giovedì 27 febbraio 2025

Trump-Gaza, il sogno del comando

 


Non c’era bisogno dell’Intelligenza artificiale per inventare la Gaza sognata da Trump e Netanyahu, vip papponi, immortalati sbracati a bordo vasca in un passaggio del dibattuto video virale. Basta andare realmente nella Disneyland delle petromonarchie, le metropoli dai grattacieli stratosferici a picco sulle distese di sabbia del deserto e le acque cristalline del Golfo. Arabico, come amano rimarcare gli emiri sunniti, in faccia alla geografia che lo definisce tuttora Persico. Ma tant’è, i luoghi quelli sono. Dubai, Abu Dabhi, Doha, Manama … Eppure le città delle meraviglie, per i ricconi locali e gli ospiti esteri dai denari male guadagnati, e delle afflizioni per i molti  immigrati lì inservienti in una manovalanza iper sfruttata, rappresentano uno scintillio recente, frutto del consumo d’idrocarburi che ha fatto accelerare i motori a scoppio dal boom economico seguito al Secondo dopoguerra. Uno spaccato di taluni angoli e delle loro trasformazioni lo offre lo straordinario lavoro del giornalista e storico Justin Marozzi, nel suo testo “Imperi islamici”.  Un libro da non perdere.

 

“Tutto ebbe inizio da una perla. Più di settemila anni fa – le date sono tanto offuscate quanto sono limpide le acque del Golfo Persico… gli abitanti dell’Arabia orientale intrattenevano rapporti commerciali con i villaggi più meridionali della Mesopotamia… La pesca, inclusa quella delle perle, diventò la principale fonte di reddito di quelle popolazioni costiere isolate. Quel villaggio era Dubai all’inizio del XIX secolo… Il commercio delle perle possedeva un glossario tutto suo. Nell’arabo colloquiale del Golfo la perla era chiamata lulu, dana, hussah, hasbah. Il gioiello più misterioso era la majhoolah, di grandi dimensioni e non particolarmente bella che conteneva talvolta al suo interno una pietra perfetta più piccola… Inondata dai profitti del fiorente commercio di perle negli anni Venti (del Novecento, ndr) Dubai si arricchì e s’ingrandì… Quindi  basato sul credito, che non era più disponibile, il commercio delle perle non poteva funzionare… Tra il 1929 e il 1931 il prezzo  precipitò del 75%... Lo sceicco Said firmò un importante accordo per le esplorazioni petrolifere con l’Iraq Petroleum Company britannica. Alla fine degli anni Quaranta, Dubai inizò a riemergere nell’era moderna… La British Bank of the Middle East aprì i battenti a Deira, sul Creek, in un luogo noto come Times Square, l’edificio si notava per la sua prominente torre del vento sia per il suo gabinetto pubblico più visibile di Dubai… La maggior parte dei gabinetti privati non erano che buchi nel terreno… L’aeroporto fu inaugurato il 30 settembre 1960, con tanto di duty-free, un altro simbolo eloquente della politica del laissez-faire di Dubai… Il dominio globale della Gran Bretagna, praticamente in bancarotta dopo due guerre mondiali, diminuiva tanto quanto cresceva quello americano… Comunque nel 1971 col sostegno britannico vennero creati in tutta fretta gli Emirati Arabi Uniti, Dubai era uno dei sei, poi diventati sette (con Abu Dhabi, Sharjat, Ajman, Umm al Qawayn, Fujairah, Ras al Kaimah, ndr)… Nella graduale diversificazione delle ricchezze derivate dalle entrate petrolifere furono avviate una fonderia di alluminio mentre sorgevano i grattacieli… Il World Trade Center (sì, all’americana, ndr) era una torre di trentanove piani nemmeno dentro da Dubai, sorgeva in una striscia di deserto vuota e infestata dalle zanzare… in seguito la Sheikh Zayed Road, autostrada a dodici corsie, divise due battaglioni di grattacieli in competizione, luccicanti sotto il sole del deserto… Nel 1985 il trentaseienne sceicco Mohammed bin Rashid al Maktum domandò ai suoi colleghi: perché non trasformare la regione in un centro turistico? Ci riuscì. Il parco giochi di arabi e turisti occidentali è stato costruito sulle spalle dei lavoratori più poveri del sud-est asiatico. Un esercito di immigrati pagati una miseria e costretti a vivere in condizioni proibitive, a volte addirittura spaventose, in campi con tanto di guardie armate. Oggi il 71% dei 2,5 milioni di abitanti di Dubai è asiatico… la politica del laissez-faire ha comportato altissimi costi umani… l’intera regione ha attratto un massiccio contrabbando, traffico di armi, tratta di esseri umani, operazioni di riciclaggio, attività che s’intrecciano anche con le reti terroristiche globali…”

 

“Agli ultimi piani del grattacielo con i suoi uffici a West Bay, come un’aquila nel suo nido, il miliardario Sheikh Faisal bin Qassim al Thani, ricorda i primi giorni di Doha… Quando lui era già nato quello era un piccolo villaggio di pescatori di perle, andò avanti così fino al crollo del mercato negli anni Trenta mentre la rovinosa Seconda guerra mondiale portava distruzione anche da quelle parti quando inglesi e tedeschi affondavano qualsiasi nave in tutto il Golfo… Alla fine degli anni Ottanta, le strutture più alte della città erano i minareti. L’unico edificio degno di attenzione era lo Sheraton Hotel, una piramide di quindici piani, costruito in un terreno bonificato nel 1982. Se una volta si stagliava sola sul mare, oggi è messa in ombra da una foresta pietrificata di grattacieli in vetro e metallo, progettati da famosi <archistar>. Spicca tra tutti il Burj Doha (alto 232 metri) costato 125 milioni di dollari e inaugurato nel 2012, interamente rivestito di uno schermo in alluminio e acciaio inossidabile con motivi intricati che fungono da protezione solare; la sua forma fallica corrisponde a quella che i francesi chiamano une virilité pleinement assumé, tant’è che l’edifico fra la gente del luogo è noto come il Preservativo… Sebbene la famiglia al Thani si dica favorevole a un diverso sviluppo urbano, sostenendo strettamente i valori islamici, gli abitanti del Qatar pensano che si stia percorrendo la stessa strada di Dubai… se si lavora a Doha si ha spesso la sensazione di vivere in un gigantesco cantiere…  e tutta la fortuna che fra i confratelli-coltelli scaturisce dai petrodollari nella ‘baia occidentale’ proviene del gas, rafforzata dall’enorme diffusione che dagli anni Settanta questo combustibile ha avuto per l’energia globale… Il più grande giacimento di gas del mondo entrò in produzione nel 1991, generando guadagni favolosi, attirando nuove ondate di migranti, finanziando la continua espansione della capitale… Benedetto da questa svolta geologica del destino, o dalla mano divina di Allah, il Qatar utilizzò le entrate per finanziare una politica estera sempre più assertiva, per guadagnare influenza e prestigio… una politica senza pregiudizi stabilendo relazioni anche fra Stati che fra loro si detestano, da Israele all’Iran… E fra investimenti lanciati all’Occidente come ami, impegno d’alto profilo professionale nella comunicazione col fenomeno Al Jazeera il desiderio di farsi notare, sempre e comunque, è enorme. Chi conosce gli al Thani dice “quando Dubai costruisce un grattacielo, qui sentono di dover fare lo stesso. Quando Abu Dhabi crea il proprio Louvre, idem…” L’emulazione è talmente profonda da percorrere le medesime tortuose vie dei crimini dei vicini, così nella preparazione di uno degli ultimi grandi eventi (ma altri bussano alla porta) i Mondiali di calcio ospitati negli stadi qatarioti, ben cinquecento operai sono morti per assenza di sicurezza nel corso delle edificazioni. Ai lavoratori rimasti in vita dopo quell’appuntamento la magrissima consolazione di salari comunque di fame. 

 

“… Quando il geografo francese Vital Cuinet giunse a Beirut nei primi anni Novanta del XIX secolo gustava l’eterno amore cittadino per una chiacchierata davanti a un caffè e la sua passione per il lusso e l’ostentazione, fra cinquantacinque caffetterie e quarantacinque gioiellerie… Bevitori di caffè, amanti degli acquisti, flàneurs e persone alla ricerca del piacere in tutte le sue sfumature erano irresistibilmente attratti da Sahat al-Burj, la piazza più volte ribattezzata a est delle mura della Città Vecchia che rappresentava il cuore della vita pubblica di Beirut, un luogo di svaghi, attività commerciali, e incursioni opportunamente calcolate nel mondo della sensualità o del più assoluto squallore. Su Sahat al-Burj dominava il frastuono di hotel e caffè, chioschi con orchestrine, imprese commerciali, negozi, sale da gioco, compagnie di trasporto, bar e maisons de tolerance… Il quartiere a luci rosse, sorto alla fine del XIX secolo su at Tariq al Mutanabbi, la strada  adiacente alla piazza che porta il nome del poeta iracheno del X secolo, venne reso in seguito famoso – anche tristemente – dalla straordinaria carriera di Marca Espiredone, che, arrivata senza un soldo a Beirut nel 1912 come un’orfana greca che aveva subito abusi di ogni sorta, divenne prima una prostituta e poi la patrona, ovvero la madame più bella, celebre e ricca della città, proprietaria della leggendaria casa di tolleranza Marica, in cui lavoravano un centinaio di ragazze pronte a soddisfare i desideri degli uomini ricchi e famosi della Beirut degli anni Quaranta e Cinquanta. Con le insegne al neon che reclamizzavano sfacciatamente le migliori offerte di ciascun bordello – Leila, al Chacra la bionda, Antoinette la Francese, Lucy l’Inglese …”

mercoledì 26 febbraio 2025

Öcalan libero e Pkk disarmato

 


Torna alla ribalta, almeno nelle voci riferite dagli analisti, il tema del disarmo del Pkk. Lo patteggerebbe ancora una volta il grande recluso Abdullah Öcalan, autore di colloqui già nei mesi scorsi col maggiore alleato di Erdoğan: il nazionalista Bahçeli. Sì, l’anziano capo dei Lupi grigi, ingrigito anch’egli dagli anni ma sempre in sella e addirittura regista degli incontri segreti col leader kurdo, chiuso da venticinque anni nel carcere di massima sicurezza di İmrali. Il capo nazionalista, in base a un dichiarato  “diritto alla speranza”, baratterebbe la liberazione di Öcalan in cambio all’addio alle armi da parte del Partito dei Lavoratori del Kurdistan. La minestra è riscaldata, perché un simile approccio c’era stato fra il 2010 e il 2012, gestito in quel caso direttamente da un Erdoğan leader dell’Akp e primo Ministro. Era decisamente un’altra epoca per quanto  accadeva nel Paese e dintornio Le stesse strategie del Pkk verso la comunità kurda a lui più prossima, quella turca e siriana, seguivano percorsi che il conflitto in terra siriana orientò in modo differente, anno dopo anno nel crescendo d’un conflitto gonfiato e generalizzato. Fra l’altro la dotazione e l’uso delle armi nei territori controllati dall’emanazione locale del Pkk, il Partito dell’Unione Democratica (Pyd) e le Forze di Difesa Popolare (Ypg), e la contrapposizione rivolta soprattutto alle milizie dello Stato Islamico, imponevano il mantenimento dell’armatismo. La progressione del conflitto, congelato dopo la sconfitta dell’Isis e la caduta definitiva del regime di Asad impongono un panorama interno alla Siria e un altro in Turchia. Oddio, nello scenario siriano, quand’era un apertissimo campo di battaglia, la linea di Erdoğan ha scorrazzato su ogni versante. Dall’aiuto goffamente celato ai gruppi islamisti con forniture di denaro e armi, a un successivo intervento del proprio esercito, in contraltare a quello russo, per gestire tratti di territorio. Al presidente turco, compiacente l’alleato Bahçeli, faceva gioco creare a sud del confine nazionale un’area cuscinetto profonda trenta chilometri per sradicare la presenza armata kurda nel cosiddetto Rojava. 

 

Accadeva dal 2018, quando lo Stato Islamico era piegato, e Asad, tenuto in sella da Mosca e Teheran, restava a controllare la provincia di Damasco. I combattenti kurdi, riforniti dagli Usa restavano in parte a far da guardiani ai luoghi di reclusione degli sconfitti del Daesh e dei loro familiari, come nel mega campo di Al Hol, mentre la maggior parte per evitare la morsa dell’esercito turco si dirigeva ancor più a Levante, in stretto contatto col grande laboratorio dell’addestramento (militare e ideologico) del Pkk posto sulle montagne di Qandil, a ridosso del Kurdistan iracheno. Quell’area puntualmente subisce le vendette dell’aviazione di Ankara, sin da quando all’azzeramento dei colloqui era seguita la grande repressione di terra del 2015-2016 nei territori del sud-est anatolico, o in occasione di agguati esplosivi rivolti a militari e civili, in cui si sono distinti i dissidenti kurdi detti “Falchi della Libertà”. Dopo un congelamento durato sino al 2023, il puzzle siriano è messo a soqquadro dal cambio di passo di Putin totalmente coinvolto in Ucraina e disinteressato a sostenere i soldati di Damasco, dal conflitto di Gaza con cui Israele colpiva anche Hezbollah spezzando il supporto Pasdaran ad Asad, poi spodestato dall’offensiva islamista di Hayat Tahrir al-Sham e dal liquefarsi dell’esercito lealista. Molto si rimescola. Ora al-Sharaa, che vuole rifondare la Siria predicando l’inclusione, propone ai kurdo-siriani di entrare nel nuovo esercito, una mossa cui s’uniscono i piani per la nuova Costituzione, giustizia e libertà personali. Che farà la comunità kurda del sogno del Rojava, caratterizzata da accenti etno-nazionali per un autogoverno con cui versando sangue cercava alternative al centralismo alawita degli Asad? Egualmente in Turchia l’autogoverno che Öcalan proponeva bypassando lo Stato-nazione, esaltando i valori dell’eguaglianza di genere e dell’ecologia, che spazi può trovare in una trattativa incentrata sullo scioglimento dei reparti armati cui l’accademia di Qandil non vuol rinunciare? Poiché i kemalisti del Chp inseguono il cambio di governo alle prossime elezioni, Erdoğan e Bahçeli chiedono una contropartita spendibile con l’elettorato turco. La pacificazione interna rappresenta un obiettivo che vale milioni di voti. Öcalan può diventare l’ago della bilancia kurda e turca in un panorama che fluttua in un’instabilità desiderosa di stabilizzarsi.

lunedì 24 febbraio 2025

Balochistan, i pendolari dell’oppio

 


Due anni di divieto di coltivazione dell’oppio e nell’Emirato afghano la produzione è calata nel 2022 da 6.200 tonnellate di prodotto fresco a 33 tonnellate (sic) nel 2023. Lo conferma un rapporto Unodc (l’agenzia Onu che studia la diffusione di produzione e traffico di sostanze stupefacenti). Così molti contadini delle province dell’Helmand e Kandahar varcano il poroso confine col Pakistan e si stabiliscono stagionalmente nel Balochistan per continuare a coltivare il prodotto richiestissimo sui mercati mondiali. Lo Stato pakistano, governo dopo governo, ha assunto posizioni altalenanti nella lotta contro questa  coltivazione,  all’inizio del nuovo millennio i terreni dov’era possibile produrre papavero da oppio erano passati da circa diecimila ettari a poche centinaia. Però il tempo, le vicissitudini politiche interne e la tolleranza corruttiva degli organi preposti a controllo e repressione hanno riallargato le fila dell’affarismo. Che ha ovviamente svariati livelli. Quelli indagati da alcuni ricercatori locali attraverso le testimonianze di contadini afghani “transfrontalieri” raccontano storie minime di chi ha pure provato a seguire le direttive talebane di bandire, per ragioni morali, l’oppio dalla produzione, finendo però in un gorgo di problemi con raccolti di grano, orzo, mais, cotone andati a male per carenze d’istallazioni idriche e in certi casi proprio di acqua. Mentre il papavero ben s’adatta a certe carenze. Naturalmente la spinta maggiore è, come si sa, il guadagno. Pure se l’ingranaggio nel quale i pendolari dell’oppio si ritrovano, varcando per proprio conto o affidandosi a contrabbandieri per l’attraversamento di certe aree, e dunque pagando un primo prezzo per questo “favore”, quindi lasciando più delle metà del raccolto a chi gli affitta il terreno, il ricavato finale gli consente di sovvenzionare i parenti rimasti in Afghanistan. Perché a casa la situazione è terribile, viste le ristrettezze imposte dalla Banca Mondiale che per ragioni politiche ha pesantemente tagliato i finanziamenti, ristrettezze che ricadono sull’economia degli abitanti. 

 

Quasi sempre la famiglia afghana non segue il maschio, più o meno giovane, che s’imbarca nell’avventura. Con un rischio, in ogni caso, decisamente inferiore rispetto al viaggio verso l’Occidente, in un Occidente sempre più respingente, che ormai parecchi ragazzi iniziano a evitare. Certo, così si resta dannatamente legati a quelle terre e alle imposizioni comportamentali marchiate dall’affarismo illegale della droga, che ha rotte sempre occidentali. Eppure questo sembra essere l’unico passo possibile per chi vive nelle aree rurali, anche perché la “stecca” richiesta è minima o abbordabile per le famiglie povere. I contadini-viaggiatori riferiscono che nei passaggi più usati, tra il distretto di Baramcha a Helmand e quello di Nushki nel Balochistan,  bastano 120 dollari a persona. Invece nel “Gioco” che porta in Iran e Turchia e forse Grecia e Balcani la cifra dei cinquemila dollari oggi è quasi raddoppiata. Andare e venire oltre la frontiera pakistana ha il prezzo menzionato, cui si deve aggiungere altrettanto se si ha la sfortuna d’essere pizzicati dal poliziotto di Islamabad. Ma se lo s’impietisce si riesce a sfangarla con molto meno. Qualcuno più scaltro e magari ammanicato coi mediatori del “grande traffico”, che hanno cerchie vaste sino a giungere ai clan mafiosi di varie etnìe che collaborano nel narco-globalismo, raccoglie denaro anziché papaveri. Vestendo i panni di chi procura mano d’opera fra i connazionali li fa coltivare per sé in enormi appezzamenti di terreno pre-affittati. Per far questo occorre però esperienza, una buona dose di fegato o l’appartenenza a taluni giri. In genere si tratta di ex contrabbandieri che sono già stati mercanti d’oppio, alcuni  lavoravano per i Signori della guerra o per gli statisti-fantoccio come Kharzai all’epoca dell’occupazione Nato. Non è cambiato molto, solo gli appezzamenti dove piantare i papaveri. Ché le piazze mondiali della richiesta attendono,  ansiose e tossicamente dipendenti.  

giovedì 20 febbraio 2025

Gaza fra progetti e ricatti

 


Prosegue lo scambio di prigionieri fra Hamas e Israel Defence Forces, comprensivo della triste restituzione di corpi senza vita che il governo Netanyahu definisce macabra e di rimando il Movimento Islamico di Resistenza ricorda come quei cittadini siano vittime dei bombardamenti di Tel Aviv, come tanti civili di Gaza. Ma la geopolitica pensa alla  “sistemazione” della Striscia secondo il piano Trump che sollucchera Israele: evacuare i due milioni di palestinesi, destinandoli ai vicini Egitto e Giordania. La chirurgica distruzione abitativa che ha reso spettrali i 42 chilometri di territorio e profuga in loco l’intera cittadinanza dovrebbe agevolare l’intento camuffato in soluzione tampone per un’emergenza che, visto lo scempio perpetrato, può restar tale per anni. Le stesse agenzie internazionali prestatrici di soccorso umanitario e sanitario non nascondono le assolute  difficoltà a intervenire in un simile contesto. Già il presidente americano s’è fatto sotto con l’omologo al Sisi e col monarca giordano perché sostengano un’iniziativa che ha i contorni della Nakba patita dalla popolazione palestinese nel 1948. Al rifiuto del mondo arabo per la sciagurata ipotesi, i due capi di Stato interpellati si sono mostrati scettici più per interessi interni che per espressa solidarietà verso i gazawi. Che giungerebbero da profughi, figure male accolte da governi e popolazione locale. C’è da ricordare che degli undici milioni di giordani circa tre sono palestinesi lì rifugiati nelle varie ondate di espulsione dal territorio occupato da Israele e divenuto Stato sionista. Fra i profughi una buona parte è ormai integrata nella società, ma trecentomila vivono tuttora in campi con l’unico sostegno delle Nazioni Unite. Inoltre la dinastia hashemita ha un passato burrascoso con le organizzazioni politiche di rappresentanza palestinese, quella che fu l’Olp di Arafat nel 1970, cercando di rovesciare il regno di Husayn venne respinta dall’esercito nazionale con un’ampia perdita di miliziani fedayn (cinquemila vittime). 

 

 

Sempre ragioni politiche portano il presidente egiziano al Sisi a vedere come fumo negli occhi gli islamisti. Nel 2013 lui ha preso il potere con un golpe lanciato contro un esponente della Fratellanza Musulmana e pensare di ospitare cittadini finora governati dalla frangia palestinese della stessa Confraternita è un’ipotesi inaccettabile. Però neppure velatamente, com’è nel suo stile, il capo della Casa Bianca che sta riscrivendo la politica estera della potenza che governa, fa balenare l’arma del ricatto. Un po’ come per i dazi minacciati a destra e manca sui mercati del commercio globale, ricorda ai militari del Cairo (la lobby che sostiene  Sisi) come nell’ultimo ventennio il grande Paese arabo sia stato rifornito per oltre il 40% da armi statunitensi, quelle armi sono servite nella repressione interna al tempo delle rivolte di Tahrir e nella lotta contro il jihadismo organizzato nel Sinai. Non solo. La debolezza economica egiziana è nota e di vecchia data, annualmente Washington versa 1,3 miliardi di dollari all’esecutivo di Sisi, per non parlare dei buoni uffici con cui ha fatto aumentare da 3 a 8 miliardi di dollari gli aiuti versati dal Fondo Monetario Internazionale. La stessa Giordania non è da meno, anche lei da lungo tempo è armata e sovvenzionata dagli Usa affinché incarni un perfetto Stato satellite, alleato e servile alle scelte americane nella regione al di là di chi detti la linea dello Studio Ovale. Davanti all’irrisolutezza trumpiana per Il Cairo e Amman una possibile boa di salvezza potrebbe scaturire dai petrodollari sauditi ed emiratini, visto che le recenti voci di bin Salman e bin Zayed proprio sull’idea di “far traslocare” altrove la gente di Gaza non avallano affatto il progetto trumpiano. Peraltro quello che era stato fino al termine del suo primo mandato il ‘Patto di Abramo’ non solo non è mai decollato, ma ha subìto un arresto sostanziale. La gestione della sicurezza nella regione è tutta da scrivere alla luce dei catastrofici eventi seguiti al 7 ottobre, se l’intero mondo arabo si metterà di traverso il tycoon-presidente avrà come unico interlocutore Netanyahu. Ma gli emiri s’accolleranno i debiti egiziani e giordani? Per quanto tempo? E il sostegno potrà durare?

martedì 18 febbraio 2025

L'occhio turco sulla nuova Siria

 


Ahmet Davutoğlu, già docente all’Università Beykent di Istanbul, è stato ministro degli Esteri negli anni d’oro dell’erdoğanismo dilagante (2009-2014). Da fidatissimo del capo l’ha anche sostituito nell’incarico di Primo Ministro (2014-2016), quando il leader dell’Adalet Kalkınma Partisi  si lanciò nella prima avventura presidenziale, diventando il 12° Capo di Stato turco, carica tuttora ricoperta da undici anni. L’idillio politico fra i due s’interruppe nella primavera 2016, periodo di crescenti tensioni interne per le ingerenze nella guerra in Siria, l’acuirsi del conflitto con la comunità kurda, i molteplici contrasti col movimento ğülenista, accusato poi del fallito golpe nel luglio di quell’anno. Dopo un triennio di stallo Davutoğlu ha fondato un gruppo politico (Gelecek Partisi) che si è presentato alle elezioni nel 2023, riscuotendo il magro bottino di dieci deputati, sui seicento presenti nel Meclisi. Ovviamente questo partito è all’opposizione dell’attuale governo islamico-nazionalista incentrato sull’alleanza fra Akp e Mhp, propone un ritorno al sistema parlamentare, sostenendo anche i diritti delle minoranze linguistiche. In un recente intervento incentrato sulla Siria l’occhio del professore prestato alla politica, e poi rimasto in quest’ambito, spazia su quella che era la sua specialità: le relazioni internazionali, per le quali da ministro degli Esteri aveva formulato un piano fatto proprio da Ankara, intitolato “zero problemi coi vicini”. Non è durato a lungo. Fra i vicini, sul confine meridionale lungo più di 900 km c’è la Siria, all’epoca Repubblica araba guidata da Bashar Asad. Ora, a due mesi dal suo disarcionamento definitivo che ha interrotto tredici anni di sanguinosissima guerra civile e guerra per procura da parte di altre nazioni fra cui la stessa Turchia, oltreché di milizie islamiste, jihadiste compreso l’Isis, e reparti kurdi nel Rojava, il nuovo gruppo di potere legato a Tahrir al-Sham per mano del leader Ahmad al-Sharaa sta guidando una transizione della nazione. 

 

La premessa Davutoğlu per il futuro immediato parla di “faro di pace e stabilità nella regione, la cui vera prova sta nella costruzione d’una nazione giusta e stabile”. Per un nuovo ordine occorre introdurre sette pilastri: identità nazionale; rispetto delle diversità; reinserimento dei rifugiati; rilancio di economia e sviluppo; garanzia di libertà e giustizia in un quadro costituzionale; nuove istituzioni; relazioni internazionali. Bisogna imparare dalla storia recente “Il crollo dei regimi baathisti di Saddam Hussein in Iraq e degli Asad in Siria è dovuto principalmente alla loro dipendenza dal settarismo che ha ostacolato lo sviluppo d’un senso condiviso di cittadinanza”. Perciò “Deve essere formata un'assemblea di riconciliazione nazionale che sia in grado di rappresentare tutte le comunità etniche: arabi, kurdi, turkmeni, sunniti, alawiti, drusi, cristiani. Gli alawiti non devono essere esclusi o sottoposti a misure di ritorsione per i crimini commessi da un regime che li favoriva”. E’ vitalegarantire il ritorno a condizioni di vita normali per aiutare coloro che hanno perso i propri cari, bambini orfani e prigionieri che hanno trascorso anni in detenzione”.  Risulterà strategico “unificare la spina dorsale della Siria (il cruciale corridoio Aleppo-Hama-Homs-Damasco-Daraa) e le sue ali (la zona costiera del Levante e la regione mesopotamica a est dell'Eufrate) in un'unica struttura di sicurezza, costituita dai gruppi di resistenza insieme al personale militare leale, formalizzati in una necessaria gerarchia militare”. La nazione e la sua gente necessitano di rilancio economico e quindi serve “recuperare i beni saccheggiati dai clan Asad e Makhlouf; eliminare gli embarghi imposti dalla politica internazionale;  sostenere agricoltura, industria e produzione energetica. La Mezzaluna fertile in cui una parte della Siria s’estende può favorire riforme avanzate di produzione biologica, la pacificazione territoriale e il bisogno di lavoro potranno offrire manodopera disponibile a investimenti d’impresa, mentre la posizione geografica fa del Paese un corridoio ottimale che collega la penisola araba al Mediterraneo e via terra attraverso la Turchia all’Europa. Il territorio pianeggiante ridurrà i costi del trasporto tramite l’implemento d’infrastrutture stradali e ferroviarie, utili a rilanciare turismo culturale e religioso, visto il patrimonio artistico di ampie aree”. 

 

C’è da sorridere all’ottimismo di Davutoğlu che comunque non perde il passo del realismo politico. Ricorda che “Senza un abbraccio di pluralismo confessionale, culturale, politico tutto può restare un sogno”. Serve prestissimo “stabilire    un ordine pubblico civile, riattivare il sistema giudiziario, promuovere la riconciliazione nazionale e redigere una nuova Costituzione. Provvedere a un giusto processo ai responsabili di crimini contro l'umanità, ed evitare le rese di conti con uccisioni extragiudiziali capaci di continuare a frantumare la popolazione”. Così la geopolitica internazionale può venire incontro all’auspicabile rinascita siriana “eliminando gli embarghi, riaprendo le ambasciate, sanando l’irregolarità di occupazioni come quelle israeliane nella regione di Quneitra e sulle alture del Golan. A Sharaa e alla sua cerchia ristretta dico: questa vittoria non appartiene solo a voi, ma anche alle centinaia di migliaia di martiri che hanno dato la vita durante la guerra. Resistete alla tentazione di isolarvi in palazzi lussuosi. Rimanete tra il popolo. Ai Paesi della regione e ai loro leader, dico: la Siria appartiene ai siriani. Non create sfere d’influenza tramite pregiudizi etnici.  L'Iran, che ha sostenuto il regime di Asad, deve evitare di esacerbare il caos. Garantire una nuova amministrazione che stabilisca stabilità diventa anche un suo interesse. Per Stati Uniti e Russia il compito più urgente è quello di ottenere una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'Onu che tuteli  l'integrità territoriale siriana. Il contributo più significativo di Mosca alla pace interna consisterebbe nel sollecitare l’ospitato Asad ad astenersi da dichiarazioni e azioni che potrebbero danneggiare questo cruciale processo di transizione”. Quindi il suo Paese: “Quando si parla di Ankara il rapporto fra Turchia e Siria è molto più importante di un semplice legame di vicinato; esso è fondato sulla fiducia reciproca e sul rispetto. La Turchia dovrà agire con un piano strategico chiaro e si schiererà dalla parte della Siria, favorendo un futuro pacifico e prospero. La Turchia non ha mai cercato di ottenere il dominio politico o un guadagno economico dalla Siria e non lo farà mai (sic!)”. Chissà se il nuovo corso di Damasco ci crede, e se presterà orecchio alle riflessioni del superato visir di Erdoğan.   

giovedì 13 febbraio 2025

Laila, il vigore della giustizia

 


Nel vederla così da lontano, di sfuggita, senza leggere cartelli e osservare foto, sembrerebbe una barbona o nel più poetico dei flash una riedizione di certe protagoniste di film del muto, fiammiferaia o fioraia, magari cieca. La vecchina infreddolita davanti la cancellata d’uno dei palazzi delle Istituzioni londinesi è l’indomita Laila Soueif, una delle maggiori docenti di matematica dell’Università del Cairo. Cosa faccia lì, infreddolita e spossata è presto detto: protesta con uno sciopero della fame lungo centotrentotto giorni, contro la carcerazione del figlio Alaa Abdel Fattah, indebitamente detenuto nelle prigioni egiziane, nonostante abbia terminato di scontare una condanna. La protesta è rivolta contro il presidente egiziano Al Sisi, con una chiamata di correo anche per il premier britannico Starmer, visto che Alaa e lei stessa sono anche cittadini del Regno Unito. In altre situazioni, per altri cittadini l’inquilino di Downing Street si sarebbe mosso a loro difesa? E’ tutto da valutare. Sono bastati pochi mesi dalla formazione del suo esecutivo, dopo il successo elettorale d’inizio estate, e il politico che aveva avviato la carriera fra i laburisti puntando sulla difesa dei diritti umani, e che dopo un’esperienza in magistratura si presentava agli elettori come serio sostenitore dei princìpi giuridici e delle leggi, sta facendo della real politik in voga l’arma per conservare il consenso. Quello interno e quello internazionale. Così s’è tuffato nella lotta all’immigrazione ‘irregolare’, e dopo aver apprezzato la linea Meloni per il “collocamento” di migranti in Albania, ha iniziato a realizzare trasferimenti forzosi dei migranti, alla maniera trumpiana con tanto di catene e aerei per i trasbordi. Può un leader laburista che imita il peggior Blair spendere una parola per il caso Alaa? Lo dubitiamo. Ma c’inchiniamo alla tenacia di mamma Laila, indebolita nel fisico da quel genere di protesta estrema che lascia solchi profondi non solo sulla pelle bensì nel fisico, debilitandolo. Specie se il digiuno è ripetuto, come lei ha fatto a lungo e più volte, seguendo le traversie giudiziarie del figlio. Pare una nonnina Laila nei suoi sessantanove anni non ancora compiuti, eppure ha la forza dirompente d’una ventenne, la determinazione d’una combattente, la passione d’una madre, la tenacia d’una donna.

lunedì 10 febbraio 2025

Gerusalemme, il pericolo dei libri

 

Sconsolato osserva, Mahmoud, prima d’essere fermato e poi arrestato. Avvilito guarda i poliziotti che scrutano, sequestrano libri o li gettano a terra. E’ nella sua libreria a Gerusalemme est gestita col fratello ed ereditata dal padre Ahmed Muda, ex insegnante che lavorava nei campi profughi di Shu’fat, un’area periferica non così lontana dal centro. Cosa cercano i poliziotti? Libri. E lì ne trovano, sulle  vicende millenarie della città, dei suoi abitanti arabi, della loro storia passata e recente, delle sofferenze vecchie e nuove, dei loro diritti violati e calpestati. Già questo basta per irritare lo Stato israeliano che invia i suoi uomini in missione antiterrorismo. Finché, proprio nel reparto delle letture infantili, spunta fuori un testo pericolosissimo, un fumetto da colorare, vista la sua funzione didattica e iconografica. Il colpo va a davanti a un titolo esplosivo che recita: Dal fiume al mare. E’ lo slogan usato dai palestinesi per indicare il sogno d’un proprio Stato così esteso, e che Israele considera distruttivo per se stesso, dunque conseguentemente terrorista. Ecco un buon motivo per portar via Mahmoud e suo nipote Ahmed, librai terroristi. Si fa così senza lasciare tregua alla storia d’un nemico da far sgombrare da case, quartieri, campi profughi, da cancellare pure dai libri. Ché Netanyahu e Trump hanno fretta. 


 



sabato 8 febbraio 2025

Tunisia, il volto nero del Piano Mattei

 


Settanta pagine roventi come i drammi che testimoniano per bocca di trenta diseredati della migrazione finiti nelle grinfie della Guardia Nazionale tunisina. Costituiscono il rapporto-denuncia (‘State Trafficking’) raccolto da un gruppo di ricercatori, che per ragioni di sicurezza vuole restare anonimo, presentato una decina di giorni fa al Parlamento Europeo dai deputati Strada, Salis, Orlando, Sippel, Strik, Galàn. Racconta quella tratta dei migranti, con tanto di violente reclusioni e deportazioni, che alcuni media denunciano da almeno due anni e che molti altri media preferiscono ignorare. Soprattutto in Tunisia e in Italia. Per non guastare la festa al tanto sbandierato “piano Mattei” caro al Primo ministro italiano Meloni di cui s’avvantaggia il governo autoritario di Tunisi. Nei giorni immediatamente precedenti la divulgazione in sede europea del citato report, i telegiornali italiani ricordavano con enfasi gli ulteriori accordi stabiliti dai due Paesi tramite i rispettivi ministri degli Esteri Tajani e Nafti. Investimenti in campo economico che riguardano agricoltura ed energia. Nell’agroalimentare le collaborazioni sono di vecchia data e avevano, tanto per evidenziare qualche aspetto speculativo che riguarda taluni nostri produttori di presunto olio extravergine d’oliva, precedenti di acquisto in Tunisia di materia prima o di prodotto finito, spacciato per olio italiano Evo, che non era né italiano e neppure extravergine. Ma queste sono truffe, peraltro realizzate con partner anche d’altre aree geografiche. Gli accordi presenti concernono uno scambio agronomo-tecnologico fra le due nazioni. Mentre Terna, colosso nostrano di trasmissione di energia elettrica,  ultimamente ha inaugurato a Tunisi la “Terna Innovation Zone” primo hub africano che rafforza il partenariato fra i due Paesi. 

 

La nota di presentazione parla: “di rafforzare l’ecosistema dell’innovazione a sostegno dell’imprenditorialità locale legata alla transizione energetica e digitale”.  Fra gli intenti anche quelli di formazione avanzata di giovani ingegneri e tecnici. Bisognerà vedere con quale ritorno economico soggettivo per queste figure professionali, che le statistiche relative alla migrazione intellettuale dal Paese maghrebino calcolano a cifre elevatissime (70%) proprio a seguito dei bassi salari interni (300-400 euro mensili). Invece ‘State Trafficking’ report ci pone davanti alla peggior prosa dopo i versi poetici che decantano l’idillio fra Meloni e Saïed. I trenta denuncianti raccontano quel che gli è accaduto, ciò che hanno visto e subìto assieme a centinaia di vessati come loro. Tutto a opera della Guardia Nazionale tunisina, della locale Guardia di Frontiera, dello stesso esercito, i cui militari agiscono indossando la divisa oppure in borghese, coprendosi con maschere durante le azioni più truculente. Un aspetto del contrasto alla concentrazione di migranti, in gran parte subsahariani, che si raccolgono attorno alla città costiera di Sfax, è la distruzione dei campi informali lì creati da chi stazione in attesa d’un imbarco, esclusivamente di fortuna. E rischiosissimo. Vengono fermate e arrestate i soggetti più diversi: studenti, lavoratori con o senza documenti di soggiorno, persone con passaporto tunisino o con documenti rilasciati dall’Unhcr. I cacciatori di migranti puntano  soprattutto alla cattura di individui di colore con un approccio definito predatorio dagli autori dell’indagine. Ai fermati si dice trattarsi d’un controllo di routine o che avranno accesso a programmi di rimpatrio volontario. In vari casi l’operazione viene camuffata come una loro “protezione dalla popolazione locale che potrebbe aggredirli”. Chi viene arrestato non può ricorrere a difensori legali. Frequenti sono il sequestro e la distruzione di documenti a coloro che li posseggono.  

 

Qualsiasi protesta viene sedata con la violenza, i denuncianti parlano di percosse con bastoni e spranghe cui s’aggiungono minacce, privazioni di cibo e acqua. Il personale carcerario perquisisce periodicamente i detenuti alla ricerca soprattutto di telefoni cellulari che potrebbero  essere usati per documentare il trattamento subìto. Mentre le perquisizioni alle donne si trasformano in molestie o abusi sessuali.  Alcuni fermi avvengono in mare, la Guardia Costiera avvicina l’imbarcazione di fortuna sequestrandone il motore, se c’è una reazione da parte dei migranti scatta la minaccia di rovesciare la barca. I traslochi verso i luoghi di detenzione quasi sempre avvengono di notte, gli agenti a bordo degli autobus o camion che trasportano i migranti celano il volto. Il trasferimento nei famigerati campi libici - vero spettro per tutti, anche perché ormai il passaparola ha demonizzato quella rotta - è il caso più temuto. Però domandare se quella è la destinazione può produrre reazioni violente dei carcerieri. In talune circostanze chi osava chiederlo è stato abbandonato  lungo il percorso. Fra gli intervistati c’è chi ha riferito d’aver visto sotterrare migranti deceduti dopo violentissime  percosse in fosse comuni, vicino ai campi di detenzione. E poi in mezzo al deserto c’era l’ossessione della “gabbia”, il recinto animalesco dove si poteva finire in attesa della propria compravendita. In cambio di denaro, hashish, carburante i guardiani tunisini cedono i migranti ai carcerieri libici. Il prezzario del turpe commercio schiavistico va dai 40 ai 300 dinari tunisini. Dai dodici euro in su per i giovani maschi, ottanta euro per le donne. Un po’ di più se sono madri d’un bambino. Un’offerta conveniente. Chissà se nei dialoghi fra Meloni e Saïed certi particolari sul trattamento dei migranti sono circolati.

giovedì 6 febbraio 2025

Gaza, dopo le bombe il resort

 


Davanti alla massa di sfollati tenuti assieme da identità, ideali e lutti si materializza l’esca per sbarazzarsi di loro con la lusinga d’un futuro. Anziché morire in una prossima guerra israeliana per ogni famiglia palestinese è più opportuno riparare altrove. Lancia mellifluo il messaggio Donald Trump, orgoglioso delle sue proposte spiazzanti amplificate ed esaltate dai media amici. Ma il presidente americano non lo fa in una festa privata nella villa di Mar-a-Lago, lo dice ufficialmente in conferenza stampa dopo aver accolto a braccia aperte il premier Netanyahu. Che è, sarebbe, ricercato dalla Corte Penale Internazionale per crimini di guerra, però il primo cittadino statunitense non dà importanza al mandato di cattura, come fanno peraltro altri grandi del mondo. A Netanyahu, al suo governo, alla destra d’Israele, ma pure all’oppositore Gantz (‘proposte creative e interessanti’ le ha definite) piace il gioco subdolo dell’amico americano. Se da una parte giunge la reazione sdegnata di quel che resta della geopolitica civile e anche del mondo arabo più compromesso con l’affarismo proprio e le amicizie imperialiste, l’emergenza che durerà mesi, il logoramento delle vite sul fronte primario della sussistenza fra scorte alimentari che potrebbero nuovamente scarseggiare, quelle sanitarie egualmente tarate, le igieniche completamente assenti, una ricostruzione lontana anni, potrebbero insinuare l’idea che in fondo è meglio finire profughi sotto un tetto a migliaia di chilometri di distanza. Non nella  Giordania hashemita, ora solidale coi detestati palestinesi,  non nell’Egitto di Sisi che non vuole in casa gli odiati islamisti e rifiuta l’idea, ma in Paesi come quelli (Irlanda, Norvegia, Spagna) che il ministro della Difesa di Tel Aviv Katz dice “obbligati per legge” ad alloggiare gli abitanti della Striscia.

 

Con loro chissà quanti altri in Europa o altrove possono diventare accoglienti verso due milioni di persone, dal momento che nel decennio scorso dalla Siria sono “traslocati” in sette milioni. Quella che sembra una boutade, tipica del trumpismo che straparla su tutto, potrebbe avere applicazioni pratiche. Se non nell’immediato e sulla fantasmagoria d’una nuova riviera nel Mediterraneo, nell’intreccio col piano B di Israele che risulta più efficace delle guerre finora intraprese: allontanare i palestinesi occupandogli terra e case, impedendogli l’esistenza, negandogli di bere e mangiare, finanche di respirare, togliendogli ogni spazio con i coloni. Perché continuare a sopravvivere dove non si può vivere, potranno domandarsi i figli dei figli che non scelgono di vendere cara la pelle con la determinazione  dell’Intifada? Se tutto è distruzione, se i propri rappresentanti ammessi a discutere col mondo continuano a essere gli impresentabili faccendieri alla Abu Mazen, se soprattutto lo ‘stato di diritto’ che pure questo popolo non ha mai conosciuto, viene smantellato e ridicolizzato dalle nuove leve del comando geopolitico internazionale, la soluzione di ritrovarsi in una “riserva” più o meno presentabile a migliaia di chilometri dalla propria terra promessa, può diventare realtà. E’ il fatalismo imposto dai nuovi poteri, avallato da chi fa in modo che accada perché non ha reagito davanti ai massacri dei mesi scorsi, di chi li giustifica sostenendo la tesi della giusta risposta a un precedente massacro. Questa teorizzata politica della forza, che ha molti più sostenitori degli espliciti fan, s’avvantaggia della vituperata indifferenza, letterariamente ricordata e inesorabilmente protagonista di numerosi passi della tragica Storia del Novecento. Le si aggiunge la linea del ricatto, del raggiro o dell’accettazione d’un disperante futuro, parente prossimo della disperazione quotidiana.

 

lunedì 3 febbraio 2025

Gaza, la forza d’un ritorno

 


La minuta e sentita, lenta e affaticata, polverosa ma orgogliosa marcia per il ritorno verso nord, intrapresa da decine di migliaia di gazesi dal momento del cessate il fuoco è uno dei volti della crisi che prosegue nella dolente Striscia. E’  caduta presto nel dimenticatoio della maggior parte dei media che pure ne avevano parlato, e grazie ai martoriati  operatori locali, avevano mostrato facce stravolte e pure ridenti. E’ stata superata dall’altra attualità: il rilascio cadenzato degli ostaggi israeliani, alcuni sospettosamente accondiscendenti coi carcerieri, altri atterriti dalla folla urlante, trasportati dalle milizie di Hamas verso le auto della Croce Rossa che li consegnavano ai propri cari. Operazione pattuita, barattata col rilascio d’un numero copioso di prigionieri palestinesi, di cui s’è evidenziato il lato propagandistico con cui il Movimento islamista dava sfoggio di divise e armi, controllo del luogo della liberazione e proprio ruolo centrale nella trattativa, con un messaggio esplicito al governo di Tel Aviv che per quindici mesi ha inseguito “l’annientamento” di quest’avversario politico e militare. Invece tutto sembra come prima. Politicamente lo è. Militarmente decisamente meno. Umanamente per niente, perché i lutti sono lacerazioni che durano in eterno. Eppure nel rapporto fra chi imbraccia il kalashnikov e chi tutt’attorno osserva rabbioso o curioso quell’operazione i legami non sono né spezzati né logorati. Anzi, risultano più profondi. Perciò si parla di vittoria palestinese e sconfitta di Netanyahu, una vittoria costata, finora, cinquantamila morti e incertezza sul presente e futuro. Ma tant’è. 

 

Parlare di successo per una marea itinerante fra macerie, che, nei figli e nei vecchi più fragili, può tuttora crepare di fame e freddo, sa di bestemmia della morale. Però bisogna andare oltre l’ammasso di cadaveri, ricercati per un suprematismo politico, ideologico, confessionale, razziale,  un andamento nel quale taluni Stati e regimi si rispecchiano in parte o in tutto. Purtroppo Israele li somma, uno accanto all’altro. La fiducia in un prosieguo esistenziale che nella propria saggezza antica o disperazione o fatalismo o senso della vita questi marciatori  affranti ma non piegati; questa gente che s’accuccia in tendopoli di fortuna messe su a pochi metri dai cumuli di rovine create da chi li detesta; queste famiglie insanguinate e costernate ma felici di rientrare verso casa sebbene la casa sia un ammasso di pietre o cemento, rappresenta la lezione che un cieco Israele si rifiuta di capire. Lo spettro di quel che dice di non fare - un genocidio - di ciò che israeliani ed ebrei non accettano di poter anche solo ascoltare nelle proteste contro i massacri perpetuati, appare essere l’unica folle via per estirpare una massa resistente a ogni bomba, a ogni perdita, a ogni sacrificio. Un popolo che rimane attaccato alla sua terra, accettando di sopravvivere nel nulla e nell’incertezza, nella devastazione proposta e imposta da oppressori incalliti. Volti che sperano di vivere, di sorridere nonostante gli scempi, di rilanciare la bellezza dell’ottimismo, di ricordare che il male non deve essere assoluto. Non può esserlo. Non ha spazio nella Storia, nonostante continui a riaffacciarsi.