più proiettata nella geopolitica mondiale ben oltre il Medio Oriente, nonostante le difficoltà economico-finanziarie interne. Su cui comunque le ricette del ‘Tavolo dei sei’ d’opposizione all’Akp e al presidente uscente paiono alquanto vaghe. Ancora una volta l’alleanza Nato fa tenere in conto la Turchia come soggetto forte e necessario alla pianificazione della sicurezza strategica. E’ una carta che Erdoğan non si fa sfuggire, e sul terreno securitario raddoppia rinfacciando alla coalizione che lo contrasta l’accordo col filo kurdo Partito Democratico dei popoli i cui vertici propendono per riversare il voto della numerosa comunità sui candidati laici. Nei primi comizi il refrain di Erdoğan è stato: “Questa organizzazione terroristica (tale viene considerato l’Hdp, ndr) è un partner dell’alleanza d’opposizione. La mia gente saprà spezzare il complotto”. L’orientamento di voto dei numerosi elettori kurdi resta sicuramente la variabile con cui fare i conti, specie se il presidente uscente non conseguirà una rielezione al primo turno, quindi con più del 50%. L’eventuale ballottaggio è previsto dopo due settimane, lui confida nella dispersione altrui e nel sostegno, oltreché dei milioni di fedelissimi,  anche di casate islamiche. Il figlio di quello che negli anni Novanta fu mentore di Erdoğan - Erbakan - aderisce all’alleanza con l’Akp col suo partito Yeniden Refah. Mentre il partito islamista kurdo Huda Par non ha schierato alcun candidato proprio. Il presidente dell’odio e amore conta nel loro appoggio.

mercoledì 12 aprile 2023

Afghanistan talebano, il volto del realismo

 


Qual è la spesa maggiore per l’Emirato afghano? Gli affari interni, intesi come apparato della pubblica sicurezza per il quale l’attuale governo di Kabul ha stanziato nel primo trimestre di pianificazione degna di questo nome (dicembre 2021-marzo 2022) 105 milioni di dollari. Si saranno quadruplicati a fine anno? Non è dato sapere perché la cifra raccolta e divulgata da un network locale che ha rapporti coi turbanti è limitata a quel trimestre. Rappresenta, comunque, una significativa finestra per comprendere come sta agendo il gruppo dirigente talebano che guida le sorti di 38 milioni di afghani. Rispetto alla situazione del primo Emirato (1996-2001) le condizioni di fondo sarebbero meno problematiche. Allora la nazione usciva da una logorante guerra civile e nessuno s’era preoccupato di gestire la cosa pubblica. La presa del potere nell’agosto 2021 è avvenuta dopo il ventennio di occupazione straniera durante il quale un sistema statale era avviato. Certo, con l’apporto claudicante di governi fantoccio, i traffici dei signori della guerra piazzati in posti di comando, affarismi d’ogni sorta e conseguenti sprechi di denaro poco o nulla investito per pubblici servizi e soprattutto per alleviare l’esistenza dei ceti meno abbienti, una corruzione dilagante a ogni livello della vita politica. Però non si era all’anno zero come quando il mullah Omar portò le proprie milizie nella disastrata capitale. Oggi egualmente figure inquietanti come Sirajuddin Haqqani, che riveste l’incarico di ministro della Difesa, sono presenti ai vertici del secondo Emirato, ma i ventisette anni perduti per cercare libertà, giustizia, autodeterminazione partono da presupposti diversi. Il maggior problema dell’attuale amministrazione afghana riguarda, come s’è detto in più occasioni, la finanza, meno corposa del ‘tempo americano’, sebbene i famigerati duemila miliardi di dollari spesi in quella fase hanno nutrito solo l’apparato esterno e interno delle missioni Nato. Dopo il 15 agosto 2021, oltre a congelare i fondi afghani all’estero (9.5 miliardi di dollari), la comunità internazionale ha azzerato il flusso degli aiuti, umanitari e non, che sorreggevano uno Stato economicamente fantasma. 

 

Anche molte Ong straniere hanno ridotto investimenti e iniziative, talune per le pressioni politiche dei governi di riferimento che non vogliono offrire alcun riconoscimento politico e giuridico a un gruppo di potere irrispettoso dei diritti umani e di genere. Ciò nonostante agenzie delle Nazioni Unite proseguono, pur con flussi ridotti, a elargire denaro, altro giunge a Kabul da canali non occidentali. Non parliamo di quegli investimenti da anni in corso d’opera verso le ricchezze del sottosuolo che arricchiscono colossi come China Metallurgical Group Corporation e il clan Karzai che sottoscrisse quei contratti, bensì di quote che le monarchie islamiche del Golfo elargiscono a piene mani, assestando prebende e ricevendo favori geopolitici. Tornando alle statistiche raccolte dall’Afghanistan Analysts  Network, il secondo ministero afghano più finanziato è quello della Difesa, seguito da quello dell’Educazione e nel trimestre di cui i ricercatori hanno ricevuto i dati, la distanza fra le cifre risulta minima: 101 milioni di dollari al primo, 97 milioni al secondo. Per la cronaca il ministero della Salute prevedeva 15 milioni di dollari a trimestre. Ma come? si dirà, si finanzia un dicastero il cui scopo si tende a  boicottare attraverso la chiusura delle classi superiori femminili, dismesse sin dalla primavera 2022 con l’alibi della mancanza delle divise per le studentesse. Eppure i denari c’erano, venivano utilizzati per altro. Pagare gli stipendi dei dipendenti, compresi gli insegnanti anche se poi restavano inoccupati. Nel documento non si evince che questo sia accaduto in ogni provincia, fra l’altro il personale femminile anche nel settore dell’istruzione ha registrato una grossa contrazione occupazionale. Però l’orientamento a non far mancare lo stipendio ai dipendenti pubblici (situazione verificatasi nei primi caotici mesi dopo la presa del potere) diventa un fattore di stabilizzazione sociale. Ovviamente il problema è trovare i fondi. E in assenza delle entrate occidentali, la svolta d’una tassazione di talune attività comunque presenti, legate al commercio d’ogni tipo, sino ad arrivare a quelli lucrosissimi del traffico di stupefacenti e di esseri umani. Insomma i taliban, fanno trafficare però riscuotono entrate utili a tenere botta per un minimo di equilibrio parastatale.

 

Nell’ultimo bilancio stilato dal governo Ghani, prima di fuggire negli Emirati Arabi Uniti con un cospicuo gruzzolo, i due terzi erano rivolti ai costi di gestione e un terzo allo sviluppo. Salito al comando il gruppo di Akhundzada ha tagliato centinaia di progetti programmati dai documenti trovati nel palazzo presidenziale sicuramente per incompetenza, ma pure per mancanza di dollari. Oddio, tanti progetti previsti sotto la Repubblica Islamica con tanto di annuncio enfatico nei Parlamenti dei governi occidentali alleati di Ghani, restavano sulla carta. Non vedevano luce per vincoli di sicurezza, ritardi burocratici, sviste amministrative, ammanchi da corruzione. Non riguardavano tanto e solo scuole e ospedali, prevedevano dighe e distribuzione di elettricità. L’Afghanistan Railway Autorithy ha conosciuto per anni un trasporto ferroviario circoscritto alla trentina di chilometri che separano Aqina e Andkhnoy, piccole località sul confine turkmeno. Cosicché tutta la prosopopea con cui, non all’avvìo di Enduring Freedom ma nel corso di Resolute Support missione subentrata dopo tredici anni dal fatico ottobre 2001, la propaganda della rinascita afghana parlava d’infrastrutture ferroviarie continuando a basarsi sulle reti dell’epoca di Re Amanullah (siamo nel 1920). Il cinico realismo talebano ha tagliato le uscite del ministero degli Affari Femminili, semplicemente abolito e sostituito da quello della Virtù che probabilmente pesca fra i 123 milioni di dollari (sempre trimestrali) assegnati a ministeri vari uniti a corpi e strutture non meglio identificati. Mah… E’ chiaro che la virtù dei coranici è funzionale alla Shari’a e dintorni. E poiché tutto il mondo è Paese, nei progetti c’è anche una sorta di agevolazione per “Kabul capitale”. In essa s’includono scavi di canali di drenaggio, rifacimento e ampliamento di strade persino nel deprecato (dai fondamentalisti) quartiere occidentale di Dasht-e Barchi, sventrato da cento attentati contro gli hazara che lo abitano in maggioranza.

giovedì 6 aprile 2023

Punjab pakistano: l’offensiva dell’ex premier

 


C’è un altro 14 maggio elettorale oltre a quello turco. L’ha raggiunto, a seguito d’una sentenza della Corte Suprema, il premier pakistano defenestrato, quell’Imran Khan da un anno in lotta per tornare alle urne. E al potere. Voleva consultazioni nazionali, bloccate al 2024, ha strappato quelle delle province del Punjab e Khyber Pakhtunkhawa, governate dal suo partito che da qualche tempo aveva sciolto i Consigli assembleari. Dunque si voterà il mese prossimo, non in autunno come auspicavano gli avversari della Lega Musulana-N. Il Punjab pakistano, coi suoi 110 milioni di abitanti (al 98% islamici, poi si contano due milioni di cristiani, 200.000 hindu, 158.000 ahmadiyya) rappresenta di per sé la metà della nazione, e questo voto è molto più d’una cartina al tornasole per le sorti politiche future. Emarginato, perseguitato (tale è l’immagine che ne danno i fedelissimi), ferito in un attentato Khan si riprende quella centralità messa in dubbio fino a qualche settimana fa quando, assediato dalla polizia nella sua lussuosa villa di Lahore, ha rischiato l’arresto per aver ‘attentato alla sicurezza nazionale’. Contro l’attuale esecutivo rilanciava le marce di protesta già messe in strada nei mesi scorsi. Una gran fetta di popolo sta continuando a prestargli sostegno, opponendosi come uno scudo umano alle forze dell’ordine che lo braccavano. Il governo Sharif ha desistito dallo scontro aperto e ora sulla questione delle elezioni locali la magistratura gli ha dato ragione. Così il partito di Khan, Pakistan Tehreek-e-Insaf, pregusta un copioso successo. Di nemici l’uomo ex (ex campione sportivo, ex seduttore, ex premier) se n’è fatti parecchi dal fulgido 2018, l’anno della salita alla guida del Paese. Uno in particolare, il potentissimo generale Bajwa, come nei classici manuali della vischiosità politica gli era fortemente amico. A tal punto che Khan premier si spese per un proseguimento  dell’incarico al vertice dell’esercito, prolungandone per un  anno la carriera destinata al pensionamento. Quell’anno, il 2021, è diventato un boomerang perché fra i due sono nati e si sono ingigantiti  dissapori per ragioni di corruzione, pane quotidiano nello strapotere della lobby militare locale, e anche del sistema partitico pakistano. Le Forze Armate avevano visto di buon occhio il populismo con cui il Pti di Khan irrompeva sulla scena accusando i partiti-clan di Bhutto e Sharif come dispensatori di tangenti, favori, parassitismi d’ogni sorta. 

 

I militari lo sostennero prima d’entrarci rotta di collisione. Gli attuali generali ai vertice della casta, si son tenuti fuori da contrasti e accuse fra Khan e Bajwa, ma nominati come sono stati dal governo in carica non tifano per l’ex premier. Lui ha chiaro d’aver perso la protezione delle stellette e nella campagna elettorale per il Punjab che parte in queste ore, palesa intenzioni belliciste verso la lobby. Dice che il Pakistan deve chiudere l’epoca del sovradimensionato peso dei militari nella vita politica interna, da questo momento il Pti si batterà per una nuova governance perché quel che serve al Paese è un sistema basato sullo stato di diritto. Khan riconosce ai militari un ruolo storico, ma ritiene che serva un equilibrio fra le parti, il ceto politico non può più stare sotto tutela. Afferma che del percorso riformatore s’avvantaggerà la popolazione soffocata da un’economia fortemente deficitaria. Se fino a due anni addietro il capro espiatorio era la pandemia, l’assenza di ripresa è dovuta alla mancanza d’investimenti stranieri. Che non arrivano per due motivi lampanti: l’insicurezza politica, dovuta a una troppo lunga fase di disponibilità del Paese alla cosiddetta ‘lotta al terrore’ capace d’incrementare jihadismo interno e di confine, e l’assenza d’uno stato di diritto nell’ordinamento giuridico. Il Pakistan risulta poco attrattivo per capitali che finiscono in altre aree asiatiche,  tuttora le finanze nazionali continuano a venir foraggiate quasi unicamente dalle rimesse dei milioni di migranti. Si deve voltar pagina: la manodopera interna può essere un punto d’appoggio per incrementare l’esportazione se solo si potesse contare su investimenti produttivi. Questi vanno cercati, smarcandosi in politica estera dall’alleanza statunitense. Per Khan occorre imparare dall’India che commercia indifferentemente con gli Usa e la Cina, mentre ottiene idrocarburi a prezzi convenienti da Mosca, insomma la sua proposta è stare fuori da qualsiasi blocco. Gli basterà il sostegno popolare o, per riequilibrare la perduta benevolenza militare, dovrà cercare i buoni uffici dell’altro Convitato di pietra di Islamabad: l’Inter-Service Intelligence?

 

 

martedì 4 aprile 2023

Quetta-Cutro, vita e morte da hazara

 

La campionessa pakistana morta nel naufragio di Cutro, cui sono stati dedicati diversi articoli dai nostri quotidiani nazionali e locali, e poi da rotocalchi, anche quelli ‘rosa’ delle ragioni del cuore e quelli assetati di sensazionalismo, ha rappresentato un esempio lampante dell’incomprensione del ceto politico italiano verso l’immigrazione. Regolare o clandestina che sia. “La disperazione non può mai giustificare condizioni di viaggio che mettono in pericolo la vita dei propri figli” dichiarava uno dei Mattei nazionali, Piantedosi ministro dell’Interno, fra le accuse dell’opposizione e la carezzevole giustificazione dei colleghi dell’Esecutivo. Sharida Raza, questo è il nome dell’atleta pakistana inghiottita dall’italico mar, il pericolo del figlio l’aveva davanti agli occhi fin dal quarantesimo giorno della nascita, quando il piccino era stato colto da un ictus. La traversata sul malandato caicco le serviva ad alimentare una speranza indomita: cercare nel ricco Occidente cure impossibili nell’originario Belucistan. La donna preparava la strada a un’assistenza futura, purtroppo naufragata insieme a lei. Fino ad allora Sharida non era riuscita a ottenerla, sebbene avesse vestito la maglia della nazionale di hockey prato, uno sport sponsorizzato a Islamabad dal potentissimo esercito. Raza era un’atleta a tuttotondo, praticava con ottimi risultati anche il calcio, aveva gareggiato in competizioni internazionali di kung fu e kickboxing. Aveva l’indole della combattente, nient’affatto intimidita dalle traversie del viaggio e delle condizioni estreme della rotta fra Izmir e la spiaggia calabra anticamera della drammatica fine. Che risulta emblematica per come, anche chi poteva vedersi favorita dall’appartenenza all’élite sportiva, non riceveva aiuti per un espatrio sicuro. A Sharida non sono valse né gare, né vittorie nazionali ed estere e neppure il marchio delle Forze Armate perché era segnata sin dalla nascita dall’etnìa di appartenenza, quella hazara, già normalmente in difficoltà nello Stato pakistano e ancor più nell’area di Quetta. Lì il fondamentalismo islamico perseguita lo sciismo degli hazara marchiato a pelle pure su soggetti magari non così osservanti. 

 

Del resto nei Paesi sedicenti laici, ma sfregiati da un confessionalismo che prospera ed esaspera le menti, non mostrare alcuna fede può diventare più pericoloso di seguirne una minoritaria. Per la famiglia Raza tutto ciò era scontato. Loro nella patria dei taliban pagavano lo scotto del proprio dna: essere hazara equivale a essere sciita, dunque miscredente a detta di quelle madrase deobandi, come la tristemente nota Darul Uloom Haqqania che da decenni forgia intolleranza e persecuzione. Eppure quest’etnìa non è così minuta: le statistiche pakistane la danno a più del 20% dell’intera popolazione, a conti fatti 45-50 milioni di cittadini. Però l’esistenza è grama per chi conduce una vita ordinaria, le opportunità lavorative in questa fase di crisi economica generalizzata scarseggiano per tutti, ma per gli hazara di più. Le giovani generazioni pensano che solo la fuga all’estero potrà offrirgli un domani migliore. Dietro la storia di Shahida e la sua decisione di lasciare il Pakistan c’era la ricerca d’una cura per il figlio, ma si nascondevano altre difficoltà. Le confidano alla stampa locale persone amiche rimaste in contatto con lei fino ai giorni che hanno preceduto il viaggio della speranza e poi della tragedia in mare. La campionessa aveva perso il lavoro quando talune specialità sportive erano state vietate nel dipartimento beluco. Anche donne talentuose e determinate come lei possono cadere in un trattamento discriminatorio ha affermato l'attuale ministro dello Sport e della Cultura del Belucistan che pure appartiene alla comunità hazara. In Pakistan il fanatismo religioso sunnita ha avuto un incremento durante la dittatura militare di Zia-ul Haq, poi i conflitti occidentali della cosiddetta “guerra al terrorismo” hanno prodotto un incremento della militanza jihadista, le tendenze persecutorie e la polarizzazione interna sono cresciute. Chi non si fa trascinare nella spirale del fanatismo, chi cerca di emanciparsi con lo studio e il lavoro cerca altri luoghi per trasformare la sopravvivenza in vita. Affrontando quelle partenze incerte, come hanno fatto Sharida e migliaia di connazionali. Dicono: è un rischio che val la pena di correre.