lunedì 21 dicembre 2015

La Voce del Califfato trasmette in Afghanistan

La campagna di reclutamento del Daesh in Afghanistan non tralascia alcun mezzo. Così i miliziani neri dopo essersi infilati fra le diatribe dei dissidenti talebani che contestano la leadership del mullah Mansour, aver utilizzato azioni armate contro le truppe Nato e contro certi turbanti doc, essersi introdotti in alcuni villaggi nella costruenda regione del Khorasan improvvisando scuole di jihad, lanciano nella provincia del Nangarhar una propria radio che usa la lingua pashto e si presenta come la Voce del Califfato. Il governo Ghani appare preoccupato dell’iniziativa che si sviluppa a tamburo battente esercitando, secondo il parere del governatore locale: “un vero e proprio lavaggio del cervello per gli abitanti”. La polizia è incaricata d’individuare il luogo di diffusione dell’emittente e distruggerne le postazioni, ma si è notato come parecchie trasmissioni siano registrate e abbiano una diffusione itinerante. Del caso s’interessa anche il ministero delle Comunicazioni afghano che ha dovuto constatare l’alta qualità e il buon livello tecnologico dell’etere jihadista, a conferma della già nota attenzione dell’Isis verso questo genere di propaganda, trascurata, invece, dai talebani.
Il loro portavoce locale, disdegnando simili sistemi mutuati dai costumi occidentali, esalta l’ispirazione combattentistica del proprio jihad ispirato dalla poesia islamista. Comunque l’emittente sembra fare proseliti e numerosi abitanti di Jalalabad, intervistati sul fenomeno da Al Jazeera, confermano di ascoltare quotidianamente la “Voce” e di trovarsi anche d’accordo con le accuse di anti islamicità rivolte al governo centrale. Uno specioso filmato del Califfato, apparso anche in un report di Tolo Tv, mostra, attraverso il classico montaggio video, le bandiere nere sventolare sul Palazzo di governo afghano; tali presenze anche virtuali preoccupano la politica ufficiale che parla di avvelenamento della gioventù. Ormai il progetto di “salvezza nazionale” della diarchia Ghani-Abdullah vive una profonda crisi, tantoché i due cercano d’interloquire coi Taliban di Mansour, ma in realtà appaiono ben poco ascoltati. I fondamentalisti interni ed esterni toccano con mano la debolezza governativa e puntano a sostituirsi a un progetto palesemente traballante, nonostante i dispendiosi sforzi economici e militari occidentali per continuare a sostenerlo.
Il responsabile delle forze statunitensi in Afghanistan Campbell, intervenendo sulla questione, afferma di tenere sotto controllo i “nuovi nidi dell’Isis”. A impensierirlo maggiormente sono le azioni talebane che da mesi mettono alle strette l’apparato militare locale con operazioni spettacolari come quelle di Kunduz nello scorso settembre e Kandahar a inizio dicembre. Iniziative non cessate che si proiettano un po’ ovunque. In questo fine settimana è toccato all’area dell’Helmand vivere una due giorni di “ferro e fuoco” che registra l’uccisione di 90 soldati dell’ANF. Si tratta dell’ennesima sferzata alla solidità del progetto militare americano “Resolute support” che non riesce a stabilizzare nessun genere d’iniziativa autonoma d’autodifesa dell’esercito governativo, continuamente piegato e umiliato dalle forze guerrigliere. Gli stessi apparati dell’Intelligence, ripetutamente sottoposti alla cura Cia, non producono gli effetti sperati neppure per contrastare il fenomeno dell’infiltrazione di talebani fra le truppe afghane. Così sono giunte le dimissioni di Rahmatullah Nabil, il capo del National Directorate of Security, un’altra struttura di Kabul che constata un elevato livello d’inefficienza e frustrazione.




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