giovedì 31 dicembre 2015

Erdoğan: anno nuovo, vecchi crimini

La Repubblica di Turchia ha le risorse e la determinazione per vincere l’organizzazione terrorista (kurda, ndr). Le nostre forze di sicurezza stanno continuando a ripulire montagne e città dalla presenza terrorista e continueranno a farlo”. E’ l’augurio di fine anno che il presidente Recep Tayyip Erdoğan lancia alla sua gente, a tutti i turchi anche repubblicani e lupi grigi che approvano, annuiscono o comunque guardano altrove in queste settimane in cui il grilletto poliziesco è stato premuto talmente tanto che ha fatto tremila e cento morti. Terroristi, secondo l’Atatürk islamista. Fra questi ci sono indubbiamente combattenti del Partito kurdo dei lavoratori, tornati dallo scorso agosto ad azioni armate che hanno fatto oltre duecento vittime fra poliziotti e soldati; ci sono anche semplici cittadini oppure attivisti dell’Hdp freddati come fossero guerriglieri. Il Capo dello stato e del governo ripetono ossessivamente quest’equazione: ogni kurdo è un potenziale terrorista che va estirpato perché con la su presenza mette in pericolo l’integrità della nazione.
Un ritorno al passato oscuro della Turchia, quella della dittatura assassina in mimetica, supportata dalle squadracce fasciste. “Il nostro Paese non ha ambizioni territoriali su altre nazioni, vogliamo che le popolazioni della regione, che sono storicamente e culturalmente nostri fratelli, vivano in pace e sicurezza. La Turchia non è responsabile degli sviluppi che si registrano in Egitto, Libia, Palestina e Siria. Non abbiamo altro scopo che vivere in pace con i fratelli che vivono nella regione” ha concluso il presidente che evidentemente non annovera i kurdi fra gli storici abitanti delle terre del sud-est anatolico oppure, accanto alla sanguinosa repressione, ha abbracciato la vecchia teoria che bollava quest’ultimi come “turchi della montagne”, ma pur sempre negletti, gente che può essere uccisa senza dover dar conto a chi che sia del criminale operato. Così facevano i generali quarant’anni fa, così lo Stato forte dell’attuale partito-regime torna a fare, per un presunto “bene nazionale”.
Frattanto la stampa turca ancora non asservita, offre una carrellata d’immagini della città di Diyarbakır posta sotto la tutela dell’esercito, l’eufemismo con cui commentatori compiacenti definiscono il coprifuoco che a singhiozzo soffoca e taglia le vite di quei cittadini da settimane. Assediata, ma non piegata visto che anche stamane ci sono stati flash mob di persone d’ogni età che si rifiutano di vivere in un territorio diventato prigione a cielo aperto. Dal canto loro due sigle del sindacato giornalisti, rappresentate da decine d’iscritti, hanno deciso di attendere l’arrivo dell’anno nuovo davanti al carcere di Silivri dove sono rinchiusi alcuni loro colleghi. Attualmente trenta reporter sono imprigionati in tutto il Paese, parecchi restano in celle d’isolamento. L’Unione dei giornalisti sostiene che la categoria userà ogni strumento di lotta a disposizione per difendere la libertà di esercitare la professione basata sul diritto di cronaca e di opinione. 



mercoledì 23 dicembre 2015

Afghanistan, ritiri e ritorni

Un ‘uccellino diplomatico’ che ha raggiunto il New York Times (è facile e conveniente volare nelle attrezzate redazioni dei media statunitensi) rivela che - prima del risvolto favorevole del trascorso week end con cui le forze talebane hanno mostrato il proprio “contropotere territoriale” anche nella  provincia dell’Helmand - copiose truppe Nato erano accorse in sostegno degli affannati reparti dell’esercito locale. Stavolta i missili della Nato sono stati messi da parte e s’è combattuto solo a terra, forse per evitare una nuova imbarazzante strage di civili e professionisti come a Kunduz. Fresca è la memoria dell’ospedale di Médecins sans frontières, con la moria di dottori e infermieri e la ridda di versioni contraddittorie diffuse in ordine sparso da Pentagono e Casa Bianca: “danno collaterale, non conoscenza delle coordinate della struttura, presenza di terroristi nella medesima, difesa dei militari nei pressi dell’ospedale…” Certo la guerra è guerra, ma i crimini di guerra richiesti dall’Ong francese sembra che non rientreranno in nessuna inchiesta internazionale. L’impiego, giorni addietro, di marines e unità speciali statunitensi nell’Helmand (l’area a più alta concentrazione di piantagioni d’oppio) era stato celato all’informazione per non svilire ulteriormente il ‘gioiellino’ voluto da Kerry e dal presidente Obama: l’Esecutivo sìssignore guidato dal sorridente Ashfar Ghani, incapace ad amministrare e a combattere.
Lui e il “sodale per forza” Abdullah, sembra che possano esser messi in crisi, oltre che dal deterioramento d’ogni vicenda quotidiana, da un’opposizione interna che vedrebbe Hamid Karzai tessere rinnovate trame con alcuni sempre vivi signori della guerra. Interessati a non subordinare i propri affari a un quadro caotico che può spingere il Paese verso una condizione simile al ‘tutti contro tutti’ degli anni Novanta. Specie adesso che pure il Califfato allunga le pretese su un territorio già ampiamente conteso da business e attori vari, clan e imprese subirebbero da questo caos contraccolpi non indifferenti. Le azioni di controguerriglia statunitensi, svolte nei giorni scorsi via terra come per tredici anni marines, squadroni speciali, contractors d’ogni risma hanno perpetrato, fregandosene delle regole d’ingaggio e colpendo spesso i civili, si sono rese necessarie per sostenere lo sbandamento e l’ampia demoralizzazione dell’Afghan National Security Forces. I soldati di casa sempre più spesso mettono in pericolo ogni difesa, compresi i contrafforti vitali per la geostrategìa americana nella regione: le basi aeree. A Kandahar i soldati afghani hanno subìto lo stordimento di vedersi attaccati e intrappolati in quel luogo dai turbanti che sono stati impegnati (prima d’andarsene) solo dalle unità dell’US Army.

Anche un politico che ha partecipato a una delegazione filo governativa afghana ammette che senza il supporto di terra americano e senza l’aviazione tutte le province meridionali cadrebbero in mano talebana in tre giorni. E rafforza la tesi, testimoniando quanto visto di persona nel distretto Khanashin (parte meridionale dell’Helmand) dove esclusivamente i reparti statunitensi riuscivano a sbrogliare una situazione che militarmente gli afghani non erano in grado di risolvere. Casi reiterati nei distretti di Marja, Lashkar Gah, Sangin. Del resto il generale Campbell, che aveva visitato la provincia a fine novembre, s’era reso conto di persona dell’incapacità delle truppe afghane di reggere agli attacchi. Solo forze Nato di terra e d’aria possono tamponarla. Ma dirlo, fa cadere il castello di carte della creazione e preparazione di un esercito locale autosufficiente, piano in atto ormai da un triennio, con risultati più che scarsi. Le defezioni si susseguono, seppure il rimpiazzo è continuo per reclutamenti incentivati dall’altissimo tasso di povertà e disoccupazione, il  materiale bellico scompare facilmente per i traffici singoli e organizzati all’interno dei reparti. Casi diffusissimi, che dimostrano quanto scarsa sia la coscienza dello pseudo esercito messo su dal progetto americano. Intervistato pubblicamente dopo “il cinguettìo”, il portavoce Nato della provincia non nasconde l’aiuto di campo offerto dai suoi uomini ai soldati afghani. E per non rischiare le proprie basi la macchina da guerra statunitense potrebbe riproporre presto un ritorno di ‘boots on the ground’.

lunedì 21 dicembre 2015

La Voce del Califfato trasmette in Afghanistan

La campagna di reclutamento del Daesh in Afghanistan non tralascia alcun mezzo. Così i miliziani neri dopo essersi infilati fra le diatribe dei dissidenti talebani che contestano la leadership del mullah Mansour, aver utilizzato azioni armate contro le truppe Nato e contro certi turbanti doc, essersi introdotti in alcuni villaggi nella costruenda regione del Khorasan improvvisando scuole di jihad, lanciano nella provincia del Nangarhar una propria radio che usa la lingua pashto e si presenta come la Voce del Califfato. Il governo Ghani appare preoccupato dell’iniziativa che si sviluppa a tamburo battente esercitando, secondo il parere del governatore locale: “un vero e proprio lavaggio del cervello per gli abitanti”. La polizia è incaricata d’individuare il luogo di diffusione dell’emittente e distruggerne le postazioni, ma si è notato come parecchie trasmissioni siano registrate e abbiano una diffusione itinerante. Del caso s’interessa anche il ministero delle Comunicazioni afghano che ha dovuto constatare l’alta qualità e il buon livello tecnologico dell’etere jihadista, a conferma della già nota attenzione dell’Isis verso questo genere di propaganda, trascurata, invece, dai talebani.
Il loro portavoce locale, disdegnando simili sistemi mutuati dai costumi occidentali, esalta l’ispirazione combattentistica del proprio jihad ispirato dalla poesia islamista. Comunque l’emittente sembra fare proseliti e numerosi abitanti di Jalalabad, intervistati sul fenomeno da Al Jazeera, confermano di ascoltare quotidianamente la “Voce” e di trovarsi anche d’accordo con le accuse di anti islamicità rivolte al governo centrale. Uno specioso filmato del Califfato, apparso anche in un report di Tolo Tv, mostra, attraverso il classico montaggio video, le bandiere nere sventolare sul Palazzo di governo afghano; tali presenze anche virtuali preoccupano la politica ufficiale che parla di avvelenamento della gioventù. Ormai il progetto di “salvezza nazionale” della diarchia Ghani-Abdullah vive una profonda crisi, tantoché i due cercano d’interloquire coi Taliban di Mansour, ma in realtà appaiono ben poco ascoltati. I fondamentalisti interni ed esterni toccano con mano la debolezza governativa e puntano a sostituirsi a un progetto palesemente traballante, nonostante i dispendiosi sforzi economici e militari occidentali per continuare a sostenerlo.
Il responsabile delle forze statunitensi in Afghanistan Campbell, intervenendo sulla questione, afferma di tenere sotto controllo i “nuovi nidi dell’Isis”. A impensierirlo maggiormente sono le azioni talebane che da mesi mettono alle strette l’apparato militare locale con operazioni spettacolari come quelle di Kunduz nello scorso settembre e Kandahar a inizio dicembre. Iniziative non cessate che si proiettano un po’ ovunque. In questo fine settimana è toccato all’area dell’Helmand vivere una due giorni di “ferro e fuoco” che registra l’uccisione di 90 soldati dell’ANF. Si tratta dell’ennesima sferzata alla solidità del progetto militare americano “Resolute support” che non riesce a stabilizzare nessun genere d’iniziativa autonoma d’autodifesa dell’esercito governativo, continuamente piegato e umiliato dalle forze guerrigliere. Gli stessi apparati dell’Intelligence, ripetutamente sottoposti alla cura Cia, non producono gli effetti sperati neppure per contrastare il fenomeno dell’infiltrazione di talebani fra le truppe afghane. Così sono giunte le dimissioni di Rahmatullah Nabil, il capo del National Directorate of Security, un’altra struttura di Kabul che constata un elevato livello d’inefficienza e frustrazione.




venerdì 18 dicembre 2015

Erdoğan va alla guerra interna

Cizre, Silopi, Sur sono investite dalla mattina di ieri dall’ennesima, pesantissima ondata repressiva dell’esercito turco. Il ferimento da parte dei manifestanti (la polizia turca afferma siano “terroristi del Pkk”) di due agenti, ricoverati presso le strutture sanitarie di Diyarbakır, ha aumentato ancor più la stretta repressiva rivolta ai civili, fuori e dentro le proprie abitazioni. Ci sono testimonianze di portoni divelti, intrusioni senza motivo nelle case di gente impaurita da tanta furia, di anziani e bambini investiti dalla violenza delle forze preposte a un ordine che non è tale perché usurpa l’esistenza di oltre duecentomila abitanti. E’ l’intera comunità kurda del sud-est a essere rientrata nel mirino di killer “anonimi” che colpiscono (come nel caso tuttora irrisolto dell’avvocato Elçi) e delle uniformi che gasano, picchiano, sfondano, conducendo egualmente alla morte tanti cittadini. Com’è accaduto mercoledì notte a Hatice Şen, una quarantacinquenne madre di quattro figli, fatta bersaglio da una raffica. Oppure a Hüseyin Güzel, settantenne steso da un infarto, per i ripetuti colpi di mortaio scagliati sulla sua abitazione.
E’ la “politica del sangue” intrapresa dalla diarchia Erdoğan-Davutoğlu per conservare un potere sempre più assolutistico e autoritario. Il discorso tenuto ieri a Konya da un presidente, che ha completamente abbandonato il ruolo di supervisore della politica interna (se mai è riuscito ad assumerlo nell’anno e mezzo d’investitura), è stato feroce. Introduce l’intento di quella pulizia etnica che la nazione turca ha conosciuto nei momenti del peggior kemalismo, e che i kurdi avevano drammaticamente vissuto per l’ultima volta a metà anni Novanta. Eccone un passo: “… saranno distrutti appartamenti, case, tutte le forze di sicurezza turche, soldati, poliziotti, volontari dei villaggi (le famigerate guardie dei villaggio contro cui il movimento kurdo si batte da anni, ndr) continueranno la battaglia finché ovunque nel sud-est i terroristi verranno cancellati, finché verrà assicurata un’atmosfera di pace (sic). Non ci fermeremo! Combatteremo con la determinazione di sempre”. Una chiamata alle armi di fatto, che amplia quel fronte del terrore avviato, in funzione anche elettorale, con gli attentati dei mesi scorsi che olezzano di Servizi o sono il frutto del servizio dei miliziani neri.
Amplia quel fronte, investendo tutti gli apparati interni della forza nella coercizione non solo della piazza, ma della vita di milioni di kurdi di Turchia. Assimilati, in questa folle equazione, all’immagine d’un fantomatico nemico della patria: il terrorista. Il riferimento ai combattenti del Partito kurdo dei lavoratori è diretto, e quest’ultimo ha oggettivamente ripreso dall’agosto scorso la via dello scontro armato, ma il parallelo giocato da Erdoğan: kurdo eguale terrorista (che si può e si deve uccidere) oltre a un’aberrazione è una manovra losca volta a inquinare la quotidianità interna. Mira a spaccare il Paese, a contrapporre la sua gente, le etnìe comunque presenti e sempre più reali, non solo per la nota globalizzazione economica, ma per gli sconquassi geopolitici. Nel suo giocare con le vite di tutti, come i satrapi della politica sanno ben fare, a Erdoğan non pare vero di poter utilizzare per il suo scopo l’alibi della coalizione anti Isis voluta e guidata dalla monarchia saudita con la benedizione dalla Casa Bianca. Una coalizione da rivolgere contro i terroristi che per i prìncipi Saud, sono più i ribelli Huthi che gli uomini del Califfo di Raqqa. E per il sultano di Ankara diventano tutti i kurdi di casa la cui vita desidererebbe azzerare. Sconosciti e noti, Öcalan e Demirtaş compresi.

giovedì 17 dicembre 2015

Kobanê, la buona scuola per contrastare l’Isis

La forza di certa politica rivolta al popolo sta nel realizzare quel che serve in maniera opposta al populismo che spesso enuncia solo e non fa. Dal Rojava - regione sul confine turco-siriano dove la vita è comunque bella seppur difficile, visto che gli abitanti devono vedersela coi miliziani neri dell’Isis - giungono notizie su una particolare riforma della scuola. In situazione d’emergenza, perché lì vige il primum vivere, ma argutamente le autorità kurde del cantone di Kobanê, hanno compreso che contro ogni assedio un’arma formidabile è rappresentata dall’istruzione della propria gente. Certo, gli oltre settemila bambini in età scolare primaria (i dati riguardano una fascia corrispondente alle nostre elementari) devono accontentarsi solo di sette edifici ancora in piedi, risparmiati da ogni genere di bomba e granata. Ma in quella precarietà pulsa un progetto educativo a tuttotondo che adotta princìpi semplici della pedagogia: stabilire ascolto e relazione fra insegnanti e alunni, evitare le punizioni, soprattutto quelle fisiche che in alcune zone rurali, per consuetudini sedimentate, sussistono tuttora.

Nel piano di formazione, anche comportamentale della comunità, ci si rapporta ai familiari dei bambini affinché antichi retaggi scompaiano e si crei collaborazione e comprensione in ogni fase della vita infantile e adulta. Un insegnante che ci ha narrato la vicenda non nasconde la difficoltà del percorso, ma evidenzia il robusto legame seguito ai copiosi sforzi di attenzione, spiegazione, partecipazione fra quest’idea di scuola e la società dove si sta sviluppando. Quella collettività resta aperta e solidale, scopre e difende i valori di competenza, fiducia, collaborazione, responsabilizzazione fra gli adulti attuali e quegli adulti del domani che sono i bambini. Nel sentirsi parte attiva di un’entità scolastica e anche sociale, non mancano i contributi a un aspetto essenziale nella situazione d’emergenza vissuta dal Rojava: il concorso al mantenimento e miglioramento, pure fisico e logistico, di quel che si ha e si va ricreando. Un altro miracolo in cui il maestro di Kobanê spera, riguarda i libri di testo: dalla Turchia non arrivano, men che meno in lingua kurda, perciò lui sogna che, grazie all’aiuto internazionale, la città recuperi, dopo le scuole, una tipografia.